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5.2 “Consolidamento” dell’identità femminile

5.8. Lavoro = vita

Come è noto, fra la ine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta l’Italia è cambiata dal boom economico che si protrae per tutto il decennio ino ai critici anni Settanta. Questa fase di crescita fu contras- segnata dalla trasformazione delle attività produttive, in cui si veriicò una enorme crescita del settore industriale e un altrettanto rapido declino delle attività agricole. Nel 1962 l’industria produceva già il 44% del reddito na- zionale, mentre l’apporto della produzione agricola scendeva al 27%, tredi- ci punti percentuali in meno rispetto al decennio precedente. Trasformazio- ne delle attività signiicò anche modiicazione nel settore dell’occupazione che vide crescere vertiginosamente le masse operaie e gli addetti al terzia- rio, mentre calavano gli occupati nell’agricoltura. L’inurbamento modiica in profondità la struttura della società: tra il 1951 e il 1961 la popolazione di Milano cresce del 25%, quella di Roma del 30% e quella di Torino del 43%. Una rivoluzione che comporta anche molta fatica: la fatica della ricer- ca di un proprio posto entro un assetto sociale radicalmente mutato. Dalle scritture emerge poi stretto nesso con la “vita” o, meglio, con la “fatica di vivere”, come emerge dal passo seguente:

Il lavoro, dunque, corrispondeva, nella mia ancora ingenua concezione, alla fatica del vivere. Si abbandonavano, pertanto, i sogni giovanili e quotidianamente si an- dava a faticare. Ci si alzava presto al mattino, si consumava rapidamente la prima colazione e poi via di corsa a timbrare il cartellino all’interno del proprio luogo di

lavoro, dove si trascorrevano almeno otto ore al giorno per sei giorni alla settima- na. Visto da vicino, o meglio visto dall’interno, il lavoro, però, assumeva via, via, signiicati diversi e sempre più complessi.

Tale complessità può essere interpretata in una dimensione dualistica: per un verso il lavoro giunge, nella vita di una donna degli anni Sessanta, come una grande possibilità emancipativa, oltre che di miglioramento delle condizioni economiche dell’intera famiglia. Per altro verso, il lavoro pre- senta una valenza formativa assai rilevante, poiché prepara alla vita socia- le. Del resto la vocazione umana alla vita activa (Arendt, 1958) pone l’es- sere umano in una condizione di ricerca della sua libertà dentro la “fatica”.

“Il lavoro” era, per me, semplicemente: fare qualcosa di “concreto” per guadagnar- si da vivere. Un signiicato che, insieme ad altri scoperti successivamente, mantiene, a mio parere, il suo valore nel tempo. Il lavoro (produttivo o meno, autonomo o di- pendente, faticoso, stressante o creativo come può esserlo nell’era di internet) è an- cora oggi, il modo per eccellenza di guadagnarsi da vivere onestamente.

Ciò che ai tempi dei greci era criterio distintivo rispetto alla vita poli- tica – l’essere lavoratore – è diventato fondamento della vita comune, della Res Publica. Ma molta strada rimane da fare per favorire l’accesso delle donne al mondo del lavoro che per superare il cosiddetto gap retributivo di genere rafforzando le misure di conciliazione tra tempi di vita e di la- voro. Numerosi studi indicano, infatti, un maggior benessere e un miglior funzionamento del sistema economico e del mercato del lavoro quando il coinvolgimento attivo delle donne cresce. Il Sessantotto ha segnato cer- tamente un punto di svolta anche in riferimento alla questione lavoro. E nelle scritture c’è, forte, la consapevolezza che, attraverso la “questione dei diritti del lavoro” passi, anche per le donne, la questione più ampia dell’e- mancipazione sociale e dell’inclusione. L’impegno politico passa attraverso la coscienza delle nuova “stagione dei diritti”.

Mi viene allora da ripensare all’importanza delle leggi, dei contratti collettivi, de- gli accordi aziendali, delle regole insomma che devono accompagnare il rapporto di lavoro. In ogni tempo e in ogni luogo. Adeguate, possibilmente, alla realtà che cambia, perché sta dentro il rispetto reciproco delle regole il riconoscimento della dignità delle persone.

È il lavoro che garantisce la dignità dell’uomo: quella condizione di nobiltà ontologica e morale in cui quest’ultimo è posto dalla sua natura. Innanzi alle profonde trasformazioni che il mercato del lavoro subisce og- gi, emerge dalle scritture la domanda circa il signiicato, oggi, di questa

importante parola connessa all’intimo valore dell’esistenza umana e la tri- ste constatazione di come la dignità oggi venga annientata dall’attacco del mercato allo Statuto dei lavoratori:

Ma qual è oggi, per me, il signiicato più profondo della parola “dignità”? E dov’è la dignità di una persona se non ha un lavoro e quindi un reddito per vivere la propria vita e per far fronte alle necessità della propria famiglia? Già! Allora, for- se, si deve dire che la prima dignità è quella di avere un lavoro. A qualsiasi prez- zo? Accettando qualsiasi compromesso? Mettendo a repentaglio la propria salute e la propria vita laddove non vengono rispettate le norme di sicurezza previste? No! Io penso proprio che non si possano accettare compromessi così al ribasso per po- ter campare. Soprattutto oggi che abbiamo una conoscenza vastissima in tema di salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro! Ma quando si ha fame? Che si può fare quando non si trovano alternative a lavori nocivi e mal pagati che proliferano so- prattutto in tempi di crisi economica più o meno pilotata, più o meno strutturale? Vorrei poter dare una risposta logica a questa domanda, ma proprio non mi riesce. In realtà, oggi, vedo moltissime persone che accettano di lavorare anche in assen- za di diritti.

E c’è la tenera comprensione per una generazione di ragazze e ragazzi sidate nella loro dignità da un mercato sempre meno stabile e tutelante:

Giovani più o meno intraprendenti che passano da un colloquio all’altro con l’an- sia di dover costantemente dimostrare di essere bravi in tutto quello che fanno an- che quando si trovano costretti a svolgere lavori di vera e propria schiavitù. Inol- tre ci sono anche molti padri e molte madri di famiglia che, avendo perso il lavoro “stabile e tutelato” a causa della “crisi” accettano di lavorare anche fuori da ogni tutela.

È proprio vero quello che scrive Cambi a proposito del “tempo-dei- disagi” che caratterizza la contemporaneità: “l’altro prima che socius è so- prattutto alter, spesso un di fatto estraneo e/o potenziale nemico” (Cambi, 2011, p. 49). Tale tempo rende dificile la difesa dei diritti acquisiti e anche il lavoro rischia di essere trasformato in una nuova forma di schiavitù:

Deve però essere retribuito dignitosamente, altrimenti, come nei casi dei raccogli- tori di pomodori di Rosarno, è una nuova forma di schiavitù.

Non si perde, tuttavia la speranza in ragione della crescita civile che la stagione dei diritti ha “consegnato” anche ai più giovani:

Certo, scrivere nuove regole e tutele adeguate in un contesto globalizzato, com- pletamente differente da quello degli anni Sessanta e Settanta, dove è cambia-

ta persino la dimensione del tempo e dello spazio, a me appare un po’ compli- cato, ma non impossibile. Credo, però, che questa, sia una sida che oggi devono raccogliere innanzitutto i sindacati, (penso alle tre grandi organizzazioni CGIL, CISL e UIL) i quali possono svolgere un ruolo ancora importantissimo di accom- pagnamento della classe lavoratrice, occupata e disoccupata, rappresentata nelle sue molteplici forme moderne, lungo un percorso, anche di lotta, che porti a rin- novare regole e obiettivi sociali. Ma dovranno farlo in modo unitario e inclusivo, e con lo sguardo lungo, che esca anche dai conini nazionali ponendo particola- re attenzione alla salvaguardia di quei diritti fondamentali che devono diventare “Universali”.