• Non ci sono risultati.

Responsabilità femminile nell’educazione del nuovo “maschio”

5.2 “Consolidamento” dell’identità femminile

5.6. Responsabilità femminile nell’educazione del nuovo “maschio”

Educare al rispetto delle differenze di genere diventa, dunque, la con- seguenza di un nuovo modo di essere donne e madri.

Tale obiettivo emerge netto, dall’analisi delle scritture, anche in ragio- ne delle molte descrizioni fatte dalle autrici di “mutamento” comunicativo delle relazioni uomo-donna: tale mutamento, evidente nelle relazioni di coppia, ha un impatto oltre che sul nuovo modo di parlarsi fra sessi (ironi- co, disinvolto, spontaneo) anche sul modo di impostare un “canone” educa- tivo nuovo rivolto ai differenti generi.

C’è una responsabilità avvertita nella ricerca consapevole della mater- nità:

Ho cercato e voluto un iglio e questo mi ha fatto impegnare nella vita di madre e di compagna.

E c’è una responsabilità più avvertita nel desiderare di accompagnare la crescita dei nuovi nati – soprattutto se maschi – con quella prossimità con- quistata innanzitutto come coppia. Non spaventano dunque le discussioni, la messa in crisi di certezze legate a ruoli storicamente deiniti:

Anche nella coppia ho avuto momenti in cui sentivo il conlitto tra me stessa e le esigenze che mio marito presentava in modo pressante. Tutto questo è stato possi- bile anche grazie al clima sociale che pubblicamente dibatteva il ruolo della don- na, i diritti uguali per tutti, e sulla società stimolandomi ad una ricerca personale.

I legami non sono più “ovvi”: la serenità e l’equilibrio di coppia diven- tano conquiste attivamente “volute”, mai subìte. E a volte la ricerca dell’e- quilibrio richiede un aiuto terapeutico.

Io e mio marito, entrambi preoccupati, avevamo visioni diverse: io sentivo che la mia relazione col iglio doveva cambiare e ho comunicato a mio marito la decisio- ne di farmi aiutare. Entrambi abbiamo seguito questo percorso.

Il rapporto scherzoso, affettuoso con il mio compagno. Poter contare l’una sull’al- tro. Rispetto reciproco, rispetto degli spazi di ognuno.

Ci siamo sposati dopo 25 anni di convivenza, ormai “d’argento”. Ora a 40 anni di distanza, penso che il nostro legame sia stato conquistato e consolidato strada fa- cendo. In un confronto continuo sulle nostre diversità di carattere che ci portava- no a sofferte vacillazioni, avevamo però una solida certezza sui igli che per me hanno rappresentato un profondo radicamento nella vita e una ricerca continua di proposte per farli crescere nel modo migliore. La seconda maternità è stata voluta per la certezza che un iglio unico avrebbe dovuto sopportare da solo due genitori molto impegnativi e pesanti come noi, soprattutto io che non lasciavo passare con leggerezza niente nella nostra vita.

Viene dunque da dire, alla luce di quanto emerge dalle scritture, che non è un caso che dopo il Sessantotto si affermi l’urgenza di educare al rispetto delle differenze e che se ne cominci a parlare come traguardo inte- grante della più ampia educazione alla cittadinanza. Lo ribadisce l’articolo 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’egua- glianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana

e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Tali principi trovano poi espressione e completamento in altri precetti costituzionali (quali, ad esempio, gli artico- li 2, 4, 6, 21, 30, 34, 37, 51) e nei valori costitutivi del diritto internazionale ed europeo che proibiscono ogni tipo di discriminazione. Così come nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla vio- lenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) che, in particolare all’articolo 14, deiniscono il ruolo della scuola nella prevenzione della violenza contro le donne. I lacerti delle scritture testimo- niano di questa elaborazione:

A casa mia non c’era parità fra genitori e igli. Gli adulti dovevano trasmettere principi e valori. Mio padre e mia madre erano diversissimi per mentalità e abitu- dini ma non si mostravano mai discordi in presenza di noi igli. Gli adulti si dava- no reciprocamente ragione e ciò valeva anche per i rapporti fra genitori e profes- sori. Il punto era che ragazzi ed educatori stavano su piani diversi e spettava agli adulti mostrare la retta via, del cui sapere dovevano in qualche modo dimostrarsi depositari. Ipocrisia o meno (che differenza con oggi, non c’è bisogno di dirlo!) la rigidità dei ruoli rendeva dificile comunicare.

Per quanto, tuttavia, la presenza femminile in campo sociale si estenda rapidamente e l’espansione dell’istruzione intercetti in Italia, dal post-Ses- santotto in poi, numeri mai raggiunti nella storia del Novecento, permane tuttavia una subcultura della discriminazione femminile che è giunta sino ai nostri giorni assumendo i tratti della violenza contro le donne12. Sembra

un paradosso, ma quanto più le donne affermano la propria effettiva auto-

12. Con l’estremizzazione del femminicidio. Secondo i dati diffusi il 20 novembre 2019 dal rapporto “Femminicidio e violenza di genere in Italia” della La Banca Dati EURES, la violenza di genere non cala. Nel 2018 sono stati 142 i femminicidi (+ 0,7% sull’anno prece- dente), di cui 78 per mano di partner o ex partner. L’85% dei femminicidi infatti avviene in famiglia, anche se nella metà dei casi a uccidere sono altri familiari. Nel 28% dei casi “no- ti”, le donne uccise avevano subito precedenti maltrattamenti spesso note a terze persone. Nel complesso i femminicidi seguono un trend diverso da quello dell’insieme degli omici- di commessi in Italia, che sono in forte calo anno dopo anno. Sono 352 gli omicidi volonta- ri nel 2018, contro i 1219 del 1983 e i 502 del 2013. Le armi da fuoco sono il mezzo più uti- lizzato (32,4% dei casi), il 23% delle donne è stata uccisa con arma da taglio e un altro 23% a mani nude. No: non parliamo in generale di omicidi di donne, ma di “femminicidi” nel suo reale signiicato, quello issato nel 1992 da Diana Russell nel libro Femicide: The Poli- tics of woman killing, e assunto dalla rilessione femminista successiva: “una violenza estre- ma da parte dell’uomo contro la donna proprio perché donna. Quando parliamo di femmi- nicidio quindi non stiamo semplicemente indicando che è morta una donna, ma che quella donna è morta per mano di un uomo in un contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le donne”. Fonte: “Sole 24 Ore”, La violenza di genere è una questione complessa. Il femminicidio spiegato bene, 30 novembre 2019.

nomia, tanto più riesce dificile, per alcuni uomini, accettarlo come esito compiuto di una evoluzione civile dei diritti e dei costumi. Mari (2016, p. 36) ricostruisce i prodromi di questo paradosso nel crocevia politico- culturale nel quale conluì per un verso la contestazione, ovvero la critica radicale della tradizione, per altro verso la “rivoluzione sessuale” e la “lot- ta di classe” con la conseguente rivendicazione liberale dei diritti civili. Si è così conigurata la cornice per l’emergere del “pensiero femminista” contemporaneo di cui Mari riconosce tre fasi fondamentali. Dall’iniziale lotta politica inalizzata alla conquista della piena cittadinanza attraver- so l’accesso al voto (protrattasi ino a metà Novecento), si è passati negli anni Sessanta-Settanta alla rivendicazione dell’uguaglianza con l’uomo in campo sociale e produttivo oltre che politico, per giungere – con gli anni Ottanta-Novanta del Novecento – a rivalutare, oltre l’uguaglianza, la diffe- renza esistente fra uomo e donna. Una differenza che, purtroppo, si tende, oggi, a negare. Si comprende, dunque, perché la sida educativa sia oggi proprio la seguente: riscrivere il signiicato della differenza valorizzando le speciicità dei generi. Se rileggiamo l’esperienza del rapporto fra sessi con occhi “educati” a saper valorizzare le differenze comprendiamo molto più facilmente di quanto accadesse in passato che non c’è gerarchia fra i sessi e che l’essere diversi non signiica corrispondere a immagini normative e stereotipate del proprio genere. Non c’è maggior amore per la matematica da parte dei maschi o maggior disposizione alla cura da parte delle fem- mine: la realtà dimostra che gesti, parole, sensibilità sono appannaggio di entrambi e che le convinzioni circa i ruoli sono trasmessi dal gruppo dei pari, dalla televisione, dal cinema, dalla Rete, dai libri, dai giochi, dalle canzoni. “Maschio” e “femmina” non sono etichette che denotano com- portamenti predeiniti perché ci sono ininiti modi positivi di essere don- na e altrettanti di essere uomo. E l’educazione insegna ad accettarli nella reciprocità. Come scrive Demetrio l’eterna diatriba fra i sessi dovrebbe essere ricondotta all’interno delle rispettive appartenenze. “A uomini che dovrebbero denunciare con maggior vigore l’arroganza, gli abusi di potere, il disprezzo dei propri simili verso le donne. E, al contempo, a donne meno propense a giustiicare anche chi, tra loro, ha imparato le pessime abitudini maschili e forse ce ne ha insegnate alcune” (Demetrio, 2010, p. 11).