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Nel mondo dei metodi e delle tecniche teatrali: il teatro come laboratorio sociale

3.2 Diderot e il problema della realtà

Le teorie dell'arte attoriale che sono state formulate nel corso dei secoli sono molteplici, tuttavia giungendo ad un alto livello di astrazione, utile ai nostri fini, possiamo racchiuderle in due grandi filoni di pensiero che le hanno ispirate e che si muovono a partire da una questione molto cara anche alla sociologia e della quale ho già parlato: la realtà.

Realismo fantastico e stili "non realistici, come li definisce Strasberg nel 1987, sono le correnti che fanno capo a due concezioni diverse del teatro e del mestiere dell'attore e riconducibili principalmente a Stanislavskij e alla tecnica dell'immedesimazione da un lato e a Brecht e alla tecnica dello straniamento dall’altro.

La preoccupazione di mostrare il vero, inteso come aderenza assoluta al reale, o di replicare la vita, è sempre stata la centro dei discorsi di intellettuali e drammaturghi sin dai tempi dell'antica Grecia e questa aderenza è sempre stata ottenuta conseguentemente alla capacità dell'attore, nello svolgimento dell'azione scenica con l'interpretazione del proprio ruolo, di suscitare impressioni ed emozioni prima di tutto in sé stesso e quindi, specularmente, negli spettatori. Una capacità in bilico

92 costante tra "l'essere e il non essere" sé medesimi, tra il dentro e il fuori delle vicende del personaggio e la storia alla quale egli appartiene. Le due principali concezioni che espongo di seguito, incarnano, pertanto, l'opposizione tra il mondo esterno e il mondo interno al ruolo ricoperto sulla scena.

Questa duplicità si fa più forte verso la fine del Settecento quando Diderot formula il paradosso sull'attore13 nel quale si afferma che solo l'attore privato totalmente della

propria sensibilità può divenire sublime, in altre parole perdendo la propria aura romantica di interprete emozionato ed emozionante e partecipe dei sentimenti del proprio caractère théâtrale per divenire un professionista, che con estremo raziocinio e sofisticata tecnica, recita in una condizione di assoluto distacco emotivo. Profondamente concentrato sulla propria prestazione e dimentico della presenza del pubblico egli innalza una quarta parete, il muro invisibile tra la ribalta e la platea. Ogni dialogo e ogni mongolo avviene in assenza della considerazione degli spettatori presenti in sala, affinché venga garantita la massima coincidenza tra il dato della vita sociale e il dato della scrittura, nel trionfo del principio della ragione. L'illuminista Diderot è indubbiamente un precursore del realismo, seppure appartenga al periodo del dramma borghese un genere destinato a interpretare le ambizioni, i fantasmi i luoghi della nuova classe sociale in ascesa: danaro, fortune, mercanti, café e locande lontane dai saloni reali dell'ancien régime. Questa dedizione quasi maniacale alla rappresentazione del reale ha caratterizzato, in seguito, il Teatro Naturalista francese dell'ottocento, anche perché Diderot ne ha ispirato i fondamenti, essendo il suo lavoro uscito postumo cinquant'anni dopo nel 1830. Nonostante la breve parentesi della tragedia romantica, dove la ragione si eclissa in favore del sentimento e delle passioni, tutto il resto dei palcoscenici del teatro borghese è coinvolto nella ricerca del vero e del reale, di un reale rievocato e ricostruito materialmente in dettaglio sulla scena e separato dal reale immediatamente al di là del sipario e dell'arcoscenico che sottolinea la finzione del compito svolto dalla cornice teatrale. Questa specularità costituita da binomi costantemente posti in antitesi concettuale quali palco/platea, teatro/società, finto/reale, emozione/ragione, ha sempre alimentato dibattiti, talvolta dai toni marcatamente polemici, sorti sin dai ai tempi di Platone e del suo Ione.

In quest’opera Ione, il protagonista, discute con Socrate della profondità emotiva

13 Diderot che l’estrema sensibilità di un attore lo rende mediocre, che la sensibilità mediocre fa una schiera infinita di cattivi attori e che solo l’assoluta mancanza di sensibilità prepara gli attori a di- ventare sublimi. (cfr. Diderot 1830).

93 della propria performance attoriale, questione passata anche per le mani di Pirandello, il quale ha mostrato quanto la finzione, camuffata da una fabbricazione, possa apparire essere reale e il reale possa apparire finto.

Nel paradosso di Diderot l'emozione dell'attore, la sua sensibilità nei confronti delle condizioni del personaggio, genera un'enfasi che lo conduce ad una prestazione mediocre e palesemente finta. A questo proposito, Diderot racconta l'aneddoto del grande attore Henry-Louis Lekain alle prese con la scena più drammatica della "Semiramide" di Voltaire in cui, finto di sgozzare l’attrice che interpreta sua madre, mentre trema pieno d'orrore e mentre il pubblico partecipa emotivamente del gesto, spinge con il piede dietro la quinta l'orecchino caduto alla sua collega durante la recitazione della colluttazione. Dunque, Diderot chiede “Chi è Lekain? È o non è Ninias artefice dell'omicidio di colei che lo ha partorito?” (Lunari 2007, p. 59).

Per lui la risposta non può che essere negativa: "no, egli è solo un attore" perché la sua sensibilità emotiva dell’attore è irreale, studiata e preparata a tavolino, quindi, finta mentre la razionalità, come capacità di gestire la tecnica, è l’unico elemento reale dello spettacolo. La categoria di paradosso, impone di ricorrere ad una riflessione di natura filosofica per spostare l'attenzione sul procedimento logico cui è pervenuto Diderot e che ha portato alla divisione concettuale tra emozione e ragione, tra finzione e realtà.

Invero, com'è stato sostenuto quando la questione è stata affrontata dal punto di vista delle scienze sociali, la contrapposizione tra categorie si è dimostrata essere fallace se si assumono entrambe come prodotti di una costruzione.

Da Schutz a Goffman in poi, sappiamo che la questione sulla realtà o meno di uno spettacolo, in sociologia, dipende da una definizione della situazione da parte degli attori. Pertanto, se chiedessimo, ipoteticamente, tra il pubblico "Mi scusi, lo spettacolo è reale o finto?" oppure riferendoci all’attore "Ma è Amleto o Marco quello sul palcoscenico?” sapremmo che la risposta dell’interlocutore è data in base ad una attribuzione di significato, da un’operazione di interpretazione dell’evento: dal keying. Ma in passato il problema “dell’essere e del non essere sulla scena” ha posto una questione di tipo legale, legata alla doxa, ovvero al senso comune, poiché l'attribuzione della falsità o meno nella definizione di una circostanza o nella genesi di un'affermazione genera, inevitabili, conseguenze nel diritto (Jellamo 2011). Il primo a manifestare questo dubbio di incertezza è Solone in un episodio della propria vita tramandatoci dagli scritti di Plutarco. Questo racconta l'aneddoto secondo il

94 quale alla fine di uno spettacolo di Tespi, uno dei primi aedi ad organizzare rappresentazioni tragiche, il legislatore indignato si sia avvicinato a lui chiedendogli se non si vergognasse di fingere in quel modo di essere qualcun altro. Nell'incipit del primo attore "Io sono Edipo", infatti, è racchiuso il paradosso dell'essere e del non essere al contempo, questione centrale, anche, nel noto monologo seicentesco del principe di Danimarca, che finirà col diventare, da ossessiva, del tutto irrilevante quando sostituita dalla consapevolezza, del suo paradosso, dell'impossibilità di essere risolta. La dottrina aristotelica del "principio di non contraddizione" di cui si serve Diderot, pertanto, non spiega adeguatamente la realtà in termini sociologici nei quali, invece, è assunta come multipla (Schutz 1945a). Il polemos è l'origine di tutto (Eraclito 535-475 a.C., frammento 53) la realtà può divenire solo per tesi e antitesi contemporaneamente, ossia per ciò che è e che al tempo stesso non è: essa non possiede caratteristiche intrinseche che lo determinino in assoluto come tale; è reale e non reale al tempo stesso a seconda del valore attribuitogli. La posizione di William Thomas in proposito sembra chiarire il punto di vista sociologico «se l’uomo definisce reali le situazioni, queste sono reali nelle loro conseguenze» (Thomas 1928, sp). Pertanto, "è reale" ciò cui viene attribuito il valore di "essere reale", proprio in quanto "attribuzione" e non in quanto proprietà dell'oggetto. Allora, la finzione «si presenta, piuttosto, come una possibilità di costruzione di nuovi mondi che l’immaginazione letteraria – e teatrale – dota di consistenza che perdura nel tempo; a volte questa finzione si presenta nella forma del disvelamento e della rivelazione» (Parini 2012, p. 12).

Presa la realtà come costituita da microcosmi di senso molteplici e differenti gli uni con gli altri che assumono, a loro volta, valore di reale sulla base di attribuzioni soggette al medesimo meccanismo di costruzione sociale, affermare che "finzione" e "realtà" non possano entrambe accadere contemporaneamente appare fuorviante. Ad oggi, molte pratiche teatrali sono lontane dal naturalismo del teatro e dalla sua ossessione per la somiglianza alla società e hanno superato, inoltre, le concezioni della tendenza a demolirla tou court dell'arte per l'arte, grazie all'opera di alcune compagnie, di alcuni registi e della compenetrazione tra teatro e sempre più aspetti del sociale. Adesso, più visibilmente che in passato, esso costituisce a tutti i livelli un'esperienza collettiva, nel tempo e nello spazio, non a caso il significato profondo del termine "teatro" è "luogo di incontro" e in quanto esperienza di un luogo condiviso esso è spazio sociale intriso, quindi, di relazioni e scambi simbolici.

95 Scambi che avvengono anche nella modalità dell'incontro con l'altro culturalmente diverso da sé per mezzo di un linguaggio che pone la fisicità, la materialità del corpo dell'individuo al centro dei propri messaggi, della propria comunicazione. Il linguaggio drammatico è diverso e al contempo non è diverso da quello della quotidianità, che con le sue pratiche ci permette di osservare forme a conosciute e forme sconosciute dell'interazione sociale.

Diderot pretendeva che un attore fosse in grado di programmarsi e di controllare la propria esibizione, che si esercitasse a prevedere ogni passaggio calcolando, senza possibilità di sorpresa, tutto l'arco della rappresentazione. Quindi: razionalità e distacco dall'emotivo, niente da lasciare al caso o all'incidente, tanto meno allo stato d'animo e alle trippe (Fo 1987, p. 15).

Per me che sto evidenziando l'utilità, ai fini delle indagini condotte all'interno delle scienze sociali, di alcune tecniche recitative e ad essa preparatorie e, pertanto, avendo mutato il mio sistema di riferimento per descrivere e definire le circostanze dell'acting, ragione ed emozioni non si escludono l'un l'altra semmai, come argomenta la sociologia delle emozioni, esse convivono insieme nelle pratiche sociali e in tutto il corso della nostra esperienza esistenziale.

A prima vista, l'accostamento tra passione e capacità di mantenere uno sguardo più distaccato e consapevole di fronte alle condizioni della nostra esistenza appare del tutto paradossale. Tuttavia sembra proprio che occorra muoversi in questa direzione se si vuole, da un lato, salvare le energie contenute in un importante ambito delle nostre emozioni e, dall'altro, evitare che esse ci conducano a esiti distruttivi. L'assenza di passione compromette gravemente la possibilità di impegnarsi veramente in un qualunque progetto che orienti il nostro agire (Crespi 2013, p. 52).