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Osservazione partecipante, accesso al campo e strumenti ausiliari di raccolta dati: le peculiarità dei case studies

Etnografia dietro le quinte: l'analisi dei case studies

4.1 Metodo etnografico e contesti osservati 1 Sull’etnografia: una premessa

4.1.2 Osservazione partecipante, accesso al campo e strumenti ausiliari di raccolta dati: le peculiarità dei case studies

L'osservazione partecipante, applicata ad alcune peculiari situazioni della pratica drammatica, ha necessitato di adattamenti ed accorgimenti al fine di restituire un'immagine quanto più precisa del contesto osservato. Questa peculiarità è data

144 dalla natura “effimera” dei laboratori: essi sono innanzitutto di breve durata ma profondamente immersivi, ossia capaci di catturare totalmente assorbendo tutta l'attenzione e l'interesse di chi sceglie di aderirvi e, secondariamente, provvisori nel senso che non creano un insieme definitivo di persone ma un gruppo che si costruisce appositamente attorno al lavoro da svolgere. I laboratori rappresentano l'occasione in cui il regista di una compagnia, da solo o avvalendosi della presenza dell'intera o di parte della compagnia, dischiude il proprio mondo all'esterno, veicolando il proprio metodo e la propria specifica concezione dell'arte teatrale a partecipanti provenienti da altri vissuti o, come avviene in alcuni casi, anche ai profani della recitazione generando un incontro tra tradizioni culturali e pratiche diverse.

Non avevo immaginato nemmeno una selezione dei partecipanti, se non quella che si sarebbe verificata naturalmente. Oltre ad un azzeramento sul piano comunicativo (un lavoro per uno spettatore solo si configura necessariamente come grado zero dell'esperienza teatrale), – il riferimento è al laboratorio sull'Edipo dei mille - il progetto proponeva un azzeramento anche sul piano interno all'esperienza di gruppo. Se volevamo seriamente praticare un ricominciamento dovevamo avere il coraggio di metterci in gioco completamente. […] La prima condizione da raggiungere era trasformare questa somma di individui in un gruppo(Munaro 2010, p. 28).

Se la raccolta dei dati, come in questo caso, si basa sull'osservazione di quanto avviene all'interno, il teatro può essere analizzato nei termini di un particolare segmento sociale ma non come subcultura poiché costruisce di continuo attorno a sé piccole comunità, ciascuna dotata di una propria identità, che non sempre finiscono con l'istituzionalizzarsi in compagnie stabili. È proprio tra le schiere del teatro sperimentale, fondato su incontri laboratoratoriali, convention, workshop, seminari e prove aperte, che si è sviluppata la tendenza alla realizzazione di eventi formativi e performativi a seguito dei quali spesso il gruppo costituito si scioglie. A questa brevità sopperisce la grande intensità che caratterizza queste esperienze a livello non solo della mole di lavoro da affrontare ma anche e, sopratutto, sul piano della costruzione delle relazioni sociali. L'intensità di queste occasioni di confronto mi ha consentito, pertanto, di compiere un adattamento agli storici tempi imposti dal metodo etnografico configurandosi in quella che mi sembra più opportuno definire

145 come una partecipazione osservante (Gold 1958) ma che preferisco chiamare short intensive partecipant observation: una osservazione di breve periodo, particolarmente densa che mi ha vista coinvolta in prima persona negli spazi propri del teatro o in quelli teatralizzati per l'occasione.

Una seconda caratteristica peculiare di questo studio discende dall’essermi occupata di un campo con il quale ho una certa familiarità: il rischio di un elevato coinvolgimento emotivo. In genere queste circostanze aggiungono difficoltà ad un lavoro già complesso, come quello etnografico, e che richiede allo studioso di continuare a mantenere la giusta distanza dal proprio oggetto, problematiche che in questo lavoro ho tramutato in un punto di forza più che di svantaggio. La questione di un mio eventuale coinvolgimento emotivo è stata infatti arginata grazie alle mie precedenti e attuali esperienze all'interno del mondo teatrale che hanno reso più semplice l'accesso al campo e quindi la percezione da parte degli altri attori che fossi “una di loro”; secondariamente mi hanno permesso di cogliere aspetti la cui comprensione è stata facilitata dal mio farne parte.

Infine, padroneggiando già molte delle tecniche teatrali eseguite, non ho subito un elevato grado di coinvolgimento, memore non solo degli insegnamenti della metodologia della ricerca sociale che impongono il mantenimento del distacco, quindi di capacità di gestione emotiva della scena (per esempio attraverso lo straniamento brechtiano). A questo proposito Dal Lago e De Biasi scrivono che «la garanzia più forte che un etnografo può adottare a favore dell’imparzialità e dell’oggettività del suo lavoro è la trasparenza delle procedure di descrizione e soprattutto delle ragioni che lo hanno spinto ad adottarle» (Dal Lago, De Biasi 2002, p. 18)

L'abbandono dei preconcetti, condizione necessaria ad una buona ricerca, è stata poi favorita dalle altre tecniche teatrali, che, come abbiamo visto, proponevano a tutti i partecipanti di assumere un atteggiamento iniziale di apertura nei confronti dell'azione alla presenza degli altri, allenando la mente a far tabula rasa di formulazioni precostituite rispetto all'esperienza e cliché sulla percezione del circostante.

La scrittura sul campo e la redazione delle note etnografiche, a partire dall'evocazione delle scene rilevanti cui ho preso parte, mi hanno consentito un primo livello di analisi di cui ho effettuato un ulteriore approfondimento tramite interviste semi-strutturate a testimoni privilegiati, studio dei documenti, analisi delle

146 performance cui ho assistito. L'interesse nei confronti dei significati soggettivi che gli individui attribuiscono alle loro attività̀ e ai contesti di vita, nonché ai sistemi di credenze condivisi dai membri di una cultura, come le rappresentazioni sociali, richiedono un esame dei documenti e delle interviste dal punto di vista del loro contenuto e delle loro forme. Anche questo fa parte del lavoro etnografico. Infatti gli etnografi «possono lavorare con artefatti culturali, come testi scritti o registrazioni di interazioni che non hanno raccolto loro in prima persona (Silverman 2000), per questa ragione ci si riferisce con il termine “etnografia” all'approccio generale e con “osservazione” a ciò che si è visto e a ciò cui si è partecipato in prima persona, quindi nello specifico anche alle sue modalità guida all'interazione. Questi documenti si compongono di testi scritti e mediali nonché di dati visuali quali immagini e video prodotti a monte della mia presenza.

Come ho detto, la dimestichezza con il palcoscenico mi ha consentito un facile accesso al campo; tuttavia, l'indossare non più i panni dell'attrice ma del ricercatore sociale, sforzandomi nella comprensione delle azioni e reazioni altrui, ha fatto di questa breve ma intensa "coabitazione" dello spazio scenico una esperienza nettamente diversa dalle precedenti, in cui la distanza tra me e il mio oggetto di studio si è ridotta, aiutandomi a percepire nuovi aspetti, mai colti prima, per cogliere quello specifico regno di realtà. In particolare l'osservazione partecipante ha permesso di tracciare le profonde differenze di significato, attribuito ai ruoli sociali, tra il punto di vista interno ad gruppo costituito e quello esterno, come spesso avviene all'interno di cerchie ristrette come le comunità religiose o gli ordini professionali; ha permesso di entrare dentro quel gruppo sociale che svolge le proprie pratiche relazionali e di training, al di là della platea, al riparo dagli sguardi esterni.

L’idea che mi guidava qui era quella di spingere la logica dell’osservazione partecipativa al punto del suo rovesciamento, dove si trasforma in una partecipazione osservante. Nella tradizione anglo-americana, quando gli studenti di antropologia vanno per la prima volta sul campo vengono messi in guardia: “Don’t go native”. Nella tradizione francese, l’immersione radicale è invece ammessa – si pensi a Les Mots, la mort, les sorts di Jeanne Favret-Saada – ma a condizione che sia accompagnata da una epistemologia soggettivista che ci faccia perdere nell’intima profondità del soggetto-antropologo. Al contrario la mia posizione è “go native” ma “go native armed”, vale a dire vai equipaggiato dei tuoi strumenti teorici e metodologici, di tutto il bagaglio di problematiche

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ereditate dalla tua disciplina, della tua capacità riflessiva e d’analisi e guidato dallo sforzo costante, una volta superata la prova di iniziazione, di oggettivare questa esperienza e di costruire l’oggetto – anziché lasciarti ingenuamente includere e costruire da esso. Vai avanti, go native, ma torna sociologo! (Wacquant 2007)16.

L'osservazione partecipante, a maggior ragione se breve e intensiva, utilizzata come tecnica per catturare il senso attribuito alle cose e i processi che ne hanno favorito la costruzione implica necessariamente degli input da parte dello scienziato volti a sondare il campo nella direzione di un soddisfacimento dei propri interrogativi scientifici. Quindi, tenuto presente che nel metodo etnografico il ruolo del ricercatore non è mai neutro e che, come spiegato, egli incide sull'indagine perché vi partecipa in prima persona "situando" la propria e l'altrui azione soggettiva in un contesto determinato, il risultato finale è una situazione irripetibile nella quale avviene una interazione irriproducibile.

È questo hic et nunc che si realizza tra il ricercatore e i suoi interlocutori nell'osservazione partecipante e allo stesso modo tra attore e pubblico in un certo tipo intervento drammatico, quello laboratoriale e sperimentale, ad aver guidato la mia ricerca e l'individuazione dei miei case studies all'interno di quello che si configura come Teatro dello spettatore17 e ad aver permesso la loro analisi, proprio in virtù di

questa somiglianza, mediante l'utilizzo del metodo etnometodologico.

Il teatro dello spettatore è una peculiare forma di interazione artistica che si configura come un capovolgimento della storica suddivisione dei ruoli osservatori/osservati, ovvero come esperienza extraquoditiana ed elemento di interruzione della routine esattamente come lo sono gli esperimenti della scuola californiana di sociologia diretta da Harold Garfinkel negli anni '60. L'intrusione di un cambio di regole, infatti, mostra tutta la propria invincibile forza esplicativa rispetto alle imposizioni che ci provengono dal mondo dei fatti sociali e delle istituzioni (Garfinkel, 1967).

16 Il passo è tratto da un’ intervista a Loїc Waquant realizzata in occasione del terzo

Ethnografeast tenutosi presso il Centro de Estudios de Antropologia Social (CEAS) con il patrocinio della rivista Ethnography, nei giorni 20–23 giungo 2007, pubblicata sulla rivista online Concecutio Temporum, Rivista critica della postmodernità, il 13 Febbraio 2012. L’intervista è disponibile all’indirizzo internet: http://www.consecutio.org/2012/02/il-ghetto-e-lo-stato-penale/

17 Il termine viene utilizzato da alcune compagnie per indicare quegli spettacoli e quei laboratori aperti al pubblico, in generale quelle esperienze drammatiche, in cui è centrale il ruolo assunto dall'uditorio che, coinvolto all'interno della scena, diviene esso stesso attore del dramma. I registi Massimo Munaro e Gigi Gherzi ne fanno riferimento più volte per descrivere le costruzioni drammaturgiche della loro produzione teatrale.

148 I casi di questa ricerca, pertanto, sono stati individuati proprio sulla base di questa capacità di smascherare la realtà quotidiana e invertire i compiti imposti dalla messinscena naturalista, delineando due nuove figure idealtipiche di agenti:

1. gli attori/spettatori 2. gli spettatori/attori

I primi sono quelle persone che hanno aderito agli spettacoli e ai laboratori teatrali in qualità di attori professionisti o semi-professionisti, di persone, cioè, che avevano già avuto esperienze teatrali nel corso della loro vita e chiamati a relazionarsi tra loro e con il pubblico con una serie di esercizi e tecniche drammaturgiche volte ad accogliere l'altro fuori dalle linee guida di canovacci e sceneggiature precise. I secondi rappresentano coloro i quali hanno deciso di assistere/intervenire ad uno spettacolo o ad un laboratorio senza aver mai fatto esperienza teatrale e che, sottoposti agli stimoli del regista e della sua equipe, sono stati chiamati ad agire attivamente sulla scena. In questo contesto tutti si relazionano tra loro osservandosi a vicenda e questa reciproca osservazione da origine a nuove azioni e comportamenti, in altre parole, a nuovi significati che non possono essere codificati in base a ciò che ci sembra di vedere, o valutati secondo i criteri del senso comune, ma che per il loro stravolgimento dello stato "normale" delle cose, incarnano una costruzione sulla quale ci si deve soffermare.

Se da un lato, nel precedente capitolo, ho indicato quegli esercizi e quei metodi che possono essere utilizzati come mezzo efficace alla raccolta delle informazioni all'interno della conduzione di indagini sociali di vario genere (prodotti culturali, pari opportunità, rappresentazioni sociali e i gruppi etnici, minoranze linguistiche, devianza,ecc) io ho inteso, nella mia dimostrazione di ciò attraverso i case studies considerarli alla stregua di esperimenti di tipo etnometodologico e pertanto li ho analizzati alla luce della loro capacità di generare "smarrimento", "spaesamento", "confusione sul senso" attribuito loro dagli attori che vi hanno partecipato. In altre parole, ho concentrato l'attenzione su quelle pratiche del mondo teatrale e quelle piccole comunità stabili o temporanee costituitesi attorno ad esso per le quali il senso attribuito ad espressioni comuni quali "camminare nello spazio", "avere fiducia", "sentire la solitudine", "incontrare l'altro", "fare esperienza emotiva del proprio vissuto" assume un valore diverso, specialmente sul piano esperienziale.

149 appena delineato le mie ipotesi di ricerca quando, due mesi dopo l'inizio del dottorato, è stato organizzato un laboratorio teatrale all'interno del Piccolo teatro dell'Università (PTU) su proposta di alcuni docenti del Corso di Studi in Comunicazione e D.A.M.S. in collaborazione con l’Associazione ZAHIR. A guidare queste giornate, dal programma molto intenso e dal titolo "I cinque sensi dell'attore: le stanze di Amleto", era il regista Massimo Munaro del Teatro del Lemming di Rovigo caratterizzatosi, nel panorama teatrale nazionale, come esempio di ricerca creativa sul coinvolgimento drammaturgico e sensoriale dello spettatore.

Come sono solita fare prima di partecipare a qualsivoglia evento, tornata a casa, ho raccolto informazioni sulla Compagnia trovando una lettera, di appena un anno e mezzo prima, che Massimo Munaro aveva inviato ad alcuni giornali per denunciare pubblicamente due episodi di censura: il primo avvenuto ad opera del Sindaco del comune di Chiavasso, nei confronti del Teatro a Canone, che aveva impedito il debutto dello spettacolo che aveva per tema la vita della brigatista Mara Cagol e il secondo episodio che lo coinvolgeva direttamente per essere stato egli stesso tirato al centro di una polemica sull'Antigone da parte dell'organizzatore della rassegna che ospitava il Teatro del Lemming, che accusava gli attori di "immaginari sputi al pubblico", motivazione che il regista rodigino attribuiva invece alla capacità dello spettacolo di "sovvertire" le convenzioni teatrali con i propri elementi provocatori e riflessivi, nonché con le sue particolari modalità di messinscena.

viviamo sicuramente in un periodo dove essere al di fuori delle norme e delle convenzioni viene catalogato come pericoloso, indecente, da evitare, ghettizzare, certo da non promuovere. Sarebbe molto più semplice attenersi alle abitudini, rispettare gli schemi, seguire le mode, non disturbare, non provocare, non scuotere il pensiero e, soprattutto, le emozioni. Così, d’altronde, fa la maggioranza di noi. Di fronte ad una censura o ad una polemica pubblica, sarebbe più conveniente, di questi tempi, chiedere scusa, rinunciare ad un banale spettacolo, adeguarsi. Sarebbe la strada più comoda sospesi come siamo tra gli annunciati tagli ministeriali e i ricatti di un potere diffuso che cerca consensi e non certo polemiche.

Ma per chi fa teatro e nel teatro ci crede, come può non accendersi una luce nel momento in cui il teatro smette di essere innocuo e viene riconosciuto finalmente nella sua natura dirompente, una natura che è in grado di scuotere gli animi, di creare spazi di discussione, di dialogo e di riflessione pubblica? Come

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si può non sperare, piuttosto che disperare, nel momento in cui la teoria si fa pratica? (Munaro, 2009)18.

È stato l'uso di vocaboli come "convenzioni", "abitudini", "schemi", "mode", "dirompente", "riflessione", "teoria" e "pratica", propri del dizionario delle Scienze Sociali e in questo caso connotativi del tipo di drammaturgia sostenuta da Munaro, a promuovere, ai miei occhi, l'inserimento del Lemming in questo studio.

Quando ho dovuto individuare il mio secondo caso, la decisione di recarmi a Londra, per un periodo di sei mesi, fu quasi una scelta "obbligata" poiché lì si trova attualmente l'unico accademico esempio di "matrimonio combinato" tra sociologia e teatro, ovvero il PhD in Sociology of Theatre and Performance Research Group (STPRG), dove si esplorano e si determinano i confini della materia (cfr. cap II, par.2.3). Inoltre, è sempre nella capitale britannica che, nel 2008, è stato condotto lo studio dal titolo, in acronimi, IPSA, del quale si è già accennato nella introduzione e che ha visto quattro gruppi di immigrati nella East London, coinvolti nelle pratiche teatrali del Playback e del Forum theatre.

Il Playback si configura come peculiare tecnica di storytelling in cui la trama della performance è costituita da un'esperienza raccontata dallo spettatore stesso che, pertanto, diviene oltre che protagonista della rappresentazione anche, di fatto, il suo sceneggiatore e il suo autore.

Questa circostanza si presentava quindi doppiamente utile alle mie argomentazioni non solo per la particolare forma di relazione audience/performer, ego/alter che lasciava si prospettasse nello spazio scenico non convenzionale di una stanza o di un café ma come esempio del suo utilizzo in ambito accademico per la ricerca condotta dal team di sociologi dell'Università ad Est di Londra sulle rappresentazioni sociali e gli immaginari collettivi di gruppi di migranti.

Per compiere la ricerca etnografica su ambedue questi gruppi ho preso parte, per ciascuno di essi, ad un laboratorio, ad una performance dal vivo e ad una presentazione pubblica del gruppo in un contesto non teatrale (presentazione di un libro e convegno) raccogliendo note, impressioni, resoconti delle attività svolte sul mio diario di bordo. Infine, a conclusione dell'osservazione, ho realizzato interviste semistrutturate ai principali fautori scegliendo questo strumento per raccogliere il

18 Munaro M. Lettera di un teatro ai teatri italiani, dell’Ottobre 2009 è pubblicata sul sito internet del Teatro e del Lemming e inviata ai giornali. La lettera è disponibile all’indirizzo:

151 punto di vista formale e organizzato in una discussione dettagliata con i soggetti "chiave", vale a dire i protagonisti di questo studio e mettermi in relazione con loro ma al contempo poter fare qualche domanda "sonda", utile a valutare la plausibilità le mie ipotesi. Nel testo sono presenti stralci di queste interviste.

Con il Lemming questa raccolta di informazioni mediante interviste è stata facilitata dalla richiesta del regista ai partecipanti del laboratorio di esprimersi “a caldo”, a proposito delle esperienze vissute tramite un commento. Infatti, alla fine di ogni improvvisazione o esercizio del laboratorio teatrale, e all'indomani di uno spettacolo, il regista del Lemming è solito chiedere agli attori di parlare delle loro sensazioni ascoltando le loro prime impressioni, come in una sorta di focus group, ma senza alcuna implicazione sul piano della raccolta di dati. Più simile forse al circle time dei Maestri di Strada, che fanno uso pedagogico del metodo teatrale creando uno spazio circolare in cui ci si ascolta e ci si racconta a vicenda, in un'ottica biografico- narrativa, le proprie difficoltà alla fine di una giornata intera di attività, in altre parole un commento su tutto ciò cui si è stati sottoposti. Questa abitudine del regista Munaro si è rivelata funzionale al mio lavoro di ricerca e mi ha consentito di pervenire a dati ulteriori con i quali si è potuti andare a fondo dei processi di costruzione dell'identità, risalendo al modo con il quale gli attori/spettatori interpretano e ricostruiscono le esperienze della realtà, in base al loro passato e di fronte ad altri soggetti, spiegando il significato che attribuiscono a ciò che li circonda. Si tratta di un modus operandi diffuso nell'ambiente teatrale e che ha permesso di comprendere il tipo di controllo delle impressioni che gli attori hanno messo in atto durante il resoconto a caldo dell'esercizio, elaborando a modo proprio sensazioni, comportamenti, reazioni, azioni attraverso una narrazione interpersonale (esplicita) per la quale gli effetti sugli eventi della vita e sulle relazioni sono determinati dal significato attribuito ad essi e quindi dalle storie piuttosto che dalla realtà. In questa prospettiva occorre sottolineare che questi resoconti o narrazioni, rappresentano “cornici” delle esperienze vissute e che, quindi, privilegiano alcuni aspetti e ne tralasciano altri per via dei processi di selezione. Inoltre, in una