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Psiche collettiva e funzione drammaturgica: tipi di società e tipi di teatro

il dibattito sul teatro come oggetto di studio

2.2. Gli studi dopo Gurvitch

2.2.3 Psiche collettiva e funzione drammaturgica: tipi di società e tipi di teatro

Non esiste un drammaturgo inglese del seicento che non abbia vissuto sregolatezze fisiche e sociali, da Christopher Marlowe a Thomas Dekker a Ben Jonson e agli alberghi frequentati dallo stesso William Shakespeare. Anche in Spagna, a cavallo tra il cinquecento e il seicento, non è meno frequente incontrare gli intellettuali nei bassifondi delle grandi città, Calderon non ne è che uno degli esempi noti (Duvignaud 1965b, trad.it. p. 51). Una mancanza di regole, per quello che era il senso comune del tempo, a cavallo tra la dissolutezza e la devianza, permette a questi autori, spesso di origine borghese, di orientarsi verso ideali diversi da quelli condivisi dal proprio ceto. Raccontano storie di personaggi che non sono direttamente espressione dei bassifondi ma che, in qualche maniera, non sempre controllati dal sistema delle regole tradizionali. Alla luce di quanto suggerito da Duvignaud, un esempio di rapporto tra individuo sociale e mutamento sociale, cioè sulla difficoltà dell'uomo di adattarsi rapidamente ad un cambio delle regole del gioco in un periodo di transizione mi viene, ad esempio, nuovamente, dal personaggio di Amleto. Egli non ha minimamente a che fare con i bassifondi, non è il Malvolio de “La dodicesima notte” che avverte il bisogno del potere, il desiderio, la furberia, la voglia di denaro e di vestire la zimarra di velluto damascata, che rimescola «materialismo storico e pauperismo evangelico, pornografia e riscatto, nausea per l'odore di trifola, il denaro che ti giungeva» (Montale 1972).

69 Il teatro shakespeariano è occasione di riflessione per Duvgnaud che nota come nonostante il Cinquecento avesse iniziato ad esaltare le virtù dell'uomo moderno puntando l'accento su un neonato senso d'individualismo, molti sistemi di valori e credenze, riconducibili al periodo medievale, continuavano a sopravvivere ben oltre le date che convenzionalmente gli storici hanno fissato per un “preteso” Rinascimento. Alcune resistenze si incontrano anche nello stesso Amleto e nel resto della produzione shakespeariana tanto intrisa di predestinazioni e simbolismi alchemici. Non va, inoltre, dimenticato che il consigliere della regina di Elisabetta I d'Inghilterra era il noto astronomo, filosofo ermetico e alchimista John Dee, figura controversa: cristiano devotamente praticante da un lato e pitagorico, platonico e dedito all'occultismo dall'altro.

Gli storici hanno spesso notato questo cambiamento indicando le metamorfosi del diritto, della vita pratica, degli atteggiamenti religiosi, morali, economici e scientifici, ma i contemporanei immersi nel chiaroscuro del presente come potevano sentire ed esprimere questa modifica? (Duvignaud 1965b, trad.it.p. 165).

Capita, quindi, che una società in trasformazione possa strappare l'uomo e i gruppi di individui, che ad essa appartengono alle loro certezze, lasciandoli in uno stato di abbandono a sé stessi che può determinare una progressiva incapacità di adattamento al mutamento e sfociare, quindi, in una situazione di disagio e sregolatezza, in un comportamento anomico o violento, addirittura, nell'illecito e nel delitto. L'alto numero di personaggi la cui azione drammaturgica culmina nel delitto costituisce la maggioranza delle opere inglesi dal Tamerlano di Marlowe all'Otello e al Macbeth di Shakespeare, all'opera di uno sconosciuto chiamata Arden of Faversham. I poveri personaggi shakespeariani sono tormentati dai principi della realtà, essi si accorgono difficilmente della sua esistenza. Questo accento sulle conseguenze comportamentali individuali e sociali in tempi di transizione in termini di analisi delle produzioni teatrali e letterarie e delle vite sregolate condotte da alcuni dei loro autori, porta Duvignaud alla costruzione di un modello, che sempre sulla scia della sociologia durkheimiana, l'autore fa nel corso di un'analisi storica individuando quattro tipi società cui attribuisce quattro forme distinte di teatro. Vale a dire che, in questa teorizzazione, ogni società è contraddistinta da un proprio modo di fare del teatro una celebrazione della vita sociale con tutti i suoi equilibri e disequilibri e le proprie,

70 contestuali e controverse visioni del mondo. I quattro tipi di teatro riconducibili a quattro tipi di società europee, individuati da Jean Duvignaud sono: quella Medievale, dove si tocca il massimo dell'integrazione socio-teatrale; il Rinascimento, un periodo di transizione, fondato sullo scontro tra strutture patriarcali preesistenti e nuove istituzioni e valori; il periodo Classico, proprio del XVII, XVIII secolo in Francia, la cui struttura sociale gerarchizzata ha generato l'idea del teatro come enclave, approvato dall'interno del mondo teatrale stesso; e il teatro della società moderna, dalla rivoluzione industriale alla tecnica a servizio dei regimi totalitari, attraverso la quale il rapido aumento della popolazione, della densità urbana e la complessa divisione del lavoro hanno realizzato un sofisticato mondo del teatro inconcepibile in precedenti tipi di società. A esempio, il teatro tedesco nei primi del XIX° secolo è bloccato dal fallito tentativo di ottenere maggiori libertà civili e precede l'impatto dell'industrializzazione in Germania. In questa atmosfera, l'organizzazione drammaturgica e architettonica e la subordinazione all'autorità caratterizzano il mondo chiuso del teatro del periodo classico. Si tratta di uno dei tanti esempi in cui il contesto storico agisce direttamente sulla produzione artistica determinandone le forme e stabilendone le tendenze sociali e politiche. Vico, Saint- Simon, Comte e Durkheim, questi fondatori della “scienza della società” hanno diviso la storia in età e/o “civilizzazioni” per dimostrare come il mutamento, verificatosi su larga scala, abbia radicalmente alterato la composizione, le pratiche, le credenze e le aspettative delle società. Tutto ciò relativizza la funzione creativa, promotrice di cambiamento, del teatro. La teoria di Duvignaud è essenzialmente sviluppata attraverso il pensiero di Durkheim, e dei suoi concetti di anomia e di solidarietà organica contrapposti alle società meccaniche. (cfr. Durkheim 1893). Una società organica, è tale per via della sua grande diversità sociale che le rende difficile il raggiungimento della coesione sociale. I diversi gruppi sociali, la varietà dei tipi di istituzioni, la divisione del lavoro caratterizzata da sempre più specifici compiti e professioni, la rende frammentata. Più una società corrisponde al tipo organico più sono riscontrabili caratteristiche di questo tipo al suo interno. Nella tipologia di Duvignaud, il Medioevo e il Rinascimento è un esempio di società a solidarietà organica e le società industriali formano sempre più una versione complessa di essa. Poiché l’unità sociale ovviamente non appare nelle solidarietà organiche perché propria di quelle meccaniche le persone e i gruppi che compongono la società sono più inclini all’anomia, rispetto ai membri di società semplici, e più

71 inclini all’alienazione e a forme di esclusione dall’organismo-società. Questo, ovviamente, genera disaccordo, tensione e conflitto. Funziona anche l’inverso ossia: il disaccordo sociale genera anomia la cui intensità deriva deriva dal livello dello stesso. Tuttavia, poiché anche le solidarietà organiche sono tenute insieme dalla coscienza collettiva, senza la quale seguirebbe il chaos, l’anomia è una triste esperienza di rottura dal vincolo del consenso collettivo). Quando l’anomia diviene un fenomeno diffuso, la società nella sua interezza precipita in uno stato di disequilibrio e di malfunzione.

Ma l'influenza esercitata dal pensiero di Durkheim sulla produzione teorica di Duvignaud non si esaurisce qui, egli ne fa espressamente menzione ne Le ombre collettive, sociologia del teatro in particolare nel paragrafo sulla relazione tra il teatro e l'anomia e, prima ancora, nel modus operandi scelto per trattare l'argomento della drammaturgia nella società, ossia facendo ricorso ad un'analisi che assume la teatralizzazione come rituale, come cerimoniale al pari di quelli riscontrabili nell'esperienza reale della vita sociale, pur sottolineando che essa non si riduce solo a questi aspetti di teatralizzazione spontanea (Duvignaud 1965). Rispetto al saggio di Gurvitch, Duvignaud suggerisce quindi, non solo lo studio sociologico del teatro come cerimoniale, ma anche come studio delle aspettative del pubblico che, a seguito di uno shock emotivo:

riconosce in un'opera una figura che risponde alle sue intenzioni meno esteriorizzate […] una lezione che lo concerne”. Lungi dall'accontentarsi di un'analisi statistica dei riconoscimenti, uno studio approfondito sul pubblico deve, altresì, esaltare l'aspetto della costruzione delle attitudini, mettendole poi a confronto con modelli attitudinali costruiti attraverso le rappresentazioni “per così dire ufficiali del teatro” ovvero i “valori riconosciuti dalla critica, le spiegazioni che il pubblico dà sul suo gusto indipendentemente da ogni opera particolare, le idee che il creatore si fa sul suo pubblico - e – a ciò dovrebbe aggiungere un confronto di questi modelli con le intenzioni esplicite dello Stato, quando si tratta di arte condizionata […] resa omogenea da una ideologia o da un partito (ivi, trad. it. p. 44).

Ma la costruzione di attitudini e rappresentazioni è, a ben vedere, un ulteriore aspetto della sociologia del teatro che Duvignaud collega alla morfologia delle rappresentazioni delle opere teatrali, per mezzo di un confronto nel tempo dei diversi

72 modi con i quali queste vengono, appunto, rese ed interpretate producendo, per dirla nei nostri termini, nuovi orizzonti di senso.

In effetti l'autore cita, in proposito, la sociologia della conoscenza di Scheler e Mannheim nella misura in cui l'estetica drammatica comporta una certa maniera di interrogare il mondo e la società, e attraverso di essa conosce il suo inserimento nella trama dell'esperienza collettiva. Si tratta del terzo dominio della sociologia del teatro, che l'autore ripropone in termini diversi rispetto a quelli gurvitchiani, ma che ne rispetta i principi della classificazione tematica in quanto «studio del rapporto funzionale del contenuto delle pièces con i quadri sociali realizzati, in particolare i tipi di strutture sociali globali e le classi sociali» (ibidem).

La teoria di Duvignaud appare non priva di contraddizioni, da un lato affronta il tema dell’anomia come risposta ad un conflitto sociale, dall’altra ignora importanti figure teatrali come risposta a questi conflitti, come nel caso dei giullari italiani.

Duvignaud descrive un'Europa del basso Medioevo come un sistema di relazioni non-conflittuali tra sovrani, chiesa e popolo, nel quale tutti accettano l’ordine sociale (l'enfasi sull'ordine sociale è ancora di matrice durkheimiana) specialmente evidente nell’esperienza collettiva dei festival. I festival, nei quali la società celebra sé stessa in massa sono, tuttavia, doni del principe al popolo, pubblica celebrazione di un potere ritenuto sovratemporale. Da quando le feste popolari sono divenute dono riconosciuto attraverso un donatore e un ricevente, esse non posso essere considerate forme di teatro popolare, anche per via dell'inesistenza di qualsiasi concetto di classe al suo interno.

Appare chiaro che collettività in Duvignaud, significhi un tutto sociale, piuttosto che “gruppo”, così come formulato in Durkheim, senza ricorso al concetto di classe. La coscienza collettiva pertanto non ha nulla a che fare con il concetto marxista di coscienza di classe. Per Duvignaud le classi emergono solo con l’industrializzazione per cui è assurdo assegnare loro, concettualmente, un posto all'interno di un'analisi sulle manifestazioni teatrali dell'Europa medievale.

A dire il vero affermare che il Medioevo sia un periodo storico totalmente privo di stratificazione sociale sembra, per un sociologo, un’affermazione azzardata (cfr. Shevtsova op. cit.). Alcune forme di teatro popolare medievale pongono un certo numero di domande cognitive come, per esempio, comprendere dove collocare il ruolo dei giullari italiani, questi guitti medievali che, oltre che presso le corti, si esibivano in azioni performative per le strade e nelle piazze dei villaggi per il

73 gradimento dei contadini.

Spesse volte, queste dimostrazioni artistiche solevano infatti, essere vere e proprie proteste contro una miseria che i padroni feudali e il clero stesso riversavano sulla popolazione contadina, così da divenire messinscene perseguitate dalle stesse autorità che deridevano. Considerare i giullari, in virtù della loro prospettiva sociale, del loro pubblico, del loro stile e dei loro contenuti satirici, un esempio di teatro popolare, presuppone il fatto che, essendo questi oggetto di repressione e frequentemente di decapitazione pubblica come deterrente del potere, nell'Europa del Medioevo esistesse un conflitto sociale, se non nei termini del conflitto di classe, seguendo la linea di Duvignaud, quantomeno tra governatori e governati. Se il fenomeno dei giullari, è stato trascurato è perché le problematiche sollevate da Duvignaud, sulla solidarietà meccanica, non li hanno mai trattati.

Gli scritti e le prospettive di Duvignaud sulla lettura del fenomeno teatrale in relazione alla società, oggi appaiono ancora molto intrise dell’influenza esercitata su di lui dal pensiero durkheimiano e, in generale, da quello positivista. Questa visione lo ha limitato a ricondurre la nascita di certi tipi di teatro a specifiche condizioni del contesto sociale escludendo, passo indietro rispetto a Gurvitch, l’ipotesi di fare di esso uno strumento di ricerca empirica. Tra l’altro, nelle sue trattazioni emerge quasi una certa riluttanza nel prendere in considerazione le rivoluzioni della prassi teatrale, come quelle più avanguardistiche e ideali per la conduzione di indagini sociali in quanto promotrici di azioni collettive, come nel caso costituito dal teatro brechtiano (Shevtsova op.cit.).