• Non ci sono risultati.

Il teatro come fatto sociale: una impostazione durkheimiana

il dibattito sul teatro come oggetto di studio

2.2. Gli studi dopo Gurvitch

2.2.2 Il teatro come fatto sociale: una impostazione durkheimiana

Confrontare creazioni artistiche e contesti, nel corso tempo significa affrontare un conseguente studio diacronico dei cambiamenti della funzione e del ruolo del teatro all'interno della società che, per non cadere nuovamente nel sociologismo (cfr. Meldolesi 1986) dovrà necessariamente tener conto della relazione esistente tra strutture sociali e opere e le connessioni tra manifestazioni dello psichismo personale, interpersonale e collettivo le quali fanno sì che possa avvenire la comunicazione di simboli e contenuti tra creatori, attori, pubblico, contesto inteso come istituzioni. Pur rifiutando alcune posizioni del dogmatismo positivista che secondo lui hanno ridotto l'esperienza del teatro a mera analisi di classi e gruppi,

66 dagli scritti di Duvignaud emerge chiaramente che i suoi presupposti teorici si fondano su una sociologia di tipo conservativo, poiché attingono al pensiero di Comte, al pensiero di Emile Durkheim in larga misura e, «di tanto in tanto (e non del tutto in modo inequivocabile), alle intuizioni marxiste pur lasciando, invero, il marxismo sullo sfondo in modo quasi isolato» (Shevtsova 2009, p. 39 trad. mia), nella predilezione di una prospettiva analitica che non abbia cercato alcuna causalità predominante né in termini di elementi economici, psicologici o tecnici. La teoria sociologica della storia e della funzione del teatro formulata da Duvignaud è basata sui concetti fondativi della sociologia durkhemiana evidenti in tutte le esposizioni del suo pensiero a partire dal lessico che utilizza e dal considerare la pratica teatrale in senso stretto, ma anche tutte quelle forme della vita sociale che rivestono la forma della cerimonia che costituiscono il teatro spontaneo, fatto sociale. Feste, inaugurazioni, parate, processioni, anniversari, aule di tribunale e giurie di concorsi sono cerimonie dove ciascun individuo interpreta un ruolo attorno al quale la solennità del luogo, gli abiti indossati, il tipo di linguaggio utilizzato, i simboli e i contenuti, è creata la cerimonia, una teatralizzazione spontanea. In queste pagine Duvignaud più che rifarsi all’antropologia teatrale di Turner e Schechner, per la quale il rito è paragonato al gioco teatrale, in termini di tutte quelle pratiche corporee, come linguaggi non verbali, necessarie ad una ridefinizione del reale, sembra piuttosto andare nella direzione del significato sociale del rito, quindi più precisamente nella direzione di Durkheim. Si tratta, infatti, di situazioni in cui l'atto collettivo, che implica la partecipazione della società, esalta la funzione sociale del cerimoniale come elemento di mantenimento dell'ordine sociale stesso, anche dal punto di vista istituzionale e normativo, sociologico. Durkheim ha sempre prediletto un’analisi della società, vista come un tutto unitario, sui generis, “organico”, nel quale la vita collettiva precede quella dei singoli imponendosi loro sotto forma di morale, ossia dell’insieme di norme che dall’esterno e dall’interno agiscono su di essi. Le norme stesse sono fatti sociali, «modi di agire di pensare e di sentire che presentano la notevole proprietà di esistere al di fuori delle coscienze individuali» (Durkheim 1895, trad. it. p. 26) per cui la società assume le sembianze di un organismo, nel quale ciascuna delle parti svolge compiti essenziali al mantenimento del tutto, è cioè funzione della propria esistenza e del tutto sociale. Un chiaro esempio di quanto queste teatralizzazioni spontanee abbiano svolto funzione deterrente volta alla celebrazione della coesione sociale è la morte spettacolarizzata

67 in pubblica piazza: dall'impiccagione alla ghigliottina, la morte in pubblico con le sue attese, i suoi personaggi e i suoi costumi (come quello del boia), ha costituito uno spettacolo di grande partecipazione popolare inteso a scoraggiare ogni comportamento anomico. Durkheim scriveva a proposito dell’anomia, di una situazione caratterizzata dalla assenza di norme morali condivise, di una condizione moralmente deregolata per la quale le persone hanno uno scarso controllo sul proprio comportamento, ossia di quando le regole procedurali e generali si svuotano di efficacia e di significato e le persone non sanno più cosa aspettarsi l’una dall’altra. Questo processo produce insoddisfazione, frustrazione, conflitto e devianza che vengono punite attraverso le sanzioni previste per le singole trasgressioni le quali hanno il compito di rinsaldare il senso comune condiviso tra i conformi. Pertanto, le cerimonie di teatro spontaneo, ma prima ancora le tragedie del teatro greco, sono occasione di una riflessione morale, condivisa per senso comune, dalla quale può anche scaturire pubblica indignazione come normale (non anomica) reazione sociale ad un disequilibrio.

La ritualità, il phatos e la teatralità con la quale viene inflitta la pena sono, in queste occasioni, parte del controllo sociale esercitato dall'autorità che le presenta come dono, come concessione di un evento pubblico al quale la popolazione può assistere, così come le liturgie civili, dono del principe alle città da dominare. Al dono elargito dall'autorità, risponde l'adesione, l'obbedienza e l'acclamazione della folla che rimandano, come un feedback, ad un riconoscimento dell'autorità stessa e del suo gradito operato. Anche il passaggio da un'autorità ad un'altra è un evento teatralizzato: dalle successioni dinastiche dei monarchi, al ghigliottinamento degli stessi durante la rivoluzione francese, in quei momenti cioè in cui, scriveva Durkheim, un nuovo equilibrio non si era ancora costituito ed emergevano comportamenti anomici diffusi per la stessa difficoltà che gli individui nel trovare il loro posto, nell'assumere un nuovo ruolo nel nuovo ordine di eventi costituito senza la guida di regole chiare, in altre parole di adattarsi ai cambiamenti.

In nessun posto l'uomo si è sottomesso al cambiamento senza provare turbamento; l'adattamento a situazioni nuove comporta turbamenti di natura imprevedibili e molteplici. […] Non percepita dagli uomini immersi nell'attività immediata che realizza questi cambiamenti […] la trasformazione sembra toccare soprattutto gruppi marginali, “non funzionali”. I gruppi di artisti o di

68

intellettuali ai quali appartenevano i drammaturghi, poiché non erano integrati nel tessuto della vita sociale, poiché si opponevano spesso alla coscienza comune accentuando differenze morali, sessuali o psicologiche non costituiscono forse questi punti di imputazione del cambiamento nella vita dell'epoca? Non è indifferente infatti notare quanto i drammaturghi di questo periodo di transizione, che vengono considerati i “portavoce del loro tempo” si siano sistematicamente comportati da individui a parte. (Duvignaud 1965b, trad. it. pp. 165;168)

Resta chiedersi il ruolo assunto dai drammaturghi, dagli artisti e dagli intellettuali, in generale, nel corso di questi cambiamenti sociali epocali.