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Tra Bourdieu e Brecht: il campo, l’habitus e la rivoluzione teatrale

il dibattito sul teatro come oggetto di studio

2.3. La critica a Duvignaud e l’approccio teorico di Maria Shevtsova

2.3.2 Tra Bourdieu e Brecht: il campo, l’habitus e la rivoluzione teatrale

Questo rimando a Bourdieu, costituisce il fulcro dell’approccio teorico di Shevtsova che se ne serve, in modo del tutto originale, per spiegare la rivoluzione brechtiana, e la teoria dello straniamento.

Bourdieu utilizza il concetto di campo proprio per osservare il mondo della produzione artistica e, in particolar modo, quella letteraria, guardando ad essa come ad una efficace descrizione del reale e giungendo, pertanto, alla conclusione che le scienze sociali e il mondo dell'artistico siano campi fortemente interrelati tra loro. È proprio attraverso la costruzione della nozione di campo e delle sue proprietà che

79 Bourdieu ha messo a confronto vari aspetti del sociale interrogandolo proprio a partire dalle pratiche messe in atto dagli individui nella costruzione di prodotti culturali. I campi sono «universi sociali, autonomi, relativamente indipendenti, ma che esercitano degli effetti gli uni sugli altri» (Bourdieu, 1995, trad. it. p. 58), spazi relazionali definiti in cui le società contemporanee, fortemente differenziate, sono organizzate. La proprietà di autonomia attribuita alla nozione di campo consente, in primis, di trattare il teatro come campo a sé rispetto alla sociologia dell’arte e, contemporaneamente, permette alla sociologia del teatro di definire i propri confini rispetto ad altri studi come quelli teatrali che coinvolgono il sociale, o quelli letterari, dell’antropologia della performance o della storia del teatro. Questa proprietà afferma, infatti, il principio secondo cui ogni sottouniverso che «rivendica il diritto a definire da sé i principi della propria legittimità» (Bourdieu 1992b, p.94) va progressivamente autonomizzandosi dal campo che lo contiene. Allo stesso tempo, secondo la regola della irriducibilità di un campo (una omologia che potrebbe essere definita come una somiglianza nella differenza) esso non può essere ricondotto solo a tutto ciò cui è strettamente collegato o all'insieme di pratiche ad esso omologate (Bourdieu 1992a). Queste proprietà del campo fanno sì che uno studio sociologico sul teatro non debba per forza soffermarsi sull'opera teatrale in quanto creazione letteraria. Al contrario, l'«omologia strutturale e funzionale» che lo accomuna agli altri (Bourdieu 1987, trad. it. p. 179), ovvero la somiglianza tra il campo in questione e lo spazio sociale che lo circonda, costituito dalla prossimità degli altri campi, fa si che, funzionando essi allo stesso modo, sia possibile assumere come oggetto di analisi la realtà teatrale per spiegare il funzionamento dei campi della società e quindi la società stessa. Riproducendo ogni campo la struttura sociale, poiché costituito al pari di ogni altro, da individui che vi penetrano e vi partecipano, il teatro e i suoi protagonisti rappresentano una parte nel sistema di relazioni che caratterizza tutta l'esperienza sociale.

È essenziale osservare che il termine “arti” potrebbe benissimo essere sostituito da quello di “pratiche culturali” che è una terminologia onnicomprensiva che Bourdieu utilizza per tutti i tipi di attività nelle diverse società. Egli usa questa categoria generica dell'“arte” al fine di individuare l'arte come attività culturale e quindi anche come attività sociale. Puntando sul suo carattere sociale, appunto, Bourdieu mette in discussione l'idea che l'arte sia un regno separato dalla società e immune alla pressione sociale. La visione che essa sia unica, e

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governata soltanto dai principi volti alla sua stessa composizione immanente, è sicuramente centrale nella filosofia e nella storia dell'estetica. La sua espressione più assoluta è rintracciabile nell'ideologia de “l'arte per l'arte” che rappresenta per Bourdieu il punto contrapposizione ad un approccio sociologico al problema (Schevtsova 2009, pp. 83-84).

Liberare l’arte dai dilemmi dell’estetica per i quali essa non possiede altro scopo all’infuori di sé stessa (ibidem) è compito delle scienze sociali. La sociologia applicata allo studio dei fenomeni artistici permette di far emergere i processi sociali che li pongono in essere: all'interno dei campi, gli agenti si muovono, agiscono, combattono, influiscono su di essi a fine di mutarne le regole e imporre nuove posizioni dominanti.

Un campo è un campo di forze all'interno del quale gli agenti occupano posizioni che determinano statisticamente le loro prese di posizione sul medesimo campo di forze […] è il luogo di azioni e reazioni compiute da parte degli agenti sociali dotati di disposizioni permanenti, queste ultime in parte acquisite nell'esperienza degli stessi campi sociali. […] gli agenti hanno la possibilità di influire sui campi, di agire all'interno di essi, seguendo strade parzialmente pre-obbligate ma conservando comunque un margine di libertà (Bourdieu 1992a, trad. it. p. 59).

In quanto campo, dunque, anche all’interno dell’universo teatrale si verificano lotte tra agenti per la conquista di una posizione dominante e della posta in gioco messa in palio dal campo stesso; si determinano assetti, tendenze e pratiche frutto di queste lotte. Secondo Bourdieu, a determinare i risultati di questi conflitti ed eventuali rovesciamenti dell’ordine sociale, come le grandi rivoluzioni (storiche, scientifiche, teatrali), che hanno generato il cambiamento, è una serie di disposizioni di cui gli agenti sono dotati: gli habitus.

Queste disposizioni funzionano in parte passivamente, come schemi cognitivi incorporati, in parte attivamente permettendo al soggetto di mutare le condizioni dell’ambiente sociale che lo circonda. Per questa duplicità gli habitus si presentano come:

strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, vale a dire in quanto principio di generazione e di strutturazione di pratiche e di rappresentazioni che possono essere oggettivamente “regolate” e “regolari”

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senza essere affatto il prodotto dell'obbedienza alle regole, oggettivamente adattate al loro scopo, senza presupporre l'intenzione cosciente dei fini e il dominio intenzionale delle operazioni necessarie per raggiungerli e, dato tutto questo, collettivamente orchestrate senza essere il prodotto dell'azione organizzatrice di un direttore d'orchestra (Bourdieu 1972, trad. it. pp. 206-207).

L'habitus è quindi fortemente elastico in quanto si adatta e permette al soggetto di adattarsi ai frames sociali di cui fa esperienza nel corso della sua vita (cfr. Cerulo 2010), in quanto, rappresenta una dimensione in grado di tenere insieme biologico e sociale. L’habitus non è struttura innata, né intesa come insieme di norme acquisite e interiorizzate dall’individuo attraverso il processo di socializzazione come nello struttural-funzionalismo parsonsiano (cfr. Parsons 1951). All’opposto, viene assimilato in un dato contesto ma può essere applicato soggettivamente dall'individuo, in modo assolutamente originale, anche in un altro ambito o campo. È il rapporto tra l’habitus e il campo che consente ai paradigmi diffusi in un dato periodo storico (cfr. Khun 1962) di essere sostituiti, a seguito di una rivoluzione, da altri sistemi di conoscenze. Anche il teatro, come tutti gli altri campi, è stato per secoli caratterizzato da determinate visioni prevalenti sulla tecnica e sulla funzione teatrale, come il naturalismo o il teatro nazionale che ha sempre imposto, attraverso le continue ingerenze del campo politico e di quello economico, la tradizione della quarta parete come muro invisibile necessario ad incorniciare la messinscena, per opporla al reale e distinguere la vita dalla rappresentazione. L’emersione di nuove posizioni e, quindi, di nuovi soggetti, ad esempio come l’importante figura di Brecht, ha reso possibile le grandi rivoluzioni teatrali che hanno trasformato le regole del campo, le sue pratiche più diffuse e le sue relazioni con gli altri e con il resto del sociale. Rivoluzioni come queste sono l’esito dei contrasti emersi dal campo ad opera degli agenti che, per adottare strategie e vincere la posta in gioco, devono investire in esso tutte le loro risorse, in termini di capitale economico, culturale, sociale e simbolico. Vorrei soffermarmi, per un istante, su questo concetto, con gli esempi forniti dall’universo teatrale. Gli spettacoli e le performance di professionisti necessitano sempre di finanziamenti e di investimenti per essere realizzati; il capitale economico, allora, rappresenta l’insieme delle risorse materiali, del denaro e della detenzione di mezzi necessari alla produzione e alla diffusione dell’opera o dell’evento che artisti e compagnie impiegano per il successo della loro creazione

82 artistica.

Invero, anche quando la prestazione è offerta gratuitamente da compagnie amatoriali o legate ad associazioni no-profit, magari per il solo fine di diffondere la cultura teatrale, esse possono contare, su un ritorno di immagine, in termini di visibilità, che può accrescere o rinforzare, ugualmente, la loro posizione nel campo. Interpreti, registi, performer sono attori sociali che, insieme alle istituzioni di una società, producono capitale culturale, una cultura soggettiva, incorporata in quanto sociale nell'agente, che si oggettiva costituendosi come prodotto storico che trascende dalla volontà dei singoli e dei gruppi capaci di appropriarsene. I prodotti culturali finali, come le opere d’arte e gli spettacoli appunto, sono sempre il risultato delle competizioni che si realizzano all’interno del campo della produzione culturale e nel campo delle classi sociali, in base al possesso di capitale. Per capitale sociale Bourdieu intende, invece, le reti di relazioni (familiari, amicali, professionali) che il soggetto intesse e nelle quali è immerso, senza le quali la stessa lotta nel campo non potrebbe essere sostenuta: lo spettacolo non può essere realizzato senza la ricerca di un produttore, né diffuso senza la conoscenza, ad esempio, dell’organizzatore di un festival o del proprietario di un teatro dove rappresentarlo. A questi tre tipi di capitale se ne aggiunge un quarto, quello simbolico, che in un certo senso li racchiude tutti, e misura il grado di importanza e il riconoscimento sociale di cui godono i singoli soggetti all’interno del campo specifico: la fama e il prestigio attribuiti a una compagnia, un autore, un teatro, magari per via di premi o riconoscimenti di altro tipo oppure per successo di pubblico. Per quanto la detenzione di capitale possa dipendere anche da congiunture storico-sociali, poiché è il contesto a determinare le condizioni date di possibilità all'interno delle quali gli agenti possono muoversi, in generale, la quantità e la qualità di risorse detenute rendono il soggetto unico per capacità strategica di farne utilizzo nella conquista di posizione, di status, all'interno del campo. La società, dunque, è il risultato di conflitti nei campi e tra campi, di continue ingerenze di un campo sull’altro, come è sempre stato tra quello politico, economico e culturale nella determinazione dei contenuti e della diffusione dei prodotti e delle pratiche culturali. Un esempio è costituito, storicamente, dall’egemonia esercitata dalle élites politiche al tempo della nascita e del consolidamento dello stato-nazione costantemente volta alla costruzione di pratiche culturali e valori che lo celebrassero, di cui sono testimonianza gli scritti di critica teatrale di Antonio Gramsci sull’Avanti nel 1910 (Shevtsova 2009, p. 44 trad. mia).

83 La dinamicità dell’habitus e l’accumulo di capitale di cui si dispone consentono di muoversi nel campo e proporre nuovi punti di vista, come accade a quel regista che rielabora uno spettacolo noto stravolgendone le regole canoniche della rappresentazione (ad esempio capovolgendo i ruoli di attori e spettatori) ovvero dandogli una veste inedita. Grazie alla parte attiva dell’habitus si possono valicare i confini del campo stesso attraverso un uso strategico del capitale, come nel caso di quel sociologo che può scorgere nel romanzo o nell’esempio delle pratiche teatrali orientamenti di ricerca a lui preclusi dal proprio campo (Bourdieu 1992b). La conoscenza delle lotte e delle regole del gioco, che vigono in ambiti diversi dal proprio, permette una maggiore comprensione dei fenomeni, un passo dovuto nel caso del ricercatore nel rapporto scientifico con il suo oggetto. È per tali ragioni che non si possono porre al vaglio di un’analisi sociologica, opere o pratiche teatrali senza un rimando alle visioni etiche e politiche promosse dai loro creatori, specie nel caso in cui, come quello di Brecht, queste visioni sono state determinanti per l’affermazione di un nuovo paradigma teatrale. Infatti, le tecniche utilizzate dal drammaturgo nel teatro epico, come teatro di narrazione di vicende non soggette alle leggi della sincronia spazio-temporale, sono volte non a provocare emozioni nel pubblico attraverso coinvolgimenti psico-emotivi, ma ad agitare argomenti e sollecitare ragionamenti, inducendo lo spettatore ad una presa di posizione di carattere politico e morale. La rivoluzione brechtiana porta avanti una concezione anti-romantica, quasi illuminista, nel suo intento di far emergere la ragione, quale spirito critico dello spettatore. La rottura del circolo vizioso dell’emotività, innescata dalla rappresentazione, si ha ad opera di uno straniamento, una creazione scenica realizzata per essere fruita fuori da sé e dai suoi estetismi, da sempre volti ad una simbiosi tra pubblico e protagonista. Lo straniamento avviene su tre livelli: quello comunicativo, quello stilistico e quello letterario, mediante l’uso di termini, schemi, definizioni inconsuete che scuotono il keying della finzione.

A prima vista potrebbe sembrare che, trattandosi di scelte estetiche, queste non debbano far parte dei materiali analizzabili dal sociologo. Ma, invece, sono proprio quegli elementi che sembrano di esclusiva argomentazione stilistica a non dover essere considerati irrilevanti solo perché non declinati in termini sociali o non immediatamente riconducibili al loro contesto: essi sono sempre espressione di un pensiero e di un atto comunicativo. Difatti, una messinscena media sempre tra il self e l’ambiente sociale in una relazione dinamica perché come dice Marshall McLuhan,

84 il mezzo è il messaggio (Courtney 1986 in Deldime, Di Meo 1988, p. 273).

L'effetto di straniamento sul quale Brecht ha fondato il proprio approccio di costruzione teatrale, infatti, presuppone una “distanza”, un “distacco” emotivo tra scrittore e testo dell’opera, tra pubblico e personaggio e, infine, tra attore e personaggio: solo allontanando l’effetto catartico del processo drammatico, cioè la compassione e la compartecipazione provata nei confronti delle vicende e delle gesta dell'eroe, lo spettatore cessa di essere tale divenendo “persona” che, nella sua interezza e nel pieno delle proprie capacità intellettive, è in grado di esprimere un giudizio morale su ciò cui sta assistendo. Lo straniamento, tecnica utilizzata anche da Giovanni Verga, consiste, quindi, prima di tutto sul piano della stesura del testo, nel raccontare di eventi e persone da un punto di vista completamente estraneo all'oggetto. Secondariamente, prevede sul palcoscenico l’esibizione di cartelli e didascalie che preannunciano la scena successiva. Questa anticipazione consente allo spettatore, uno sguardo critico, svincolato da un'eccessiva attenzione alla forma del rappresentato e più centrata sui suoi significati. Infine, il terzo livello di straniamento spetta all'attore, il quale potrà servirsi della tecnica dell'immedesimazione in una fase preliminare, per poi stabilire un necessario distacco dalla parte da interpretare, dall'eroe che gli è stato assegnato.

La contrapposizione di Brecht alla visione aristotelica è palese già nel nome con il quale egli ha battezzato il frutto dei propri studi: Teatro epico. Questo attributo, che ricorda le gesta eroiche narrate dal teatro greco, dove l'immedesimazione emotiva tra spettatore ed eroe e tra attore e personaggio era totale, è utilizzato dal drammaturgo tedesco, e da Erwin Piscator, prima di lui, in modo assolutamente paradossale: l’epicizzazione non è l'identificarsi con il personaggio, ma, al contrario, il decentramento rispetto alla drammatizzazione dall'evento scenico, volto ad accentuare la finzione teatrale per favorire la riflessione. Nelle note di Ascesa e rovina della città di Mahagonny è contenuto il confronto tra forma drammatica e forma epica del teatro. La distinzione, oppone la reazione emotiva al ‘drammatico’ ad una risposta razionale all’epico. Le due forme sembrano, quasi, ricordare la parte passiva e la parte attiva dell’habitus. La prima, infatti, immerge lo spettatore nell’intreccio inalterabile dell’opera che gli viene presentata come un prodotto oggettivato della cultura, mentre la seconda insiste nel ricordare a tutti che ciascun attore sociale è dotato della capacità di strutturare il mondo, oltre che limitarsi ad esperirlo come struttura data.

85 La vicinanza di Brecht alla sociologia è riscontrabile nei termini “osservatore”, “attività”, “indagini”, “mutabile”, “processo”, “esistenza sociale”, propri del vocabolario delle scienze sociali. Lo straniamento, stesso può essere paragonato al contetto di distanza dal ruolo sviluppato, anni più tardi e seppure espresso in altro contesto, da Erving Goffman nella metafora drammaturgica. Per l'interazionista simbolico, di fatti, cambiare il proprio ruolo, a seconda della circostanza che lo ha attivato, presuppone che dietro la molteplicità dell'esercizo di queste parti, sia mantenuta l'unità del self in grado, nonostante i continui switch di situazione, di non frammentare l'autocoscienza del soggetto. La volontà di fare del teatro un'esperienza di vita, al di là dell'intrattenimento, è connotativa di ogni aspetto del lavoro brechtiano.

Mi sembra che Brecht, tra i vari drammaturghi, sia quello più vicino all’intento palese dello smascheramento delle costruzioni sociali. Se in Pirandello, come si è

Forma drammatica del teatro attiva

involge il pubblico in un'azione scenica ne esaurisce l'attività

gli consente dei sentimenti delle emozioni

lo spettatore viene immesso in qualcosa suggestioni,

le sensazioni vengono conservate, lo spettatore sta nel mezzo,

partecipa,

l'uomo si presuppone noto, l'uomo immutabile, tensione riguardo all'esito,

una scena serve all'altra crescita,

corso lineare degli accadimenti determinismo evoluzionistico,

l'uomo come dato fisso, il pensero determina l'esistenza,

sentimento

Forma epica del teatro narrativa,

fa dello spettatore un osservatore, però ne stimola l'attività,

lo costringe a decisioni a una visione generale viene posto di fronte a qualcosa

argomenti,

pinte fino alla consapevolezza, lo spettatore sta di fronte,

studia, è oggetto di indagine, l'uomo mutabile e modificatore,

tensione riguardo l'andamento, ogni scena sta per sé,

montaggio, a curve,

salti,

l'uomo come processo,

l'esistenza sociale determina il pensiero, ratio

86 visto, (cfr. cap. I. par. 1.3.2) ciò avviene mediante l’espediente della fabbricazione, nel teatro brechtiano l’attore serve il racconto, lo serve da attore sociale che ha maturato maggiori capacità espressive. Il drammaturgo italiano preferisce lasciare ai propri personaggi, orfani spesso d'autore, il compito di costruire diversi regni di realtà per quante siano le loro percezioni e credenze in merito allo stesso oggetto e allo spettatore il compito di individuarli, Brecht, invece, guida il pubblico verso un regno di realtà che è quello della vita quotidiana manifestando apertamente i reali messaggi dell’opera senza alcun artificio retorico. L’esperienza brechtiana non necessita di spettatori ma di osservatori, sollecitati al dubbio dalla scena. Lo sono esempio Lode del dubbio e Colui che dubita, un invito esplicito a non dare mai nulla per scontato, neanche la propria parola; ad utilizzare il dubbio come strumento sistematico di conoscenza e di analisi scientifica: «Le tesi davanti a voi enunciate son messe a profitto/ o almeno confutate?/Tutto è documentabile?/Per esperienza? Di chi?/Ma prima di tutto e sempre,/ e ancora prima d’ogni cosa:/ come si agisce se si crede a quel che dite?/Prima di tutto: come si agisce? » (Brecht 1933).

Da una prospettiva sociologica occorre però chiedersi se lo straniamento non abbia ottenuto, infine, l'effetto contrario, cioè configurandosi, da rifiuto del paradigma catartico, come un nuovo codice di fruizione dell'opera teatrale. L'osservatore di cui parla Brecht non può e non deve essere, come nel caso dello scienziato, avalutativo in senso weberiano, anzi, deve compiere la sua scelta morale e quindi politica, è chiamato a trasformare la società piuttosto che ricostruire il processo che ha condotto a queste trasformazioni. Quali strumenti sono concessi alla platea per compiere una riflessione che non sia a sua volta frutto di ciò che proviene da chi la sollecita a compierla? Senza elementi di decostruzione allo spettatore non resta che affidarsi al proprio bagaglio culturale ed esperienziale. Chiedere al pubblico di riflettere, proponendo un tema di riflessione ignora che il fatto che il tema e l'opinione comune su di esso siano stati costruiti socialmente e quindi interiorizzati come senso comune. Indirizzare verso una corretta concezione della rivoluzione brechtiana, facilitando la comprensione delle sue rappresentazioni attraverso la teoria sociale è compito del sociologo del teatro, al contrario, farne strumento di riflessione sulla società e i suoi meccanismi, ovvero materiale di supporto alla teoria sociale oltre il suo testo, in una sperimentazione scenica, può divenire il compito del sociologo teatrale.

87 ho condotto in aula con giovani studenti di scienze sociali insieme ai docenti del Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell’Università della Calabria.