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La difficile ricerca delle soluzioni: il magistero di Herbert Spencer.

Sulle conclusioni di un pensiero che non può concludere.

7. La difficile ricerca delle soluzioni: il magistero di Herbert Spencer.

In occasione della morte di Herbert Spencer, De Roberto dedica al pensiero del filosofo inglese un ampio articolo, pubblicato sul «Corriere della Sera». Nonostante ci si trovi ad una altezza cronologica (dicembre 1903) e su una testata in cui gli articoli derobertiani non conservano più la tensione indagatrice e

l’urgenza della Bildung tipiche degli anni Ottanta e ancora dei primi anni Novanta, anche qui, come nel caso della recensione alle flaubertiane Memorie di

un pazzo, ci troviamo di fronte a un’eccezione.

De Roberto ripercorre l’intero sistema filosofico spenceriano, da quando cioè il filosofo affronta l’indagine del piano materiale dell’essere servendosi del principio dell’evoluzionismo, al momento in cui applica l’evoluzionismo alla sociologia e dunque alla morale: secondo la ricostruzione derobertiana è infatti all’indagine del piano morale che aveva sempre teso il lavoro di Spencer, preoccupato di conferire base scientifica ai principi regolatori di Bene e di Male. Ed è su questo piano d’indagine che anche De Roberto finisce per concentrare il proprio articolo. Ciò che sembra ammirare sopra ogni cosa, in Spencer, è la capacità o quantomeno il filosofico tentativo di conciliare le risposte più diverse date dall’uomo al problema dell’essere, l’atteggiamento di tolleranza e di saggio equilibrio che conserva nell’atto stesso di formulare le proprie dottrine. Così, innanzi all’applicazione del principio evoluzionistico al piano della sociologia,

egli […] volle che ogni sociologo fosse conservatore e radicale ad un tempo. Contro i conservatori a qualunque costo addusse i rivolgimenti fatali che si compiono nel corso della storia, contro i radicali ad oltranza, addusse la lentezza di [tali] rivolgimenti: la teoria del progresso, considerata alla luce della scienza sociale, gli parve adatta a temperare considerevolmente le speranze e le paure dei due partiti estremi.244

Allo stesso modo, se l’evoluzionismo rivelava verità non meno ‘tristi’ che quelle delle dottrine filosofiche francesi, conducendo, sul piano dell’agire pratico, al ‘principio’ del fatalismo, Spencer tuttavia gli opponeva il richiamo dell’uomo ‘a fare’: a fare, almeno, quel poco e relativo che i tempi evolutivi consentono, senza però mai accelerare alcun processo di mutamento che mai potrebbe essere vera accelerazione, sibbene alterazione.

Il miracoloso equilibrio spenceriano, le ‘sagge’ prescrizioni all’agire pratico, proverrebbero anzitutto dalla lungimiranza speculativa di un filosofo in grado di mettere a fuoco, da subito, il cuore del problema e del dibattito consumatosi in Europa fra anni ’80 e ’90. Anche la sua dottrina, infatti, «come nella storia umana

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F. De Roberto, La dottrina di Herbert Spencer, «Corriere della Sera», a. XXVIII, 9 dicembre 1903.

[…] escluse l’intervento provvidenziale, così […] doveva escludere l’origine sacra della legge morale». Ma se

questa esclusione poteva produrre conseguenze gravissime, […] egli non che nasconderle, le misurò: “Pochi disastri sono tanto temibili quanto la decadenza e la morte di un sistema regolatore divenuto insufficiente, mentre un altro sistema più adatto a disciplinare i costumi non è pronto per sostituirlo”.245

Certo, l’abbiamo visto, De Roberto aveva riconosciuto da subito la medesima preoccupazione in maestri come Taine e Renan, e non aveva mancato d’indagare con inquietudine le risposte tenate da essi alla crisi morale ed etica aperta dalle ‘tristi verità’. Tuttavia, sembra che l’autore catanese sia arrivato a vedere in Spencer colui che seppe, sopra tutti, dare la migliore delle risposte possibili ai dilemmi posti dalla scienza al piano pratico dell’agire umano. «Progresso e conservazione, egoismo ed altruismo, fede e ragione: troppe cose, forse, lo Spencer cerdè [sic] di avere conciliate»: sebbene De Roberto si esprima così a conclusione di articolo, tuttavia è in questa finale conciliazione meramente ‘pratica’ che il catanese sembra individuare la vera possibilità di rifondare un sistema morale, conciliazione possibile nonostante ‘le scettiche persuasioni della ragione’ non vengano mai meno alla lucida coscienza del filosofo inglese. Anzi, sarebbe proprio in ragione di queste scettiche persuasioni che Spencer arriva non solo all’equilibrio dei propri pronunciamenti pratico-morali, ma addirittura a una larga tolleranza nei confronti dell’opzione religiosa.

Come questo sia possibile, in uno dei principali rappresentanti del pensiero positivo, De Roberto lo spiega con minuzia d’analisi e con attenta partecipazione in un articolo precedente, il primo del dittico del 1903, anch’esso destinato al «Corriere della Sera», e legato alla pubblicazione di un testo al quale il nostro attribuisce valore di Un testamento filosofico. I «Fatti e commenti» di Erberto

Spencer. Per parte nostra, potremo considerare l’articolo, parimenti, ‘testamento

filosofico’ dell’approccio derobertiano alla questione del fine etico, di fronte, e in ragione, dei convincimenti ‘metafisici’ su cui è attestato.

In questa sede De Roberto riconosce come principale merito del pensatore inglese, maggiore persino dell’elaborazione di una filosofia sociologica di stampo evoluzionista, il rispetto mostrato nei confronti della morale tradizionale, fondata sul dogma, perché utile ai fini dell’ordine sociale. Utile, almeno, sino a quando

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l’uomo non sarà arrivato al punto da saper introiettare una morale ‘naturale’, senza bisogno che la regola della propria condotta etica dipenda dallo spettro di una punizione o di un premio in una vita di là da venire.

De Roberto, soprattutto, mostra di ammirare l’‘indulgenza’ del filosofo, che sul piano teoretico e ontologico non pretende si debba educare la società tutta alle dottrine dell’evoluzionismo: punto, questo, che si rivela interessante per almeno due ordini di motivi. Da un lato, Spencer dimostrerebbe di avere compreso la funzione consolatoria assolta dalla credenza, che da un punto di vista sociale si rivela necessaria, e, sotto questo rispetto, addirittura più importante che non la lucida consapevolezza di ciò che è ritenuto dalla scienza ‘vero’; dall’altro lato, il filosofo dimostrerebbe in questo modo una piena consapevolezza dello statuto di ipotesi a cui è ‘condannata’ la teoria dell’evoluzionismo, non diversamente da quanto accade per la teoria ad essa opposta, quella del creazionismo. Fatalmente, come tutti gli umani sistemi, entrambi non sono in grado di spiegare interamente il mistero delle cose e della vita, entrambi sono impossibili da provare con certezza assoluta e, come tutte le dottrine di analoga natura, entrambi scompariranno o verranno sostituiti da nuove dottrine di là da venire. Ma seguiamo direttamente i passaggi dell’articolo derobertiano, ossia di quel ‘testamento’ del pensatore catanese che recensisce il testamento di un filosofo inglese.

Le ultime pagine di questo libro, le più belle e le più profonde, sono intitolate appunto

Questioni ultime, e contengono una nobile e sobriamente eloquente protesta contro la

supposizione che l’abbandono del dogma implichi cura dei soli interessi materiali e rinunzia ai problemi del Come e del perché, del donde e del Dove. Maestro di quella teoria dell’Evoluzione che, secondo alcuni troppo zelanti seguaci, sarebbe la sola chiave di tutti gli enigmi, egli ne sente invece la manchevolezza, e quasi la confonde, nell’impotenza a spiegare il mistero, con quell’altra dottrina della Creazione della quale aveva dimostrato la fallacia ed alla quale l’aveva anzi opposta. Egli riconosce che sono entrambe “ipotesi” adatte forse a tentar di spiegare i misteri delle cose che cadono sotto i nostri sensi; ma, oltre i misteri dell’esistenza concreta, ce n’è altri ancora più trascendenti, c’è il mistero dello Spazio, con le sue proprietà eterne ed increate, “antecedenti ogni creazione, se creazione ha avuto luogo, ed ogni evoluzione, se ha avuto luogo l’evoluzione”.

Dinanzi a questo problema dei problemi, Erberto Spencer non combatte la fede, riconosce anzi che fede e scetticismo si possono dare la mano. Egli non la combatte, del resto, neanche per quel che concerne la vita pratica. Prima di considerare le Questioni ultime,

chiede a sé stesso: - Che cosa dovrebbe dire lo scettico ai credenti? – e la sua risposta, complessa come tutte le risposte della sana filosofia, è che il credo naturalista non può esser sempre e dovunque opposto con vantaggio al credo religioso. Ai medi intelletti delle presenti generazioni umane, in basso ed in alto della scala sociale, è da lasciare l’insegnamento dommatico: questo già troppo spesso fallisce perché si possa sperare che l’insegnamento etico, la morale positiva senza sanzione sacra, possa meglio riuscire. Data l’inefficacia del sistema soprannaturale, egli non dispera che la disciplina di una pacifica vita sociale lentamente trasformando le diverse nature degli uomini, possa preparali ad accogliere un sistema di etica naturale; ma intanto, se a coloro cui pesano troppo gravemente i timori di una punizione eterna pensa che si possa opportunamente mostrare come, “per quanto sia spietato il processo cosmico effettuato da un Potere Ignoto, tuttavia in nessuna parte di esso si può trovar traccia di vendetta”, dall’altro lato, soggiunge, “la simpatia impone silenzio verso tutti quelli che, soffrendo dei mali della vita, traggono un certo conforto dalla loro credenza”. E questa prudente tolleranza, questa rispettosa moderazione, più che la genialità delle concezioni gagliarde, fa di Erberto Spencer un filosofo nel più vasto e miglior senso della parola. Troppe dottrine sono sorte e cadute, perché quella dell’evoluzione resti incrollabile; e quando anch’essa sarà caduta a sua volta, e quando un’altra e poi un’altra ancora l’avranno sostituita, la confessione della nostra ignoranza resterà sempre l’ultima parola della saggezza.246

Come accade in ognuno degli articoli attraversati nel corso della nostra indagine, è molto sottile il confine che separa ricostruzione e rispetto del pensiero dell’Altro e infiltrazione e ricostruzione del pensiero Proprio. In particolare, questa osservazione vale per tutti quei punti del saggio in cui, come sopra si è visto, De Roberto insiste sulla coscienza in Spencer del relativismo insito in ogni umana dottrina, dunque sull’inconoscibilità del reale. La saggezza ‘sociale’ presupposta dalla non imposizione della visione materialista ed evoluzionista agli ‘altri’ (quantomeno a coloro che non sono giudicati in grado di sostenerne le conseguenze teoretiche e pratiche), deriverebbe dunque dalla nozione ‘teoretica’ che da sempre costituisce il cardine del pensiero derobertiano. Oltre a un intellettualismo marcatamente paternalista, allora, è il tragico relativismo universale ad autorizzare la scissione di principi cui uniformare, rispettivamente, il paino pratico e il piano teoretico della ricerca esistenziale.

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F. De Roberto, Un testamento filosofico. I «Fatti e commenti» di Erberto Spencer, «Corriere della Sera», a. XXVIII, 21 marzo 1903.

La scelta del fine etico, dunque, in De Roberto è ‘filosoficamente corretta’, ossia logicamente legittima rispetto alla contemporanea permanenza delle ‘terribili’ questioni ontologiche ed epistemologiche aperte dall’osservazione positiva. Il relativismo universale non viene mai messo in discussione, e il fine etico non si fonda sul recupero di una trascendenza, come avviene per la parte maggiore dei rappresentanti della crisi; al contrario, la possibilità di un suo recupero si fonda in ultima analisi sul relativismo stesso, e sull’amaro, saggio equilibrio che esso suggerisce sul piano pratico dell’agire umano. Il fine etico è dunque, in De Roberto, l’unica ‘soluzione’ all’unico piano su cui sia legittimo cercare soluzioni, e l’unico mezzo in grado di concedere all’uomo quel poco di bene che, entro i limiti dell’umana natura, gli è dato provare.

Un’ultima chiave, questo articolo, per intendere le apparenti contraddizioni del pensiero derobertiano, e la piena coerenza di tanti temi, già considerati della

rechute, rispetto a un pensiero che invece rimane al fondo ‘terribile’. Questa è,

CAPITOLO VI

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