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I temi della cultura della crisi La crisi nel Positivismo.

6. Solo un «modo di vedere»: relativismo come leggerezza?

determinato da fattori culturali, è la seconda, concomitante causa che porta agli stessi esiti dell’indagine scientifica applicata all’uomo morale, perché:

se il pensiero è il nostro peggior nemico, se ogni insidia ci vien tesa da lui, bisogna desiderare che esso si spenga, che l’essere si distrugga, che la vita finisca, che tutto rientri nel nulla! …Il nihilismo più fosco è la conseguenza di questo modo di vedere.121

E fra questo ‘modo di vedere’, fra dinamica immaginazione/disillusione e volontà/dolore, il passo è breve, ed anzi nullo, e presto verranno gli articoli in cui il messaggio di Flaubert sarà equiparato a quello di Leopardi, e il messaggio di Leopardi sarà indicato quale base della filosofia di Schopenhauer. La flaubertiana ipertrofia dell’immaginazione, a questa altezza del pensiero derobertiano, ha ancora come esito specifico il più sconfortato pessimismo.

6. Solo un «modo di vedere»: relativismo come leggerezza?

In fondo ci troviamo soltanto di fronte a una recensione: De Roberto si appassiona, certo, ma riporta quelli che sono i risultati dell’indagine di Bourget. Ma ci ricorda anche come al «credo sconsolante della filosofia del secolo» il romanziere francese pervenga «forse non senza un preconcetto di sintesi». E il ‘forse’ che attenua un simile giudizio potrebbe abolirsi, perché in realtà «egli fa sue molte fra le tendenze rintracciate nelle opere di coloro ai quali dà riverentemente il titolo di maestri», e, argomenta De Roberto per convincere definitivamente il lettore, «se le pagine eloquenti di questo volume non lo dimostrassero, i suoi poemi, le sue novelle ne darebbero una prova irrefrangibile».122 Allora, prova altrettanto ‘irrefrangibile’ dell’affinità esistente fra autore e concetti affrontati saranno anche le opere derobertiane di là da venire, e i saggi giornalistici che d’ora in poi, numerosi, dedicherà a Bourget, e agli autori affrontati da Bourget, e agli autori che in generale contribuiranno a comporre il quadro del credo sconsolante del secolo.

121

Ibidem, p. 3. 122

Perché di un credo appunto si tratta, di un credo negativo. La dimostrazione dell’inesistenza del libero arbitrio e, più, della vanità del Tutto che viene dalla psicologia di Taine; l’analogo risultato cui giunge, per via ‘empirica’, l’esperienza di Flaubert, che al contatto col reale vede perire ogni illusione e svelarsi l’‘eterna miseria del tutto’; il contrasto tragico (perché davvero ‘tertium non datur’) fra persuasioni scettiche della ragione e bisogno d’ideale, che emerge nell’esperienza e nell’opera di Baudelaire. Questa la mappa di riferimenti che si delinea da subito e che da subito affilierebbe De Roberto al nihilismo di secondo Ottocento.

Ma la conclusione alla recensione dell’‘86, che segue a un anno di distanza l’uscita della seconda serie degli Essais bourgettiani, sembrerebbe capovolgere il quadro emerso nell’‘84.

Riproponendo lo schema di Bourget, De Roberto affronta il pensiero di altri cinque autori rappresentativi della malattia morale del suo tempo: Dumas figlio, Leconte de Lisle, i fratelli Goncourt, Turgenev, Amiel. Al di là della trattazione dell’autore russo e dei Goncourt, che da prospettive diverse porta ad affrontare, quali sintomi del pensiero e del gusto contemporanei, problematiche squisitamente estetiche,123 la trattazione degli altri autori si muove entro lo schema concettuale già tracciato sulla scorta degli Essais dell’‘83. Vengono infatti trattate questioni che riprendono e completano il quadro precedentemente proposto. Con Alessandro Dumas figlio, tuttavia, si torna ad affrontare un argomento accennato da De Roberto nella recensione al Graindorge: la possibile soluzione all’esito nichilista cui portano sia le moderne dottrine sia la dinamica conoscitiva illusione/disillusione. Mentre però nel Graindorge la soluzione veniva proposta in termini esclusivamente laici, con l’opera di Dumas se ne vaglia la ‘variante’ religiosa. Se l’esperienza del libertinaggio e lo spirito d’analisi porterebbero i personaggi del romanziere francese al più fosco pessimismo, «arrivato a questo punto, dinanzi ad una conclusione così sconfortante, lo spirito del Dumas è ritornato su se stesso, e invece di spingersi fino al nichilismo metafisico, come un filosofo a rigor di logica avrebbe fatto, ha affermato la bontà

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Le questioni affrontate in questa sezione dell’articolo verranno riprese nel capitolo successivo, che tratterà appunto della poetica esplicita e implicita di De Roberto. Va notato subito, però, l’interessante parallelo che De Roberto stabilisce fra Turgenev e Verga perché, al di là del valore estetico di tale accostamento che valuteremo successivamente, è spia, già a quest’altezza cronologica, dell’autonomia guadagnata dalla trattazione di De Roberto rispetto alla dimensione di pedissequa recensione a Bourget.

della vita». Infatti, prosegue De Roberto, «costretto dalla sua stessa analisi a riconoscere la profonda miseria del mondo reale, egli si è rifatto con la speranza di un di là migliore, e il suo misticismo, che si manifesta in sentenze quasi profetiche, con frasi di un sapore biblico, ritrae una nuova disposizione dell’Anima contemporanea; la quale, non ostante l’invasione del positivismo nell’arte, nella politica, nelle scienze morali, a malgrado delle scettiche conclusioni della ragione, non si rassegna a credere la vita terrena senza un domani».124 Con diversi anni di anticipo rispetto al divampare della polemica dalle colonne della «Revue des deux mondes», un Bourget ancora attento a tutte le tendenze dell’inquieta cultura contemporanea, e un De Roberto altrettanto attento a recepirne i fermenti e a ricomporli entro un unico discorso esplicativo, colgono la ‘soluzione’ alla crisi, la meno ‘logica’ ma non per questo la meno battuta, cui si volgerà di lì a poco la parte maggiore dell’intellettualità europea. E che, in tempi diversi ma soprattutto in modi diversi, finiranno entrambi per tematizzare all’interno delle proprie opere.

Ma non è questo a essere l’unico esito possibile della ‘crisi’. In modo certo più conseguente rispetto alla finale ‘virata’ dumasiana, l’opera di Leconte de Lisle è presentata nella recensione derobertiana quale traduzione poetica delle più moderne dottrine tainiane, le cui conclusioni sono accettate con lucidità. Portatrice, per questo, di un sentimento cupamente nichilista, la poesia di Leconte esprimerebbe al contempo l’incapacità di rassegnarsi innanzi «a questo svanire di tutte le cose», testimoniando di una contraddizione dolorosa e di un atteggiamento psicologico che, da un lato, è esplicitamente opposto alla freddezza filosofica con cui il Taine reagisce alle terribili conclusioni del proprio sistema, e, dall’altro, ripropone il sentimento già vagliato in Baudelaire. Sentimento, reazione, psicologica contraddizione che si rivelerà chiave interpretativa fondamentale del pensiero di De Roberto.

Ultimo elemento che arricchisce e completa il quadro emerso nel 1884 è l’attenzione rivolta a quell’altra causa dell’‘anemia morale’ del secolo XIX, escrescenza del metodo positivo applicato alla vita psicologica dell’individuo, che si attesterà quale vero leitmotiv non solo dell’opera saggistica e letteraria derobertiana, ma anche del dibattito culturale sulla crisi. Si tratta di quello stadio eccessivo e ‘malato’ cui giungerebbe lo spirito d’analisi che si ritorce sul soggetto

124

F. De Roberto, Psicologia contemporanea, «Fanfulla della Domenica», a. VIII, n. 8, 21 febbraio 1886.

diventando autoanalisi, già trattato a proposito di Baudelaire, e che trova il suo più illustre rappresentante e insieme la più illustre vittima nell’ultima figura analizzata nel 1886: Henri-Frédéric Amiel, inibito per l’intera esistenza tanto all’azione quanto alla creazione.125

Ma, al termine dell’articolo, completato il quadro del credo negativo cu arriva il secolo XIX tutto, De Roberto, come anticipato, spiazza il lettore. Lo spiazza perché, per difendere l’autore degli Essais dall’accusa di contribuire, «con la sua seducente descrizione del pessimismo», a diffondere la ‘malattia morale’ che vorrebbe invece soltanto descrivere, introduce un concetto che sembra capovolgere, meglio, relativizzare tutti gli assunti sin qui proposti.

Innanzi tutto bisognerebbe intendersi sul senso della parola pessimismo, e chi credesse di designare con essa la convinzione della malvagità della vita e la finale rinunzia, non troverebbe forse nessun caso in cui adoperarla. Il fatto stesso della attività letteraria d’uno scrittore esclude in lui la pratica del pessimismo assoluto. “Quando noi dunque diciamo d’uno scrittore che egli è un pessimista, intendiamo che la sua opera si riassume in un’impressione deprimente”. Se è così, i timori di contagio sono singolarmente esagerati, poiché l’impressione è per sua natura variabilissima, non solo in individui diversi, ma in uno stesso, da un momento all’altro. [...] I giudizi del Panzacchi e del Bourget126 sono entrambi legittimi, perché espressivi di due impressioni sincere quantunque contrarie. Pessimismo ed ottimismo sono, innanzi tutto, modi di sentire, emozioni, e non dimostrazioni razionali; il Bourget lo ha detto molto chiaramente, in più d’un passaggio. A seconda delle disposizioni personali si conclude quindi, relativamente al valore della vita, in un senso piuttosto che in un altro, ma nessuna di tali conclusioni potrebbe avere un valore assoluto. [...] E nel riconoscere e nell’accettare la relatività di ogni nostra affermazione consiste probabilmente la legge della salute morale.127

Solo un modo di vedere, dunque; solo un modo di sentire, personale, soggettivo, variabile da individuo a individuo, e, di più, entro uno stesso individuo, variabile da momento a momento; inoltre, un modo di sentire contraddetto, negli scrittori che lo professano, dalla stessa loro attività letteraria. In modo più sferzante, nel 1888, De Roberto aprirà la trilogia di articoli sulla ricostruzione in diacronia della ‘malattia morale’ dell’epoca moderna affermando che «se il male del secolo è il pessimismo, l’infiacchimento della volontà, la persuasione della vanità della vita, l’uomo che è affetto da questo male dovrebbe rinunziare ad ogni attività, uccidersi o rifugiarsi in un romitorio. Scrivendo invece

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Scrisse in vita soltanto un ponderoso Journal intime, pubblicato postumo e in versione non integrale fra il 1882 e il 1884; fra il 1976 e il 1994 ne è stata pubblicata a Losanna la prima edizione integrale.

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Qui De Roberto fa riferimento agli opposti giudizi formulati dai due personaggi a proposito dell’opera di Stendhal: il primo non aveva accettato di includere Stendhal fra i ‘pessimisti’, come invece aveva fatto Bourget nella sua prima serie di Essais.

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dei romanzi, dei poemi, dei trattati di filosofia, stampandoli, aspettando che la critica li discuta, proseguendo più o meno coscientemente un sogno di gloria, egli va contro la propria dottrina».128

Simili affermazioni sembrano contraddire palesemente i luoghi in cui lo sconfortante ‘credo’ del secolo viene da De Roberto analizzato e sviscerato con acribia critica giustificabile solo alla luce di un sincero interesse. Sembrerebbero negare dunque la centralità, nell’opera come nel pensiero derobertiano, dei principali nodi che costituiscono il discorso culturale sulla crisi di fine Ottocento, e che invece sono indispensabili alla comprensione dell’itinerario artistico e sperimentale dell’autore. Eppure, simili affermazioni si ripetono di frequente e sempre in posizione ‘marcata’, ossia a chiusura dei saggi giornalistici: spia dell’intenzione, nell’autore, di dire con esse l’ultima parola. Parola che così proietterebbe retrospettivamente una luce di relativismo leggero, conciliando i credo negativi trattati con i credo positivi evocati da questa legittimazione delle opposte visioni. È quanto accade, ad esempio, nella recensione del 1889 al Senso

della vita del Rod. Nell’articolo De Roberto si occupa di questo e del precedente

romanzo dell’autore,129 entrambi rappresentazione di una concezione pessimista, anzi compiutamente nichilista, dell’esistenza. In chiusura, stavolta per difendere l’autore dello scritto da ancora solo presunte accuse di pessimismo che certa parte della critica potrebbe muovergli (quella parte, sembra, che non appartiene alla ‘scuola dell’osservazione’), nota come «le accuse potrebbero non essere legittime», perché «l’autore ci presenta non […] un ragionato sistema sollecitante l’approvazione dei pensatori» ma «una serie di impressioni personali, soggettive, contraddittorie come la vita stessa». Se sul piano della riflessione poetica De Roberto sta rivendicando il diritto, per l’opera d’arte, d’essere giudicata in quanto tale e non secondo procedimenti di confutazione più adatti a un trattato di filosofia, sul piano dei concetti espressi torna alla ‘teoria’ del relativismo, presupposto alle affermazioni conclusive secondo cui «in fatto di sodisfazione [sic] o di scontento, tutto dipende dalla disposizione iniziale dello spirito, e – se così vuolsi – dal preconcetto. Chi è di buon umore, dà prezzo ad una facezia anche insipida; un ipocondriaco maledice l’esistenza perché la penna con cui scrive si

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F. De Roberto, Intermezzi. Una malattia morale, «Giornale di Sicilia», a. XXVIII, 21 luglio 1888, p. 1.

129

Edouard Rod, La corse à la mort, Paris, L. Frinzine, 1885; il romanzo che dà il titolo al presente articolo di De Roberto è invece Le sens de la vie (Paris, 1888-89).

spunta sulla carta». Non che De Roberto non condivida i contenuti nichilisti del romanzo francese: è lui stesso ad affermare poche righe sopra che le convinzioni del Rod «non sono poi soltanto vere relativamente, ma racchiudono molta parte di verità assoluta».130 Tuttavia la nota relativistica che torna in chiusura sembra voler bloccare ogni oltranza di pessimismo sulla soglia della riconciliazione con opposti ottimismi, altrettanto soggettivi e altrettanto veri a un tempo. E, come in questo caso, analoghi procedimenti argomentativi strutturano le chiuse di moltissimi articoli.

Dunque, sembrerebbe che la ricostruzione del pensiero derobertiano torni al punto di partenza: all’‘empirica superficialità’ con cui il nostro eluderebbe le più radicali conclusioni del pessimismo contemporaneo servendosi del relativismo, malleabile strumento concettuale declinato da De Roberto nell’accezione di ‘scettica tolleranza’ o ‘scettico adattemnto’ fra opposte scuole di pensiero. E torneremmo, pure, al collegamento tradizionalmente stabilito fra queste chiuse, ‘emblemi costanti dei suoi giudizi critici’, ed uno fra i ‘colori’ del tempo in cui visse l’autore: il ‘dilettantismo’ inaugurato da Ernest Renan, meglio, una delle letture che i contemporanei diedero dell’opera e dell’atteggiamento intellettuale del maestro positivista. Nessuna visione o convinzione circa la vita potrà mai essere provata, dunque nessuna posizione avrà ‘valore assoluto’. E allora tutto è relativo, vale a dire legittimo, vale a dire ugualmente contemplabile nella grande speculazione sul mondo.

E torneremmo, infine, al tradizionale giudizio espresso su tutti quei passi degli scritti pubblicati in volume in cui si ripetono le affermazioni delle chiuse giornalistiche, e, fra tutti quei passi, soprattutto alla celebre lettera al Treves che, in forma di prefazione ai Documenti umani, De Roberto pubblica nel 1888. Calando stavolta le affermazioni entro la contesa fra i rappresentanti delle due scuole in voga all’epoca, De Roberto parafrasa se stesso, oltre a Maupassant, quando afferma: «i naturalisti sono accusati di veder tutto nero […]; gl’idealisti di vedere roseo […]. So benissimo che tanto gli uni quanto gli altri […] sono persuasi di veder la vita com’è […]. Io dico che siccome mancano alla realtà caratteri specifici, siccome essa non è precisamente definibile, le visioni antagonistiche delle due scuole sono egualmente legittime».131 E, come già ha

130

F. De Roberto, Il senso della vita di E. Rod, «Fanfulla della Domenica», a. XI, n. 6, 10 febbraio 1889.

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dimostrato passando a questi Documenti umani dopo l’esperienza della Sorte, da queste stesse basi teoretiche potrà affermare due anni dopo d’essere passato con «raffinato godimento da dilettante»132 dall’una all’altra maniera letteraria, pubblicando l’Albero della scienza nello stesso anno dei celebri Processi verbali.

Disponibilità a tutto conoscere, disponibilità a tutto abbracciare col pensiero, visioni antinomiche egualmente legittime dunque egualmente sperimentabili, ma con la leggerezza e il ‘godimento’ di chi non ne sceglie alcuna, del dilettante che piuttosto si compiace dell’‘epicureismo del pensiero’.

Dovremmo allora considerare questo l’esempio più noto (perché pubblicato) di tutta una serie di affermazioni rimaste fortunatamente sommerse fra colonne di giornale, perché non farebbero che reiterare un concetto già riconosciuto centrale in De Roberto e già sviscerato dalla critica in tutte le sue valenze e implicazioni culturali. E davvero la Prefazione ai Documenti umani si riconnette al discorso annodato da De Roberto attraverso gli articoli degli anni precedenti.

Al contrario, però, il refrain che torna in questi anni fra articoli e volumi derobertiani non è già stato sviscerato in tutte le sue valenze né, soprattutto, in tutte le sue ascendenze culturali, e non porta affatto il discorso al punto da cui era partito: impone, al contrario, di procedere oltre.

De Roberto, nell’incipit alla trilogia di articoli del 1888 che vedevamo sopra, dopo la sferzante ironia riversata sulle contraddizioni degli scrittori seguaci della scuola pessimista, infatti ‘aggiustava il tiro’:

questo caso, che sembra di contadizione [sic], è piuttosto di complessità. Nessun uomo è così semplicemente e rigidamente formato, che un solo aggettivo possa definirlo. Nessuno è tutto buono o tutto perverso, tutto triste o tutto giocondo. Non solo in momenti diversi, sotto la influenza di circostanze contrarie, le conclusioni di ciascuno non sono concordanti; ma per tutti i un certo grado, e per certe nature raffinate in un grado più alto, l’azione simultanea di molteplici spinte spiega la legittimità delle complicate soluzioni.133

Non dunque legittimità acritica di ogni soluzione antinomica, piuttosto legittimità delle ‘complicate soluzioni’. Non casi di ‘contradizione’ che annullano la verità di conseguenti conclusioni negative, piuttosto casi di ‘complessità’ che affondano le proprie radici in una nuova concezione delle dinamiche epistemologiche dell’uomo. Sono le specifiche radici di questa nuova concezione

132

Ibidem, p. 1644. 133

relativistica che andranno reperite, e andrà del pari rintracciata la specifica reazione derobertiana di fronte a questa scoperta, per gettare uno sguardo nuovo sull’opera dell’autore e sulla sua sperimentazione attorno alle tecniche di rappresentazione della realtà.

CAPITOLO IV

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