• Non ci sono risultati.

Diritti fondiari come strumento di organizzazione dei programmi di sviluppo

4. Sviluppo rurale e governance della terra in periodo post-coloniale

4.1. Diritti fondiari come strumento di organizzazione dei programmi di sviluppo

degli Stati indipendenti, come ha sottolineato Boone, dopo le indipendenze «l’inserimento di autorità statali nei processi di definizione, manipolazione, codifica e arbitraggio dei diritti fondiari rurali rimase una risorsa centrale per i governanti» (Boone 2007, 561). Il fatto che nella maggior parte dei Paesi la terra delle aree rurali continuasse ad essere legalmente proprietà dello Stato faceva degli abitanti, in quanto individui, famiglie e comunità, meri “occupanti” e usufruitori di una terra che non apparteneva loro. La popolazione locale era quindi particolarmente vulnerabile alle operazioni di riassegnazione della terra e di ridistribuzione delle risorse naturali (Wily 2001, 80),

59 Il prezzo del petrolio andava infatti ad influire sui costi di importazione dei beni, sui fertilizzanti e sulla

benzina necessaria per il trasporto dei prodotti agricoli. La struttura dei sistemi di distribuzione degli input agricoli e il funzionamento delle agenzie parastatali furono pianificati in un periodo (fine anni ’60 -inizio anni ’70) in cui il prezzo del petrolio era basso. Nel momento in cui esso cominciò ad aumentare la sostenibilità di tali programmi di sviluppo agricolo fu compromessa.

giustificate peraltro dalla necessità di garantire lo sviluppo economico del Paese. Qualunque fosse il modello ideologico promosso dai leader indipendenti, diventava allora indispensabile chiarire quale legame intercorresse tra il riconoscimento legale di diritti sulla terra, le istituzioni socio-politiche locali e i modelli di sviluppo che gli Stati si proponevano di portare avanti. Le riforme fondiarie costituivano uno strumento necessario per legittimare gli interventi statali in ambito rurale e ripensare ai modelli di società che ci si proponeva di promuovere.

Come sottolineato in precedenza, i Governi diedero priorità all’accentramento delle risorse in nome dell’unità nazionale e quindi confermarono attraverso le leggi fondiarie l’esistenza di un demanio nazionale a partire dal quale la terra sarebbe stata distribuita alla popolazione attraverso processi di registrazione di titoli fondiari. In alcuni casi i Governi decisero di riconoscere i diritti fondiari per intermediazione di autorità locali. Tale sistema prevedeva la concessione di diritti di accesso e utilizzo della terra sulla base di una presunta appartenenza locale ad una “comunità indigena”. Il legame con la “comunità” diventava quindi presupposto per il conferimento di diritti di utilizzo della terra agli abitanti delle aree rurali (land use rights o droits de jouissance). Tali politiche si tradussero di fatto nell’istituzionalizzazione e nella riproduzione da parte dello Stato di un regime fondiario incentrato sulle figure dei capi, retaggio dell’epoca coloniale. I leader nazionalisti conferirono di fatto (o di diritto) il potere di gestione del territorio ad autorità locali che traevano legittimità da forme “neo-consuetudinarie” di esercizio del proprio potere (Boone 2014) e che continuavano a svolgere il loro ruolo in qualità di attori non- eletti dal popolo. Le modalità di esercizio del potere delle autorità consuetudinarie non solo non venivano sottoposte al giudizio della legge statale, ma furono spesso strumentali al controllo della popolazione e dei modelli di produzione statali. I Governi riprodussero inoltre forme di “territorializzazione” istituite in periodo coloniale, confermando quel vincolo tra “comunità”, esercizio di autorità e territorio da cui sarebbe dipeso il riconoscimento dei diritti fondiari (e non solo) della popolazione. Le comunità sarebbero quindi state governate all’interno di terroir, ovvero di aree delimitate amministrativamente dallo Stato, che diventavano di fatto luoghi in i capi locali esercitavano il potere attraverso la gestione della terra e l’attribuzione di relativi diritti di accesso e di utilizzo.

In altri casi, invece, i Governi utilizzarono il proprio potere per sfidare, in nome della “modernità”, le autorità “consuetudinarie” che nel periodo coloniale erano state incaricate di gestire il territorio e di contribuire alla codifica di diritti “consuetudinari” (Mamdani 1996). In questo caso i diritti di utilizzo della terra non furono vincolati all’appartenenza degli individui ad una specifica comunità, ma chiunque avrebbe potuto coltivare la terra su qualsiasi territorio.60 Questa tipologia di regime fondiario consentiva di riconoscere diritti di accesso e utilizzo anche a migranti e stranieri che, non essendo vincolati al principio di appartenenza locale alle comunità di villaggio, avrebbero potuto ottenere diritti fondiari alle medesime condizioni delle popolazioni “autoctone”. La seconda tipologia di organizzazione del regime fondiario fu strumentale in Paesi come la Costa d’Avorio61 a legittimare operazione di insediamento di migranti baoulé, provenienti dalla

zona centrale del Paese e dei malinké, dioula, senoufo delle regioni settetrionali, nella frontiera di espansione agricola ivoriana. Il Governo ivoriano rispondeva alla necessità di manodopera nelle piantagioni per la produzione principalmente di cacao e caffé promuovendo l’ingresso di lavoratori anche da Paesi vicini, come il Burkina Faso, Mali e Guinea, incoraggiati sia dalle modalità di gestione del settore fondiario che dalle nuove politiche di sviluppo rurale.

Chiaramente quelli che potevano essere considerati due “idealtipi di regime fondiario” (Boone 2007), uno “consuetudinario” e l’altro “statale”, assunsero di fatto forme ibride sul territorio, poiché le riforme fondiarie che avrebbero definito il funzionamento di tali sistemi in molti casi rimasero incompiute.62 Il risultato fu che gli abitanti delle aree rurali

restarono nella maggior parte dei casi privi di certificati che riconoscessero i diritti esercitati sulla terra che coltivavano.

60 Nel 1963 il presidente ivoriano Houphouët-Boigny promuoveva l’insediamento di immigrati nelle regioni

sud-occidentali del Paese dichiarando che la terra apparteneva a chi la rendeva produttiva. Il principio secondo cui «[..] la terre appartient à celui qui la met en valeur», richiamava in fondo il principio di « valorizzazione » delle terre adottato dai francesi in periodo coloniale.

61 Simili riforme furono adottate anche in Togo e in Mauritania.

62 Tornimbeni (2010, 66-67) ha sottolineato come l’incompiutezza delle riforme adottate a livello centrale

fosse sintomo delle fragili fondamenta di economia e istituzioni statali. Il fatto che gran parte del mondo rurale rimanesse al di fuori dei progetti governativi creò un dibattito interno al mondo accademico che si riferiva agli abitanti del mondo rurale come un uncaptured peasantry (Hyden 1980), un soggetto deciso a porre resistenza al controllo statale e ai tentativi governativi di includerlo in grandi progetti concepiti dall’alto.

Ad esempio in Costa d’Avorio, sebbene fosse volontà del Governo indebolire la struttura “tradizionale” a cui venne affidata la gestione della terra in periodo coloniale, nelle aree di produzione del cacao gli immigrati continuavano ad essere accolti attraverso un sistema di tutorat.63 Il tuteur locale continuava a rappresentare per i nuovi arrivati la figura di riferimento, alla quale avrebbero dovuto mostrare riconoscenza, rispettando le regole della “tutela” loro accordata. In cambio sarebbero stati autorizzati a coltivare, ottenendo diritti di accesso alla terra del tuteur e acquisendo con il tempo diritti più duraturi sui terreni agricoli concessi. Il tuteur si prendeva carico dell’inserimento dei “nuovi arrivati” preoccupandosi che le persone sotto sua protezione rispettassero obblighi sociali nei confronti della comunità (Chauveau 2000, 2006). Quello del tutorat era un sistema fondiario in evoluzione, in cui l’autorità del tuteur si consolidava proprio attraverso i nuovi arrivati e lo stesso accesso alla terra era vincolato al riconoscimento dell’autorità da parte di chi accettava di insiediarsi sotto tutela del tuteur. Con il tempo i “nuovi arrivati” potevano a loro volta diventare tuteur di altre persone che chiedevano di insediarsi nei villaggi, consolidando in questo modo i diritti ottenuti attraverso il rispetto di obblighi di tutela precedentemente accordati con chi aveva mediato il loro insediamento.

Laddove invece le leggi fondiarie vennero effettivamente implementate, esse furono rimodellate sulla base delle realtà esistenti a livello locale. Ad esempio, la riforma senegalese del 1964, che si proponeva di uniformare i sistemi complessi di diritto tradizionale, coloniale e musulmano all’interno di un demanio fondiario statale diviso in quattro categorie fondiarie64 diede avvio a processi di accumulazione da parte delle élites

rurali. Attraverso il processo di riforma fondiaria senegalese si intendeva definire una strategia di sviluppo rurale integrato, assicurando la valorizzazione della terra, promuovendo la decentralizzazione di meccanismi decisionali e la partecipazione delle collettività di base alla gestione e all’utilizzo delle terre. Diritti ereditari sarebbero stati

63 Per approfondire le dinamiche dei sistemi di tutorat si vedano: Shack W. A, E. P. Skinner (1979),

Strangers in African Societies. University of California Press, Berkeley, Los Angeles; Le Meur P. Y. (2004) Le tutorat comme institution et relation. Etude de cas beninoise, paper presented at research seminar,

‘Ethnographie des droits et dynamiques foncieres’, EHESS, Marseilles (16–19 November).

64 La classificazione era la seguente: 1) zone urbane, 2) zone classificate, sottoposte a regolamentazione

particolare, come foreste e aree naturali protette, 3) zone di territorio, ovvero aree residenziali, agricole e pastorali affidate ai membri delle comunità rurali 4) zone pioniere non coltivate, che furono poste sotto il controllo diretto dello Stato (Mizzau 2001, 31).

riconosciuti a chi avesse dimostrato di rendere produttiva la terra per un periodo consecutivo di tre anni, continuando a risiedere nella “comunità”. Interpretando a loro favore il concetto di “valorizzazione” delle terre comunitarie le autorità consuetudinarie assunsero in questo modo la gestione della produzione delle loro “comunità”, mediando l’ingresso di nuovi produttori disposti ad investire per incrementare la produzione a livello locale (Niang 1982).

Nel complesso, la logica alla base dei regimi fondiari consuetudinari continuò a prevalere su quella statale nei contesti rurali e il rapporto dei Governi con le autorità consuetudinarie rimase ambiguo. Nella maggior parte dei Paesi si continuò a riconoscere di fatto, ma non di diritto, il ruolo amministrativo di tali figure per il conferimento della terra a livello locale e per la risoluzione di dispute e conflitti fondiari. Le autorità consuetudinarie furono “tollerate” dai regimi post-coloniali e continuarono ad esercitare il potere di gestire e controllare le transazioni fondiarie e i meccanismi di successione ereditaria della terra. La stessa nozione di “diritti consuetudinari” venne mantenuta per identificare i sistemi di diritto vigenti in ambito rurale, ma essa venne al contempo strumentalizzata per rispondere agli interessi di attori che approfittarono dell’indefinitezza di tali regimi per rivendicare privilegi sui territori, così come per ricercare protezione sociale all’interno di un sistema “comunitario” di gestione della terra. In definitiva, come ha sottolineato Boone (2014, 38), i Governi post-coloniali furono, più o meno consapevolmente, influenti nel riprodurre le istituzioni e le relazioni politiche che si erano instaurate nel periodo coloniale nel rapporto tra Stato centrale e mondo rurale.