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Politiche di decentralizzazione e governance della terra

Come ha sottolineato Zamponi: «il linguaggio della decentralizzazione si è trasformato nel corso degli anni. Se nei primi anni si enfatizzavano riforme volte a creare coesione e una gestione efficace delle risorse e del mondo rurale, i programmi più recenti hanno rafforzato un discorso di emancipazione legato alla democrazia e ai diritti» (2011, 159). Negli anni ’90 la comunità internazionale nel suo complesso ritenne che la decentralizzazione, in quanto strumento per dare spazio alla partecipazione locale, mobilitare risorse e migliorare la governance locale, fosse una buona opportunità per scardinare i sistemi autoritari, creare istituzioni locali efficienti, dotate di autorità e responsabili nei confronti della popolazione, ponendo così fine alle difficoltà incontrate dagli Stati nel corso degli anni ’70-‘80 nel garantire lo sviluppo economico e rurale dei Paesi.

La decentralizzazione, si sosteneva, sarebbe stata garante di una pluralità di interessi in ambito rurale e avrebbe dato voce alle comunità locali, laddove i sistemi legalmente riconosciuti di gestione della terra e delle risorse naturali erano rimasti fortemente centralizzati e le politiche fondiarie di privatizzazione della terra non avevano dato i frutti sperati. La decentralizzazione presupponeva però un trasferimento di potere del Governo centrale agli attori e alle istituzioni al più basso livello dell’apparato politico- amministrativo (Mawhood 1993; Agrawal, Ribot 1999).

Esso poteva assumere forme diverse a seconda delle caratteristiche, delle implicazioni politiche e dei meccanismi di attuazione del processo. Le due forme principali in cui si presentava la decentralizzazione erano quella della devolution e della deconcentration.

La devolution, chiamata anche decentralizzazione politica, avveniva quando i poteri venivano conferiti ad attori o istituzioni locali responsabili nei confronti della popolazione (downward accountability). Lo scopo di questo tipo di decentralizzazione era favorire la partecipazione pubblica nel processo decisionale a livello locale (Ribot 1998). I sostenitori della decentralizzazione politica basavano le proprie argomentazioni sull’ipotesi che le decisioni prese con la partecipazione dei cittadini fossero ben fondate e rispondessero meglio alle loro aspirazioni rispetto a quelle adottate dalle autorità politiche a livello centrale. Inoltre, grazie a questa forma di decentralizzazione, si presupponeva che gli abitanti potessero conoscere meglio i loro amministratori così come quest’ultimi potevano avere maggiore conoscenza di necessità e richieste della comunità locale di cui erano rappresentanti. Per quanto riguardava invece la deconcentration, o decentralizzazione amministrativa, questa faceva riferimento al trasferimento di funzionari governativi a livello locale. I funzionari a cui il Governo centrale delegava parte dei propri poteri potevano avere un qualche obbligo verso le comunità, ma la loro responsabilità primaria era nei confronti del Governo centrale, che li aveva investiti di tale incarico (upward accountability) (Agrawal, Ribot 1999, 9). Attraverso il trasferimento di responsabilità di pianificazione, di finanziamento e di gestione delle risorse, il Governo centrale non voleva quindi rinunciare alla propria autorità a beneficio delle istituzioni locali, ma semplicemente intendeva controllare i livelli inferiori e mantenere il proprio potere (Ribot 1998, 3).

Guardando in ottica comparata questi due modelli di decentralizzazione e prendendo come parametro di valutazione i meccanismi che favorivano la partecipazione della popolazione alla vita politica locale e la responsabilità verso i propri elettori, si poteva constatare che la deconcentrazione era la forma debole della decentralizzazione, in quanto il legame tra i decisori e la popolazione era indiretto.

Invece la decentralizzazione politica, intesa come devoluzione del potere e delle funzioni dello Stato centrale a delle istituzioni locali responsabili nei confronti della popolazione poteva certo diventare uno strumento di partecipazione, ovvero di condivisione di meccanismi decisionali, ma soltanto ad alcune condizioni. Il legame tra partecipazione della popolazione ai meccanismi decisionali e decentralizzazione politica variava in funzione del potere e delle funzioni che venivano trasferite e, soprattutto, degli attori a cui tali funzioni venivano delegate (Boone 2009).

Nonostante i sostenitori della decentralizzazione promuovessero con grande enfasi i potenziali benefici derivanti dall’attuazione del processo di empowerment delle istituzioni locali, molti studiosi continuavano ad essere scettici sulla decentralizzazione in quanto portatrice di efficienza, stabilità politica, partecipazione, coesione nazionale e riduzione della povertà. Secondo questi studiosi il processo di decentralizzazione era talmente complesso e sfaccettato che i probabili vantaggi teorizzati si scontravano nella pratica con una serie di limitazioni politiche e tecniche che andavano ad incidere sull’intero processo (Prud’homme 1995; Hessling, Ba 1994).

Secondo i critici le problematiche che il processo di decentralizzazione si trovava ad affrontare nel corso della sua attuazione erano sia di natura politica che economica. Per quanto riguardava l’aspetto politico, la decentralizzazione doveva confrontarsi innanzitutto con il fatto che i leader erano restii a condividere il potere con i livelli locali, a causa del timore che la decentralizzazione potesse minare non solo i loro interessi personali, ma anche la coesione nazionale, e favorire processi di secessione o di segmentazione delle società, laddove i legami di apparteneza locale erano più forti del sentimento nazionale.

A livello locale le istituzioni politiche statali potevano entrare in conflitto con le autorità consuetudinarie che continuavano ad esercitare la propria influenza sulla vita politica, economica e sociale di gran parte della popolazione rurale. Se in alcuni casi fino all’avvento del processo di decentralizzazione le autorità consuetudinarie avevano guadagnato la legittimità e il sostegno della popolazione in un contesto in cui lo Stato era scarsamente presente a livello rurale e in cui i Governi avevano creato legami strategici con tali attori per mantenere il controllo del territorio e della popolazione (Bierschenk, Olivier de Sardan 2003), con l’attuazione della decentralizzazione le autorità consuetudinarie si trovavano nella posizione di dover difendere il proprio ruolo di “rappresentanti” della popolazione e quindi la propria legittimità. Teoricamente con il processo di decentralizzazione nuovi attori locali, attraverso l’investitura elettorale, sfidavano tali autorità e potevano diventare i nuovi rappresentanti delle “comunità” locali (Ouedraogo 2003, 22-26).

La questione fondiaria diventava poi un punto delicato nei processi di decentralizzazione poiché la delega di competenze in questo settore avrebbe ulteriormente sfidato i poteri locali, che avevano costruito la propria autorità grazie al controllo e alla gestione della

terra e delle risorse naturali, e la cui legittimità era stata peraltro rafforzata dai precedenti programmi di Gestion de terroirs, che avevano riconosciuto la centralità della loro posizione nelle aree rurali.

Come ha sottolineato Boone: «i processi di decentralizzazione amministrativa e politica degli anni ‘90 ebbero implicazioni sulle politiche di gestione e di utilizzo della terra in molti Paesi africani. Uno degli obiettivi del processo di decentralizzazione era di cambiare il locus e i meccanismi decisionali di gestione e utilizzo delle risorse naturali. La decentralizzazione riportava in auge la questione della riforma dei regimi fondiari [...]» (Boone 2007, 568).

Nel 1994 il Comité Permanent Inter États de Lutte contre la Sécheresse dans le Sahel (CILSS) 74 ed il Club du Sahel75 organizzarono a Praia una conferenza regionale per discutere delle problematiche che legavano il settore fondiario alle politiche di decentralizzazione. Nel corso della conferenza si insistette sul fatto che molte misure che contraddistinguevano le politiche fondiarie dei Paesi dell’Africa occidentale fossero portatrici di esclusione, di intolleranza e di tensioni tra comunità rurali. Affinché questa situazione avesse termine, secondo il CILSS ed il Club du Sahel, era necessario apprestarsi a mettere in atto una gestione decentralizzata della terra e delle risorse naturali che fosse espressione della partecipazione della popolazione locale e delegare quindi la gestione del settore fondiario ai Governi eletti localmente.

In base a quanto evidenziato, nel corso della conferenza regionale, una gestione effettivamente decentralizzata delle terre e delle risorse naturali avrebbe assicurato una maggiore sicurezza fondiaria per tutti gli attori in ambito rurale. Lo Stato centrale e i suoi servizi tecnici deconcentrati avrebbero assunto in questo caso il compito di orientare e validare a posteriori le decisioni adottate in seno alle singole comunità locali. Il concetto di gestione decentralizzata delle risorse si differenziava poi dalla gestione partecipativa dei programmi di Gestion de terroirs, caratterizzata invece da un processo in cui la

74 Il CILSS (Comité Permanent Inter Etats de lutte contre la sécheresse dans le Sahel) è un comitato istituito

il 12 settembre 1973 in seguito alla grande ondata di siccità che ha colpito l’area saheliana nei primi anni ‘70. Esso è composto da nove Paesi (Gambia, Guinea-Bissau, Mali, Mauritania, Burkina Faso, Senegal, Ciad, Niger, Capo Verde) la cui missione è impegnarsi nella ricerca di sicurezza alimentare e nella lotta contro gli effetti di siccità e desertificazione, al fine di costruire un nuovo equilibrio ecologico nell’area del Sahel.

75 Il Club du Sahel è stato istituito nel 1976 su iniziativa di alcuni Paesi membri dell’Organizzazione per la

cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) per aiutare i Paesi della fascia del Sahel ad affrontare le conseguenze nefaste della siccità dei primi anni ‘70. Compito del Club du Sahel è consentire uno sviluppo ed una maggiore integrazione della regione occidentale africana.

partecipazione della popolazione era tale solo in apparenza perché era lo Stato centrale, di fatto, a mantenere una forte influenza sulle decisioni che venivano prese nella gestione del settore fondiario (Bertrand 1996).

La decentralizzazione presupponeva poi l’esistenza di collettività territoriali (regioni, province, comuni). Se in qualche modo si sarebbe curato quindi l’aspetto della rappresentatività delle istituzioni politiche statali a livello locale, emergeva a quel punto il grande interrogativo legato alla responsabilità (accountability) degli organi politici appartenenti al Governo locale nei confronti dei propri cittadini.76 Il fenomeno della “local elite capture” secondo cui erano le élite rurali a “catturare” il potere decentralizzato, che veniva poi utilizzato a scopi personali, poteva di fatto minacciare la democraticità dei processi di decentralizzazione. In questo caso i responsabili politici locali, piuttosto che essere responsabili nei confronti della popolazione rappresentata, potevano dimostrarsi più attenti ai propri interessi e a quelli di una clientela ristretta, di solito economicamente più influente. Ad esempio in Senegal, in cui le politiche di decentralizzazione furono portate avanti già dal 1964 attraverso l’istituzione dei consigli rurali, i funzionari eletti localmente rispondevano spesso a logiche clientelistiche, al fine di soddisfare i propri interessi e quelli del partito a cui erano affiliati, piuttosto che alle esigenze delle “comunità” rurali (Boone 1995). Alcuni studi mettevano in evidenza come nel bacino arachidiero senegalese le istituzioni decentralizzate fossero state di fatto monopolizzate dalle élite rurali musulmane che ne avevano gestito il controllo fin dall’indipendenza e che delineavano le traiettorie attraverso cui i notabili locali continuavano ad assicurarsi il controllo delle risorse e ad esercitare la propria autorità, conferendo alla popolazione sotto il proprio controllo parte della rendita derivante

76 Ribot (1999) sottolineava come nonostante in Paesi come il Senegal, il Mali e il Niger i consigli rurali

fossero democraticamente eletti, essi rispecchiassero di fatto le logiche partitiche del livello nazionale. Non erano ammessi alle elezioni candidati indipendenti ed erano di fatto i deputati dell’Assemblea nazionale a scegliere i consiglieri sulla base delle persone che li avevano supportati durante le elezioni. La politica dei partiti inibiva quindi la partecipazione popolare. In sostanza i consigli rurali non erano indipendenti e autonomi nel prendere decisioni in qualsiasi settore, ivi compreso quello fondiario. Certamente le procedure elettorali non rappresentavano il solo strumento per rendere i Governi locali responsabili di fronte ai loro rappresentati. Moore (1997, 3) rigettava, ad esempio, la definizione procedurale di democrazia per includerla in un concetto più ampio di responsabilità dello Stato nei confronti della società. Moore vedeva nel sistema di tassazione un mezzo efficace per creare aspettative mutue e reciproche tra Stato e società. Secondo Ribot (1999, 55) la tassazione a sua volta era soltanto uno degli strumenti necessari per creare

dall’attività di mediatori tra Stato centrale e mondo rurale.77 Di riflesso la classe politica

ai vertici dello Stato continuava a confidare su tali figure per assicurarsi il sostegno elettorale. All’interno di questo contesto quindi la corruzione e l’uso a fini personali delle risorse erano considerate pratiche legittime, in quanto strumentali al mantenimento del potere politico e alla distribuzione di benefici materiali alle comunità di apparteneza. Laddove in passato gli Stati avevano cercato di accentrare il proprio controllo sulle risorse naturali, limitando quindi la devoluzione dei poteri alle istituzioni locali e mantenendo una gestione centralizzata dell’apparato amministrativo, con i processi di decentralizzazione politica - che si accompagnarono quasi sempre ai percorsi di democratizzazione dello Stato - i Governi dovevano costruire la base della propria legittimità a livello locale. Boone (2003) citava la Costa d’Avorio come esempio di tale modello. Con l’indipendenza ivoriana il presidente Houphouët Boigny si era rifiutato di creare istituzioni statali (es. cooperative, consigli rurali) che potessero fungere da intermediarie con il Governo centrale, proprio per il timore che queste potessero essere monopolizzate dalle élite rurali emergenti. Negli anni ’90, in mancanza di un quadro politico di riferimento attraverso cui mobilitare l’elettorato, le fazioni politiche cominciarono a far leva sull’etnicità per potere conquistare i voti delle aree rurali. Alla morte di Houphouët-Boigny nel 1993, Henri Konan Bedié condusse la propria campagna elettorale facendo appello al sostegno dei “veri ivoriani” e favorendo in questo modo processi di segmentazione delle società agrarie caratterizzate da una commistione tra gruppi di lavoratori migranti e autoctoni. In un periodo in cui le aree rurali ivoriane subivano il peso della crisi del debito estero e dell’abbassamento dei prezzi del cacao e del caffé, la fragilità del tessuto sociale interno emerse in tutte la sua gravità rivitalizzando rivendicazioni basate su forme di autoctonia e acuendo conflitti in cui la ridefinizione dei meccanismi di utilizzo e di accesso della terra diventava centrale. Come ha sottolineato Chauveau: «nella regione del Gban, così come in tutta l’area occidentale della foresta ivoriana, la crisi di legittimità politica si manifestò nella politicizzazione e nell’etnicizzazione della questione della terra. La diminuzione di terre coltivabili [...] condusse le élite urbane e i politici locali a giocare la carta dell’etnicità per assicurare la propria sopravvivenza politica a livello locale e la possibilità di continuare ad accedere alle risorse economiche conferite loro dallo Stato» (2006, 227). In nome dell’ideologia

dell’ivorité e del principio di autoctonia si faceva leva sulla vulnerabilità delle fasce di popolazione indebolite dalla crisi per aizzare il risentimento degli “autoctoni” nei confronti di migranti che, già a partire dagli anni ’30, avevano occupato le aree forestali ivoriane per produrre cacao e caffé nelle piantagioni.

Come conseguenza di tali dinamiche negli anni ’90 le politiche della terra nella regione dell’Africa occidentale posero l’accento sulla dimensione istituzionale, piuttosto che economica, dei rapporti tra lo Stato e il mondo rurale (Lavigne Delville 1999),78 allinendosi quindi con quelle che diventarono le nuove priorità dei donatori internazionali. L’idea generale era che la democratizzazione e la decentralizzazione politica avrebbe consentito di rendere il Governo più prossimo ai suoi cittadini, mentre la devoluzione del potere a livello locale avrebbe consentito una gestione delle risorse più efficiente, equa e sostenibile. L’enfasi posta dalle principali organizzazioni internazionali di sviluppo e cooperazione sul paradigma della good governance79 richiedeva infatti di responsabilizzare le comunità locali nell’ambito dello sviluppo rurale attraverso processi di democratizzazione delle istituzioni politiche locali e la promozione della partecipazione del mondo rurale nei processi decisionali. Se i processi di democratizzazione e di decentralizzazione venivano ritenuti necessari per migliorare le capacità dello Stato di promuovere un’effettiva partecipazione dei suoi abitanti nei processi di sviluppo, la promozione della democrazia diventava però in qualche modo condizione necessaria per la realizzazione delle strategie di sviluppo e veniva promossa dalle istituzioni internazionali di sviluppo quale condizione necessaria per il buon funzionamento delle politiche di sviluppo elaborate a livello internazionale, piuttosto che come risultato di un percorso che lo Stato-Nazione decideva di compiere autonomamente (Craig, Porter 2006, 176).

78 Come ha sottolineato Gentili: «la constatazione che la dimensione istituzionale è fondamentale per

sostenere i meccanismi e le politiche di sviluppo economico e i processi di democratizzazione fa diventare la governance il prerequisito per lo sviluppo sostenibile in Africa: crescita e sviluppo richiedono un quadro normativo, un’amministrazione efficiente e trasparente, un potere e un sistema giudiziario indipendenti» (2008, 430).

79 Il concetto di good governance viene citato per la prima volta dalla Banca Mondiale nel World

Development Report del 1997 –The State in a Changing World (Banca Mondiale 1997). In tale rapporto la Banca Mondiale continuava a sostenere che l’intervento dello Stato nell’economia e nello sviluppo dovesse essere limitato, ma poneva al contempo enfasi sulla necessità di dare voce alla società civile, potenziando partenariati tra istituzioni statali, settore privato e attori locali, strumentali a facilitare l’efficienza delle politiche di sviluppo adottate dai singoli Stati.

7. Nuovo millennio e trasformazioni nei meccanismi di governance della terra