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Gestione partecipativa delle risorse naturali e governance della terra

« La stessa logica inerente i programmi di registrazione e titolazione della terra venne applicata anche ai progetti volti alla promozione di uno sviluppo sostenibile. Laddove le persone si rifiutavano di essere dislocate dalle “aree protette”, le strategie di conservazione delle risorse naturali potevano funzionare soltanto se, ai portatori di interesse locali (stakeholders), fosse stata riconosciuta la proprietà di tali risorse» (Berry 2002, 653)

A partire dalla metà degli anni ‘80 le principali agenzie internazionali responsabili del finanziamento di programmi di sviluppo puntarono sulla promozione della partecipazione e dell’empowerment delle popolazioni rurali nei processi decisionali di gestione di terra e risorse naturali, nel tentativo di assicurare un maggiore controllo dei finanziamenti internazionali, che sarebbero stati gestiti semprè più nei territori per intermediazione di organizzazioni non governative (ONG).71 Con i nuovi programmi di sviluppo si doveva

intervenire in particolare in quei territori, definiti convenzionalmente zones de terroir, lasciati ai margini di contraddittori processi di sviluppo tracciati dagli Stati dell’Africa occidentale francofona dopo l’indipendenza.

Le strategie di sviluppo rurale adottate negli anni ’60-‘70 vennero ritenute troppo tecnicistiche da organizzazioni come la FAO (Food and Agriculture Organization) e, di conseguenza, accusate di non responsabilizzare i beneficiari dei progetti per una gestione efficiente degli investimenti (FAO, 2007).72 Gli Stati e i propri partner bilateriali e/o

71 In questa fase la presenza di organizzazioni non governative (ONG) venne reputata di particolare

importanza, anche per la loro capacità di lavorare in maniera autonoma e non per conto dei Governi. Le ONG si sostituirono progressivamente allo Stato anche nel fungere da attori di riferimento per i grandi finanziatori internazionali (FAO, 1997).

72 Come conseguenza dell’impatto dei programmi di aggiustamento strutturale, gli Stati dell’Africa

occidentale dovettero rivedere anche le proprie politiche nei confronti delle organizzazioni contadine, nel quadro di una strategia più generale di riduzione della povertà. Emerse in questi anni la volontà di professionalizzare le organizzazioni contadine al fine di far assumere loro le funzioni precedentemente

multulaterali cominciarono quindi a sperimentare interventi che miravano a coinvolgere le comunità di base nella scelta, la pianificazione e la realizzazione degli investimenti programmati in ambito rurale.

Alla fine degli anni ’80 vennero intraprese le prime sperimentazioni di gestione dei territori (Gestion des terroirs) che si proponevano di promuovere una migliore governance locale delle risorse naturali, giustificata dalla necessità di rispondere al deterioramento delle risorse naturali a seguito delle ondate di siccità degli anni ’70 e ad un sempre minore intervento dello Stato nelle aree rurali. L’approccio Gestion des terroirs, adottato dai Paesi dell’Africa occidentale francofona,73 presupponeva una visone olistica della gestione delle risorse dei villaggi e ricevette grande supporto da parte di donatori, di agenzie governative e di ONG che si occupavano di problematiche ambientali e di sviluppo rurale. Se inizialmente tale approccio era stato concepito unicamente per consentire una migliore gestione delle risorse naturali, con riferimento in particolare alle aree forestali, all’inizio degli anni ’90 furono legalmente attribuite alle comunità locali responsabilità gestionali in diversi settori ritenuti importanti per garantire lo sviluppo rurale, come ad esempio la manutenzione di infrastrutture, la sanità, la gestione di progetti di sviluppo in collaborazione con le ONG che intervenivano nei villaggi (Toulmin 1994). L’enfasi posta sulla partecipazione della popolazione rurale risultava però ambigua e l’aiuto dei finanziatori internazionali si concretizzava in interventi puntuali, la cui ideologia condivisa rimaneva quella dei PAS (Ellis, Biggs 2001). Se per le istituzioni internazionali la gestione partecipativa della terra e delle risorse naturali rientrava nelle logiche del “meno Stato, più mercato”, i servizi tecnici deconcentrati dello Stato non cedettero facilmente le proprie prerogative sul controllo delle risorse strategiche per l’accumulazione di beni personali a livello locale (Lavigne Delville, Chauveau 1998, 724). Ribot (1999), studiando i sistemi di gestione delle risorse forestali promossi nell’area saheliana, metteva in evidenza come permanesse un meccanismo di controllo

svolte dallo Stato. Ad esse veniva affidato il compito di promuovere le filiere di produzione e di adattare l’offerta produttiva ai bisogni del mercato, rendendole quindi protagoniste dell’attuazione di progetti di sviluppo a sostegno della produzione agricola (Blein, Coronel 2013, 30).

73 Paragonabile all’approccio community based land ressources management promosso in molti Paesi in

via di sviluppo in questo decennio, Per approfondimenti sul funzionamento dei progetti “community based” vedere i casi di studio analizzati dall’IIED nel 2004 nel report “Decentralisation and community based

planning”:https://books.google.it/books?id=GUBa86pA4LEC&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&

centralizzato da parte dello Stato su tali risorse, dal momento che le comunità dovevano rispondere delle loro azioni di fronte ad agenti forestali tecnicamente responsabili di una pianificazione territoriale che restava centralizzata.

Facendo riferimento al funzionalmento del Programme National de Gestion des Terroirs (PNGT) in Burkina Faso, Butterbury (1998) metteva poi in evidenza come l’approccio comunitario allo sviluppo rurale fosse di fatto gestito dall’”alto”, nonostante l’enfasi continuasse a essere posta sulla partecipazione del contesto locale.

L’assunto che l’empowerement delle comunità rurali potesse non solo essere vantaggioso per una migliore gestione delle risorse naturali, ma anche stimolare processi di partecipazione dal basso, responsabilizzando le comunità rurali e coinvolgendole nella progettazione allo sviluppo, risultava poco valido. Sulla base di studi empirici come quello di Engberg-Pedersen (1995) si criticava la limitata considerazione nei PNGT delle dinamiche politico-sociali locali su cui si fondavano i regimi “consuetudinari”. Scriveva Engberg-Pedersen: «l’effettiva partecipazione diventa illusoria se non si prendono in considerazione le esigenze e gli interessi dei diversi gruppi interni alle comunità di villaggio» (1995, 24).

Vari autori (Gray 2002, Hodgson et Schroeder 2002, Giles Vernick 1999, Metcalfe 1994) analizzarono come le tecniche di delimitazione delle risorse alimentassero processi di esclusione ai danni soprattuttto di individui e di popolazioni più marginali all’interno delle “comunità”, di cui si decantava l’armoniosità e la condivisione di interessi. Inoltre, come sottolineava Tornimbeni: «rimaneva da definire cos’erano e quali erano i contorni di queste comunità » (2010, 112).

I membri delle commissioni create per promuovere una migliore gestione delle risorse naturali non erano eletti democraticamente e non agivano seguendo meccanismi decisionali effettivamente inclusivi. La democratizzazione delle istituzioni locali, sosteneva Engberg-Pedersen (1995), necessitava di un tempo più lungo rispetto a quello previsto dall’approccio “progetto” di tali programmi. La gestione dell’ambito fondiario sulla base di un meccanismo democratico di selezione dei membri delle commissioni fondiarie non era poi facilmente perseguibile in contesti che avevano vissuto l’alternanza di regimi militari e civili e in cui il concetto di democrazia era stato fuorviato dai turbolenti eventi politici verificatisi nella regione a partire dagli anni ‘70.

L’enfasi posta in questo periodo dai programmi di sviluppo sulla necessità di “responsabilizzare” in particolare le autorità consuetudinarie per garantire una gestione locale partecipativa delle risorse naturali si scontrava poi con la necessità di rafforzare i meccanismi decisionali democratici. Il vero dibattito, seppur spesso non esplicitato, rimaneva legato alla necessità di trasferire il potere alla popolazione rurale tramite rappresentanti democraticamente eletti e di passare quindi da meccanismi di deconcentramento delle decisioni ad una gestione decentrata del territorio. Bisognava poi garantire l’accountability di tali rappresentanti nei confronti della popolazione rurale, evitando discriminazioni legate al genere, alla classe d’età, alla religione e all’autoctonia.