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Nuovo millennio e trasformazioni nei meccanismi di governance della terra

appariva in piena mutazione. Come sottolineato in precedenza, una serie di interventi finanziati dai Governi, da agenzie di sviluppo bilaterali e multilaterali e da istituzioni finanziarie internazionali modificarono i regimi fondiari esistenti. Il settore agricolo rimaneva centrale per lo sviluppo economico poiché da esso dipendevano le livelihood della maggior parte della popolazione, le esportazioni e il mercato del lavoro. La terra e le risorse naturali erano state gestite in maniera diversa dagli Stati dell’Africa occidentale francofona, ma una caratteristica comune che emergeva dall’analisi complessiva di tali sistemi era la presenza di terre adibite alla promozione della produzione agricola da parte dello Stato e, al contempo, di terre gestite secondo le regole “consuetudinarie” di accesso, utilizzo e possesso. Nelle terre a gestione “consuetudinaria” predominava ancora la coltivazione di prodotti agricoli per l’auto-consumo o destinati alla vendita nei mercati locali, ad eccezione delle zone in cui si era sviluppata l’economia di piantagione. Il persistere di tale dicotomia appariva alle soglie del nuovo millennio come una strategia studiata per relegare la popolazione contadina “poco produttiva” in contesti in cui l’accesso e l’utilizzo della terra era “consuetudinariamente” riconosciuto, con l’idea che ai piccoli produttori dovesse essere garantito un sistema di protezione sociale contro la povertà che si basasse sul sostegno della comunità, in mancanza di alternative socio- economiche percorribili in ambito rurale e/o urbano.

Chi lavorava sulle terre facenti parte del regime fondiario statale continuava ad aver diritto a input agricoli, seppur sempre più esigui, sulla base di sistemi di pre- finanziamento a prezzo agevolato, forniti dallo Stato centrale attraverso agenzie parastatali e poteva usufruire, almeno in linea teorica, di diritti di usufrutto della terra legalmente riconosciuti.80 I piccoli produttori continuavano però a dipendere da un sistema di “valorizzazione” dei terreni agricoli che, in definitiva, li vincolava a forme più

80 Come ha sottolineato Boone (2009) seppure teoricamente sulle terre a “regime fondiario statale” i diritti

fondiari fossero attribuiti direttamente dallo Stato, in molti casi i Governi evitarono accuratamente di registrare tali diritti per potere controllare i coltivatori. Minacciandoli della riappropriazione della terra o mantendendo viva la possibilità di ri-collocare la popolazione in altri territori, i Governi utilizzavano la terra come strumento per assicurarsi legittimazione politica. Si creava di fatto un legame di dipendenza tra Stato e coltivatori, facilmente sfruttabile in campagna elettorale. Alcuni esempi di tali strategie ci sono forniti dall’Office du Niger in Mali, dai perimetri irrigui del delta del fiume Senegal o della valle del Kou in Burkina Faso.

o meno esplicite di sfruttamento. Il resto della popolazione, invece, viveva in aree rurali in cui l’investimento statale si era ridotto all’osso e il livello di sviluppo economico e umano rimaneva molto basso. Su queste terre lo Stato non garantiva ne’ la costruzione di infrastrutture necessarie alla commercializzazione dei prodotti, né quella serie di servizi pubblici quali ospedali, scuole, fonti di approvvigionamento dell’acqua, necessari al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. I diritti degli abitanti delle aree che continuavano ad essere regolate da sistemi a regime consuetudinario restavano poi spesso vincolati ad una sorta di appartenenza o cittadinanza locale, poiché l’accesso alla terra, principale fonte di sostentamento, non dipendeva dallo Stato ma dalle autorità consuetudinarie che gestivano localmente il territorio.

Come ha sottolineato Chauveau: «i diritti sulla terra non po[tevano] facilmente essere districati dai diritti di accesso all’identità e alla cittadinanza locale» (2006, 24). Gli “autoctoni” avevano priorità di accesso alla terra rispetto ai “migranti”, soprattutto in contesti in cui la terra cominciava a scarseggiare o incrementava di valore, ma la stessa definizione di autoctonia locale era ambigua e rinegoziabile, sebbene sulla base di essa le autorità consuetudinarie assicuravano di fatto una rete di protezione sociale che lo Stato non era più in grado di garantire (Kuba, Lentz 2006).

Inoltre, l’accesso ai limitati finanziamenti statali, ma anche all’arena politica locale, passava necessariamente per l’intermediazione di capi o autorità locali, il cui potere continuava ad accrescere nelle aree meno produttive e più isolate. In definitiva, in un contesto storico ed economico in cui la competizione si era fatta sempre più accesa su risorse sempre più scarse, i diritti di accesso alle risorse naturali ed economiche venivano promossi e definiti in base all’appartenenza a un gruppo, a una comunità, e le dinamiche di inclusione o esclusione venivano alimentate dagli stessi interventi volti a potenziare e responsabilizzare le comunità locali.

In quello che è stato definito da Berry (1993) un modello di “sfruttamento senza espropriazione” le differenziazioni di classe in ambito rurale continuavano ad essere meno nette rispetto a quanto avvenuto in Europa, Asia e America Latina nella fase di transizione al modello capitalistico (Cooper 2002), dal momento che l’accumulazione delle risorse e le forme di privatizzazione venivano controbilanciate dalla necessità di agire in conformità alle regole che strutturavano le società rurali che potevano di fatto

“sabotare” le forme di investimento che andavano a ledere quei vincoli socio-politici che erano stati costruiti e alimentati nel corso del tempo.

La negoziazione dei diritti continuava infatti a rispondere alle regole di regimi fondiari consuetudinari.81 Fino agli anni ’90 la registrazione di titoli fondiari che riconoscessero legalmente la proprietà privata della terra e che rendessero quindi inalienabili le terre registrate restò un “affare per pochi” nelle aree rurali e si sviluppo’, invece, nelle aree urbane e peri-urbane.

La gestione del sistema fondiario nelle aree ritenute sia dai Governi che dai donatori internazionali meno “interessanti” per i grandi programmi di sviluppo agricolo non rimase però invariata e anche laddove prevalevano regimi fondiari “consuetudinari” si verificavano cambiamenti nelle modalità di attribuzione degli appezzamenti e nel riconoscimento di diritti fondiari all’interno delle “comunità” (Cotula et al. 2007). Fin dall’epoca coloniale, principalmente nelle zone costiere dell’Africa occidentale nelle quali venne promossa la produzione agricola di piantagione, la terra aveva progressivamente acquisito infatti un valore monetario.82 Con lo svilupparsi di tali colture in Costa d’Avorio il regime fondiario si era modificato in risposta alle migrazioni e le transazioni fondiarie monetizzate si erano moltiplicate tra migranti e autoctoni, ma anche

81 Ad esempio, nelle piantagioni di cacao della regione sud-orientale della Costa d’Avorio a partire dagli

anni ’50 la coltivazione del cacao cominciò ad essere strutturata in maniera tale che non fossero soltanto i nuclei familiari, composti da una dozzina di subalterni, a produrre nelle piantagioni di piccole dimensioni (2-10 ettari). Poche centinaia di piantatori diedero avvio ad un processo di accumulazione fondiaria, appropriandosi di circa un terzo della terra allora destinata alla coltivazione del cacao, impiegando lavoratori agricoli salariati (manodopera immigrata da Burkina Faso, Guinea Conakry, Senegal e Mali) che continuavano però ad insediarsi nei territori forestali nel rispetto di regole dettate dai regimi fondiari “consuetudinari”. I migranti proventienti da altre regioni e da altri Paesi ricevevano appezzamenti sulla base della quantità di terra che sarebbero stati in grado di coltivare. Ogni richiesta di terra veniva trasmessa dai rappresentanti delle comunità locali ai capi consuetudinari che dovevano prenderla in esame ed esprimere il loro consenso in merito alla transazione fondiaria (Coquery-Vidrovitch 1985, 152).

82 La tendenza alla commodification della terra nelle aree rurali a regime fondiario “consuetudinario” era

interpretata in maniera diversa dagli studiosi. Bassett e Crummey (1993) la giustificavano come l’effetto diretto della competizione sulla terra e sulle risorse, nel momento in cui queste cominciavano a scarseggiare. Platteau (1996) interpretava il fenomeno come conseguenza della pressione demografica, dovuta ad una crescita esponenziale della popolazione regionale, dello svilupparsi delle colture di rendita e del modificarsi di sistemi di coltivazione che provocavano l’incremento di valore della terra e causavano una progressiva individualizzazione del possesso della terra. In realtà studi approfonditi sulle dinamiche fondiarie, come quello effettuato da Hill (1963) e da Berry (1993) enfatizzavano l’importanza del più ampio sviluppo dei mercati della produzione e del lavoro salariato nell’influire sullo sviluppo dei mercati fondiari, di cui sottolineavano le disuguaglianze nella distribuzione della terra. La domanda di terra e la competizione per l’ottenimento degli appezzamenti era storicamente influenzata, secondo le due autrici, dall’intenso movimento di popolazioni dalle campagne alle città e viceversa.

tra autoctoni e tra migranti di prima e seconda generazione (Colin 2004; Koné et al. 2005). Nella zona occidentale del Burkina Faso, nota per la produzione del cotone, il mercato della terra si era sviluppato in particolare a partire dagli anni ’60, in seguito ad un consistente flusso migratorio proveniente dalla aride regioni centrali e settentrionali verso la zona occidentale del Paese (Boone 2014; Chauveau 2007). La rapida espansione urbana aveva incrementato la richiesta di terre per la costruzione di abitazioni, ma anche per lo sviluppo di forme di agricoltura peri-urbana, dando peraltro avvio a fenomeni sempre più diffusi di speculazione fondiaria, visto il rapido incremento del valore monetario dei lotti di terra. Gli attori coinvolti nelle transazioni di terra rispondevano alla crescente pressione demografica cercando nuovi modi di assicurarsi il possesso, tendendo sempre più a richiedere una registrazione scritta dei propri diritti.

L’approccio evoluzionista interpretava l’emergere di dinamiche di riconoscimento individuale della terra e il trasferimento del possesso come un processo lineare verso la privatizzazione dei sistemi di proprietà.83 In realtà tali pratiche facevano parte di un processo sociale ambiguo, complesso e contraddittorio, definito di “imperfect commoditisation” (Mathieu 1996, 22). Infatti, come ha sottolineato Lavigne Delville: «di fronte al rischio di insicurezza legale i piccoli contadini cerca[va]no di accumulare documenti, spesso senza ben sapere cosa essi [fossero], sperando che il diritto sulla terra [fosse] loro riconosciuto nel momento in cui ne [avrebbero richiesto] la legalizzazione» (2003, 95).

Se tali pratiche non si conformavano alle procedure legali, esse erano nella maggior parte dei casi tollerate o riconosciute dall’amministrazione dello Stato a livello locale

83 La teoria evoluzionista dei diritti fondiari (Platteau, 1996) rappresentava il modello teorico di riferimento

per le riforme attuate nei Paesi dell’Africa occidentale francofona negli anni ’90 (Lund, 2000) e studiava appunto l’evoluzione dei sistemi fondiari e le relative implicazioni sullo sviluppo agricolo. Supportata dai contributi di Boserup (1970) sull’evoluzione dei sistemi agrari nelle società pre-industriali, ma ugualmente dalla scuola che si era occupata dello studio dei diritti di proprietà (Demsetz, 1967), la teoria evoluzionista rilevava l’esistenza di un legame di causa ed effetto tra proprietà privata e investimento agricolo. Essa sosteneva che per influenza della pressione demografica e con l’intensificarsi dei meccanismi di mercato finalizzati alla commercializzazione dei prodotti agricoli, si sarebbe assistito ad una progressiva trasformazione dei regimi fondiari consuetudinari in ambito rurale, con un incremento delle transazioni monetizzate di terra. Tali cambiamenti avrebbero messo in discussione le precedenti regole sociali alla base dei regimi fondiari consuetudinari. Una crescente insicurezza sul possesso della terra avrebbe condotto poi la popolazione a rivendicare l’appartenenza di territori minacciati dalla presenza di attori esterni e dall’aumento della popolazione, creando dispute e conflitti fondiari. La richiesta di una maggiore sicurezza di diritti di proprietà a quel punto sarebbe stata avanzata dai soggetti coinvolti nelle dispute. Le parti in disputa avrebbero fatto ricorso allo Stato per la risoluzione dei conflitti e la chiarificazione dei diritti fondiari. La sicurezza fondiaria sarebbe quindi stata garantita dallo Stato attraverso la registrazione di titoli di possesso riconosciuti ai singoli cittadini.

(Hesseling, Mathieu 1986; Mathieu 1996) attraverso una procedura di vera e propria “formalizzazione dell’informale” (Zougouri, Mathieu 2001).

Una serie di ricerche hanno messo in luce come alle soglie del nuovo millennio in Africa occidentale (Benin, Burkina Faso, Costa D’Avorio, Ghana, Niger ) fossero sempre più evidenti le dinamiche di trasformazione dei regimi fondiari consuetudinari (Cotula et al. 2007). Negli studi condotti in Burkina Faso nelle province di Banwa (Parè, Tallet 1999) e di Houet (Zongo 2005), gli autori notavano una diminuzione delle concessioni di terra tramite prestiti o doni che autorizzavano un tempo i “migranti” a stabilirsi su un territorio e a coltivarlo per un periodo più o meno lungo (Zougouri, Mathieu 2001, 29). Se la terra un tempo veniva donata al migrante, che la richiedeva per coltivare e vi accedeva sulla base del diritto di sfamare la propria famiglia o secondo le logiche stabilite dalle pratiche di tutorat,84 ampiamente diffuse nelle società rurali dell’Africa occidentale, emergeva dagli studi che soprattutto le giovani generazioni cominciavano ad opporsi alle regole stabilite dai padri.85 In mancanza di terra per le generazioni future si verificavano dinamiche di riappropriazione della terra nei confronti di migranti precedentemente installatisi e/o si assistiva a cambiamenti nei termini degli accordi stipulati dalle precedenti generazioni. Si registrava un progressivo recupero, da parte dei precedenti “proprietari”, della terra concessa alla popolazione migrante anche 20-30 anni prima. Le nuove generazioni tendevano a rivendicare diritti di possesso sulla terra concessa dai loro padri. Alcuni migranti sceglievano quindi di ricorrere agli apparati amministrativi decentralizzati dello Stato o ai più bassi livelli del sistema giudiziario (tribunali locali) nel tentativo di trovare protezione e richiedendo il riconoscimento dei propri diritti sulla terra. A causa dell’«incompiutezza dei sistemi giudiziari» (Ouattara 2010) molti migranti restavano però soggetti a tentativi di “conciliazione” delle dispute in seno ai villaggi, gestiti prevalentemente dalle autorità consuetudinarie. Emanare sentenze per la risoluzione di conflitti locali era infatti un compito arduo per i tribunali, data la mancanza

84 La particolarità dei sistemi di tutorat era che, seppur trattandosi di forme di transazioni fondiarie, essi

rimanevano vincolati alle relazioni socio-politiche locali e prevedevano il continuo adempimento di doveri da parte dello “straniero” e la sua fedeltà nei confronti del tuteur (Chauveau 2006, 66). Il sistema consuetudinario di tutorat era diffuso in molte zone dell’Africa occidentale.

85 I rurbains della Costa d’Avorio, ad esempio, erano giovani che si facevano promotori di una nuova difesa

delle tradizioni contro gli immigrati e contro i propri anziani che avevano favorito l’insediamento di quest’ultimi (Tornimbeni 2010, 87).

di qualsiasi testimonianza scritta e riconosciuta dalla legge che attestasse i diritti posseduti dagli individui sulle terre oggetto di contesa.

Un conflitto poteva essere gestito e risolto in differenti modi sulla base delle istituzioni a cui le parti in causa decidevano di rivolgersi, fossero esse istituzioni statali o consuetudinarie. Ciò rendeva le dispute fondiarie potenzialmente mai concluse poiché gli accordi presi per la soluzione di un conflitto potevano continuamente essere rimessi in discussione e contestati attraverso il supporto di un’altra istituzione (Lund, 1997). I conflitti fondiari diventavano così giochi di potere, all’interno dei quali, a causa del pluralismo istituzionale e giuridico esistente, non si riusciva a risolvere in maniera netta le dispute, sempre più ricorrenti.

Con i migranti, un’altra tipologia di attori, esterni alle comunità rurali, mostrava un interesse crescente nell’acquisizione della terra. Si trattava di attori provenienti dalle aree urbane, la cui disponibilità di capitale era il risultato di attività extra-agricole, pronti a reinvestire risorse economiche nel settore agricolo o agro-pastorale (Zongo 2010; Kasanga 1997). Questi attori si preoccupavano di ottenere un riconoscimento “consuetudinario” del trasferimento, nell’ottica di una successiva registrazione legale di un titolo di proprietà.

In contesti in cui le transazioni fondiarie diventavano più frequenti, si creavano poi conflitti inter-generazionali all’interno delle famiglie (Quan 2007). Erano in particolare i giovani in cerca di un guadagno che avevano più tendenza a vendere la terra familiare, per trarre da essa un profitto immediato, che in caso contrario non sarebbe stato loro necessariamente riconosciuto (Cotula et al. 2007). La volontà dei giovani di partecipare alle decisioni della famiglia, di emanciparsi da un sistema patriarcale che vincolava le loro decisioni alla posizione dei capi famiglia e degli anziani, li portava sempre più ad infrangere le regole locali di gestione della terra, facendo uso talvolta della retorica dell’autoctonia al fine di espellere gli “stranieri” dai terreni ceduti dai loro genitori o nonni anche cinquant’anni prima (Woodhouse 2007, 14) .

Il moltiplicarsi di conflitti fondiari non era però solo il risultato di cambiamenti endogeni (pressione demografica, sviluppo delle colture di rendita, migrazioni), ma derivava anche dalle modalità in cui l’intervento statale nella gestione della terra e delle risorse si era articolato nei decenni precedenti. La logica “demaniale” di accentramento delle risorse strategiche del territorio da parte dello Stato aveva conferito il controllo delle principali

risorse naturali alle élite al potere. Non essendo il controllo dello Stato uniforme su tutto il territorio, le autorità consuetudinarie continuavano ad esercitare il proprio potere nel definire le regole di accesso, possesso e utilizzo della terra laddove la presenza dello Stato era debole.

I conflitti fondiari si acuivano laddove il moltiplicarsi di istituzioni incaricate di regolare il settore fondiario si combinava con il pluralismo di sistemi di riconoscimento di diritti sulla terra. In seno ad uno stesso villaggio potevano coesistere regimi fondiari differenti. Laddove una parte del territorio era stata sottratta alla popolazione locale per la costruzione di complessi idroagricoli o laddove gli appezzamenti venivano ridistribuiti dallo Stato sulla base del principio di “valorizzazione” delle terre, i regimi consuetudinari venivano sì indeboliti ma non cessavano di esercitare la propria influenza e le autorità consuetudinarie potevano servirsi di programmi di sviluppo incentrati sul ruolo delle comunità per far riemergere le proprie rivendicazioni.

Quando invece le questioni fondiarie venivano strumentalizzate dal livello nazionale per creare potenziali arene politiche a livello locale, come nel caso della Costa d’Avorio, i conflitti fondiari diventavano espressione di rivendicazioni di autoctonia e di identità e implicavano la ridefinizione del concetto di cittadinanza locale e nazionale (Boone 2014,76).

In linea generale, le rivendicazioni degli attori rurali sulla terra e i conflitti che ne derivavano erano frutto di interessi multipli. Tali attori si appropriavano sia delle legge che delle regole locali per trovare riconoscimento dei propri diritti fondiari. La legge non rimaneva categoricamente al di fuori delle aree rurali, ma di essa facevano uso quelle istanze (capi consuetudinari, imam, prefetti, tecnici di progetto, amministratori statali) che vedevano in essa la possibilità di creare una propria autorità sui territori (Lund 1998). Di conseguenza, i conflitti fondiari che la teoria evoluzionista interpretava come passaggi obbligati verso un riconoscimento sempre più individualizzato della proprietà fondiaria, dovevano essere letti invece come rivendicazioni di potere e di autorità a livello locale e, in alcuni casi, a livello nazionale.

8. Sécurisation foncière: la riformulazione delle politiche della terra e la nuova