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Riforme strutturali e “migrazioni da ritorno”

4. Sviluppo rurale e governance della terra in periodo post-coloniale

4.2. Riforme strutturali e “migrazioni da ritorno”

A cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 gli squilibri nei modelli di crescita perseguiti dai Governi africani dopo l’indipendenza apparvero in tutta la loro gravità. La responsabilità degli insuccessi statali nel promuovere lo sviluppo venne attribuita dalla comunità internazionale all’inefficienza dei Governi indipendenti. Nel settore agricolo le società di proprietà statale erano state accusate di essere strutture pesanti in cui i dipendenti assorbivano una parte considerevole dei fondi disponibili e il cui apparato burocratico si appropriava illecitamente di ingenti somme di denaro. Coquery-Vidrovitch (1985) sottolineava come i grandi progetti agricoli statali, finanziati con il contributo di donatori internazionali, peccassero di gravi errori tecnici, di errate valutazioni sull’ecologia e

l’idrologia dei territori e di una scarsa conoscenza dei fattori sociali e umani che ne condizionavano il funzionamento. I costi spropositati di costruzione e di gestione dei complessi idroagricoli superavano poi di gran lunga i profitti che ne potevano derivare.65 Laddove le spese statali eccedevano le risorse economiche disponibili, i Governi dovettero fronteggiare livelli crescenti di debito pubblico. Con l’aumento dei tassi di interesse sui mercati internazionali e il peggioramento dei termini di scambio di gran parte delle materie prime, cominciò a pesare la mancanza di personale con esperienza di gestione di impresa. Come evidenziato in precedenza, molti regimi dovettero fronteggiare negli anni ’70 gli effetti non solo di un mercato mondiale volatile, ma anche delle prolungate siccità, a cui si aggiunsero le crisi petrolifere del 1973 e 1979. Il prezzo dei prodotti di esportazione come il cacao e il caffé oscillò in maniera considerevole anche in risposta all’innalzamento del prezzo del petrolio grezzo da parte dell’OPEC, che quadruplicò nel periodo delle crisi petrolifere (Berry 2002, 650).

Gli Stati dell’Africa occidentale venivano quindi accusati dalle principali istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale) di avere creato distorsioni economiche che li avevano condannati ad un progressivo indebitamento, impoverendo gran parte della popolazione. Se all’inizio degli anni ’80 molti Governi in Africa sub-sahariana accettarono, firmando i programmi di aggiustamento strutturale (PAS),66 condizioni di finanziamento “necessarie” per

rispondere alla crisi del debito, nei Paesi ex-colonie francesi i Governi optarono per una via alternativa all’aggiustamento strutturale, che prese il nome di “ajustement réel” (Hibou 1995, 27). La diagnosi della crisi e delle problematiche dei Paesi fu effettuata

65 Secondo Hart (1981, 89) nonostante la scarsa efficienza dei complessi idroagricoli, tali programmi

continuarono ad essere finanziati poiché consentivano al personale, incaricato della gestione della produzione, e a quella limitata cerchia che riusciva ad avere accesso alla terra sugli impianti di irrigazione statale, di arricchirsi. Inoltre, le grandi opere rappresentavano per la classe politica uno strumento di legittimazione a livello interno e internazionale poiché simboleggiavano la presenza attiva dello Stato nelle zone rurali. La costruzione di grandi opere trasmetteva l’idea che anche i nuovi Stati indipendenti stessero percorrendo la via del progresso ed era funzionale al raggiungimento di accordi con imprese straniere e finanziatori internazionali dello sviluppo. Come Hart molti altri sono stati gli autori (Bates 1981, Van de Walle 2001, Holmen 2005) che hanno sottolineato come il sostegno alla produzione agricola da parte dello Stato abbia alimentato l’esistenza di reti clientelari in Africa Sub-sahariana.

66 I PAS, i cui termini erano stati definiti a tavolino dai Governi con il Fondo Monetario Internazionale

(FMI) e con la Banca Mondiale, si fondavano su pochi e chiari precetti: la stabilizzazione per mezzo di un riequilibrio dei bilanci pubblici, contenimento del deficit di bilancio per mezzo di politiche deflazionistiche, tagli alla funzione e ai salari pubblici, privatizzazioni anche dei servizi di base come la salute e l’istruzione. Tali misure, sosteneva la Banca Mondiale, avrebbero favorito le esportazioni e avuto un effetto benefico sul reddito della popolazione.

dalla classe politica francese ed era simile a quella compiuta dalle istituzioni finanziarie internazionali. Fu decretata la necessità di aumentare il rigore nelle finanze pubbliche e rendere l’amministrazione statale più efficiente. Tuttavia la Francia volle mantenere un approccio che tenesse conto dei meccanismi della zona del franco,67 sostenendo al contempo di voler prendere in considerazione le peculiarità del continente africano nei suoi programmi di finanziamento allo sviluppo.

Seppure furono effettivamente intraprese azioni per limitare l’intervento dello Stato sull’economia dei Paesi, continuarono da parte francese interventi di “salvataggio” poco giustificabili dal punto di vista economico, ma politicamente e militarmente strategici per l’ex madrepatria (ibidem, 28). L’approccio francese ebbe conseguenze paradossali nel lungo periodo, acuendo di fatto la crisi di indebitamento degli Stati, i cui “errori” vennero tollerati in nome di una strategia politica di corto respiro.

Senza la svalutazione della moneta locale, senza il rigore delle conditionalities economiche e quindi senza il sostegno delle organizzazioni finanziarie internazionali, l’ajustement réel promosso dalla Francia, più che un aggiustamento nel senso classico del termine, si presentò come il tentativo di conciliare le misure previste dai programmi di aggiustamento strutturale con il perseguimento di pratiche caratterizzanti la zona del franco. Un tentativo che però risultò fallimentare e che quindi non si impose come un’alternativa possibile e credibile all’aggiustamento ortodosso promosso dalla BM e dal FMI. Infatti, di fronte all’aumento progressivo del deficit pubblico dei Paesi membri della zona del franco, furono le istituzioni finanziarie internazionali ad intervenire per evitare che la situazione peggiorasse e per tentare di risolvere definitivamente la crisi in corso negli Stati della regione, e non la Francia, la quale manifestò invece la sua volontà di ridurre il proprio aiuto nei confronti dei Governi precedentemente assistiti. Gli organismi di Bretton Woods condizionarono quindi il loro intervento ed il loro aiuto finanziario in

67 La zona del franco fu creata in seguito alla seconda guerra mondiale nel tentativo francese di trasformare

le strutture dell’impero coloniale per assicurare la continuità di relazioni politiche ed economiche tra madrepatria e colonie. Elemento cardine di questa istituzione era la parità fissa tra franco francese e franco CFA. Tale parità venne assicurata da alcuni accordi siglati tra Parigi ed i Governi africani, i quali conferirono agli Stati africani un diritto di prelievo automatico dai conti della Banque centrale des Etats d‟Afrique de l’Ouest (BCEAO). In cambio della possibilità di prelevare franchi francesi da questi conti, anche a costo di creare scoperti che il Governo francese si impegnava a coprire, i Paesi africani mantennero però le loro riserve di valuta straniera in Francia in un “compte d’operation”, appositamente creato, che funse da garanzia per il Tesoro francese (Pallotti, Zamponi 2010, 60).

favore dei Paesi appartenenti all’ex AOF all’accoglimento integrale delle condizionalità economiche previste dai PAS.

Le riforme strutturali attuate dagli Stati della regione limitarono di fatto progressivamente l’intervento dell’apparato statale nel mondo rurale. Con le crisi degli anni ’70 la povertà, da fenomeno prevalentemente rurale si estese poi anche alle fasce urbane, dando luogo a flussi migratori inversi, chiamati “migrazioni da ritorno” (Tornimbeni 2010, 72). In un clima di crescente disillusione e insicurezza, dovuto al declino economico degli Stati e alla crescente instabilità politica, molte persone cominciarono a preoccuparsi della propria sopravvivenza cercando lavori e risorse che potessero garantire loro un minimo di stabilità in un contesto regionale e internazionale turbolento (Berry 2002, 651). La terra cominciò ad essere considerata anche da funzionari statali e commercianti che avevano sviluppato i propri affari nelle aree urbane, una fonte di reddito e una base per ricostruirsi una rete di protezione sociale in un periodo di crisi. Sebbene alla fine degli anni ‘70 fossero pochi coloro che disponevano di risorse economiche necessarie a rendere la terra più produttiva, chi in precedenza aveva abbandonato le attività agricole ed era alla ricerca di una fonte alternativa di reddito e di sicurezza sociale ed economica mostrò particolare interesse nell’acquisizione della terra. In risposta a fenomeni di “accaparramento” di terra da parte di coloro che approfittarono in questo periodo della propria influenza economica e/o politica per sfidare i sistemi consuetudinari di possesso e gestione della terra e per negoziare l’accesso ai terreni migliori, la popolazione rurale cercava invece di assicurarsi la terra acquistandola, laddove possibile, oppure facendo riferimento alla propria comunità e gruppo di appartenenza, rivolgendosi ai capi consuetudinari, e non allo Stato, per ricercare protezione sociale e garanzia di riconoscimento di diritti di base.