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IL DIRITTO COME STRUMENTO DI DOMINIO

“UN ANARChICO PUò BEN ESSERE UN BUON CONOSCITORE DEL DIRITTO”*

2. IL DIRITTO COME STRUMENTO DI DOMINIO

Come osservato, per la prospettiva giuridica e politica moderna, il fe-nomeno giuridico non può che essere concepito quale esclusivo momen-to di controllo sociale; pertanmomen-to è inconcepibile, al suo interno, una viso-ne del diritto che non sia la sua rappresentazioviso-ne in chiave di dominio. Rigettando tale rappresentazione pare che l’anarchismo si opponga al diritto tout court, ovvero proponga una convivenza sociale priva di re-golamentazione giuridica; ma tale presupposizione si fonda su un equi-voco, in vero generato non solo dall’utopismo anarchico, ma, da prima, dalla stessa rappresentazione moderna del diritto, di cui la corrente del positivismo giuridico è la massima e più coerente teorizzazione.

A ben vedere, la cosiddetta critica anarchica al diritto è, sia pur – il più delle volte – implicitamente, una specifica critica alla rappresentazione giuridica proposta dalla prospettiva moderna, di cui si è detto sopra, e specificamente del positivismo giuridico8. Pertanto, questa si configura, al di là dei toni, non quale rifiuto aprioristico di ogni regolamentazione giuridica, da cui la abolizione del diritto necessaria per giungere alla società liberata, che sarebbe tale perché non oppressa (anche, ma non solo) dalla presenza di una regolamentazione giuridica, piuttosto come radicale critica di uno specifico modo di rappresentare ed utilizzare il fenomeno giuridico: il diritto quale strumento sociale di dominio di una parte sul tutto9.

prima di una regola imperata sulla comunità, la stessa viva in uno stato di assoluto caos. Malatesta e con lui il pensiero anarchico critica in modo radicale tale rappresentazione dei rapporti politici e giuridici.

8 Cfr. T. holterman, Una scienza libertaria del diritto, in “Volontà”, XLIV (1990), n. 12, pp. 41-56.

9 È stato osservato come “con speciale riferimento allo Stato, come collettività di uomini conviventi sottoposti ad un governo esercitante un supremo potere d’imperio (che cioè s’impone per mezzo di coercizione), nel linguaggio politico e giuridico s’intende per anarchia l’assenza di un tale governo in una collettività di uomini conviventi. L’esercizio effettivo di un supremo potere d’imperio è condizione perché un governo si costituisca e si mantenga; e senza governo in una convivenza umana non v’è (nonostante ogni contraria opinione che ammette la possibile esistenza di uno Stato privo, sia pur temporaneamente, di un governo) neppure Stato. L’anarchia è dunque, in breve, l’assenza di un potere statuale in una convivenza umana” così V. Gueli, sub voce

anarchia, cit., p. 384. Per l’autore, “nella critica all’attuale ordine della società appare

certamente, quale carattere proprio dell’anarchismo in ogni sua forma l’opposizione allo Stato e al diritto, come fenomeni caratteristici dell’ordine medesimo. E questo vien

In proposito va richiamata la nota definizione di diritto proposta da Kelsen, per comprendere come la stessa rappresenta nella sua interezza proprio quel fenomeno giuridico su cui l’anarchismo concentra i suoi strali. Per il cantore del positivismo giuridico, il “diritto è la tecnica socia-le che consiste nell’ottenere la desiderata condotta sociasocia-le degli uomini mediante la minaccia di una misura di coercizione da applicarsi in caso di condotta contraria”10. Continua il giurista praghese: “non so se sia possibile all’umanità di emanciparsi totalmente da questa tecnica sociale. Ma se l’ordinamento sociale non dovesse più avere nel futuro il carattere di ordinamento coercitivo, se la società dovesse esistere senza «diritto», allora la differenza fra queste società del futuro e quella presente sarebbe incommensurabilmente più grande della differenza fra gli Stati Uniti e l’antica Babilonia, o fra la Svizzera e la tribù degli Ashanti”11.

In questa rappresentazione, il diritto è ordinamento eteronomo e coer-citivo, infatti, “il diritto è un’organizzazione della forza”12, ed è intima-mente legato, tanto da confondersi, con lo stato, il quale si costituisce,

descritto come l’assetto sociale (società politica o Stato) per il quale certi uomini (governo) stabiliscono e sono in grado di imporre coattivamente (cioè mediante il diritto, nel senso legislativo della parola) i comportamenti di tutti i consociati, monopolizzando la forza occorrente a tal fine e giustificando questo loro potere d’impero con la prestazione di servigi alla collettività (difesa esterna, ordine pubblico all’interno, amministrazione della giustizia, servizi amministrativi)”, ibidem, pp. 385-386.

10 h. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, trad. it. Milano, 1963 (ma Cambridge-Mass., 1945), 1, I, B, d (a p. 19 della trad. it. cit.).

11 ibidem. Per inciso, la tribù degli Ashanti a cui si fa cenno diede vita nel secolo Diciannovesimo al cosiddetto Impero Ashanti, indipendente sino al 1896 nel territorio dell’attuale Repubblica del Ghana. Venne dopo lunghe guerre sottomesso dalla Gran Bretagna ed incorporato nella allora Gold Coast Colony.

12 ibidem, p. 21. Vedi in ogni caso le argomentazioni kelseniane che tendono a giustificare tale connubio in vista della pace: “il diritto è indubbiamente un ordinamento per la promozione della pace, in quanto vieta l’uso della forza nelle relazioni fra i membri della comunità. [… Si può] dire che il diritto fa dell’uso della forza un monopolio della comunità. E appunto facendo ciò il diritto assicura la pace della comunità”. Cfr. in proposito anche la dottrina pura del diritto, cit., ove possiamo leggere: “l’ordinamento giuridico, determinando le condizioni in presenza delle quali deve avere luogo l’uso della forza e gli individui che devono attuarlo e creando un monopolio coercitivo facente capo alla comunità giuridica, dà pace a questa comunità da esso stesso costituita. Ma la pace del diritto è solo una pace relativa, non una pace assoluta. Il diritto non esclude infatti l’uso della forza, cioè la costrizione fisica di un uomo da parte di un altro uomo. Non è un ordinamento privo di coercizione, come lo vorrebbe un anarchismo utopistico”, così a p. 50.

così come la dottrina anarchica criticamente rileva, esclusivamente in-torno al potere13.

All’incontrario, per Kelsen, “l’anarchia tende a fondare l’ordinamen-to sociale unicamente sull’obbedienza volontaria degli individui. Essa respinge la tecnica dell’ordinamento, e respinge quindi il diritto come forma di organizzazione”14. All’interno di questo quadro, sempre per il pensatore praghese, “un anarchico […] considererà la regolamentazione positiva dei rapporti umani (quale la proprietà o il contratto di locazione di opera) come meri rapporti di potere, e la loro descrizione quali norme di «dover essere» come un mera «finzione», come un tentativo di fornire un’ideologia giustificatrice”15.

13 Ancora Kelsen: “nell’esercizio del potere statuale si suole vedere una manifestazione della forza, ritenuta un attributo così essenziale per lo stato, che si designa quest’ultimo addirittura come «potenza» e si parla di stati come «potenze», anche se non si è in presenza di una «grande potenza». La «potenza» di uno stato può manifestarsi soltanto negli specifici mezzi a disposizione del governo: fortezze e prigioni, cannoni e forche, uomini in uniforme di soldati e poliziotti. Ma queste fortezze e prigioni, questi cannoni e queste forche sono oggetti privi di vita; essi divengono strumenti del potere statale soltanto in misura in cui gli uomini ne fanno uso in conformità agli ordini loro impartiti dal governo, nella misura in cui i poliziotti, ed i soldati obbediscono alle norme che regolano il loro comportamento. Il potere dello stato non è una forma od una istanza mistica, nascosta dietro lo stato o dietro il suo diritto: esso non è altro che la efficacia dell’ordinamento giuridico”, ibidem, p. 322.

14 h. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., 1, I, B, f (a p. 21 dell’edizione citata). Cfr. però la posizione di Malatesta nel citato scritto (alla nota 7 del presente capitolo) su la questione della terra.

15 h. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., 2, III, F (a p. 420 della trad. cit.). Malatesta osserva ancora come “se nessuno ha la possibilità di obbligare gli altri a fare ciò che non vogliono, allora, sempre che non è possibile o non giudicato conveniente adottare più soluzioni diverse, si arriva necessariamente, per mutue concessioni, a quell’accordo che meglio conviene a tutti e meno offende gl’interessi, i gusti, i desideri di ciascuno. Ce lo insegna la storia, ce lo insegna l’osservanza quotidiana dei fatti contemporanei: dove la violenza non ha funzione tutto s’accomoda nel miglior modo possibile, a maggior soddisfazione di tutti; dove interviene la violenza trionfa l’ingiustizia, l’oppressione, lo sfruttamento”, la base fondamentale dell’anarchismo, ora in Scritti, cit., vol. I, p. 112 (l’articolo esce su “Umanità Nova” il 25 luglio 1920). Ancora una volta Malatesta ribadisce la via regolamentativa proposta dall’anarchismo: autonomia e mediazione fra gli interessi che si oppone all’imposizione del diritto di fonte eteronoma. L’anarchismo non respinge “la regolamentazione positiva dei rapporti umani”, rifiuta il loro palesarsi come meri rapporti di potere (cosa che invece Kelsen dà per scontata), e ricerca tale regolamentazione lungo la via di un’autonomia e di una mediazione fondate sulla regolarità dell’agire sociale.

Appare evidente come, per il più compiuto autore del positivismo giu-ridico classico, il pensiero anarchico, nel suo radicale rifiuto del diritto esistente, ovvero quale esclusivo strumento di coazione – il quale per Kelsen è l’unica forma possibile che il diritto può assumere – mira alla costituzione di una società priva di diritto, ovvero ad un contesto sociale speculare a quello presente e teorizzato dalla sua dottrina pura.

Ci troviamo di fronte, per Kelsen, ad un “rigetto completo del diritto po-sitivo e dello Stato esistente come superflui e dannosi” a tutto vantaggio di una “comunità dei giusti, dei santi, che può solo esistere nell’aldilà. È questa la posizione dell’anarchia ideale […] alla cui vista il diritto po-sitivo non appare come un ordinamento di regole normative valide, ma semplicemente come un insieme di crudi rapporti di forza, mentre lo Stato non si distingue in alcun modo da una banda di ladroni”16.

Il tutto porta a racchiudere il pensiero anarchico nell’ambito di un mi-sticismo utopico che lo accomuna con certo cristianesimo primitivo; infatti, sempre per Kelsen, “non costituisce una differenza sostanziale il fatto che il santo, più radicato nella metafisica, spera in un paradiso celestiale ultraterreno, mentre il rivoluzionario utopistico sogna un pa-radiso terreno, che, tuttavia, deve venire rimandato ad un futuro non meno inaccessibile”17.

È degno di nota constatare come hans Kelsen, nelle poche battute che dedica all’anarchismo, lo tratteggia come una prospettiva di approccio al fenomeno giuridico specularmente contraria alla sua dottrina pura, ovve-ro alla massima costruzione del positivismo giuridico; nel far ciò, per un verso, riconosce che la critica anarchica al diritto è, di fatto, una critica al positivismo giuridico, per altro, non riuscendo a concepire una costru-zione giuridica non fondata sull’inscindibile nesso diritto-potere, legame che rappresenta il fulcro della critica anarchica, relega l’anarchismo nel variegato mondo delle utopie, poiché “respinge emotivamente il diritto come ordinamento coercitivo, lo disapprova e desidera una comunità li-bera dalla coercizione, cioè non fondata su un ordinamento coercitivo”18. Sicché per il teorico del diritto praghese, l’anarchismo respinge il diritto

come ordinamento coercitivo, ma non rifiuta il diritto in quanto tale;

16 h. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, 2, IV, A, e, (a pp. 432-433 della trad. cit.).

17 ibidem (p. 233 della edizione citata).

ovvero, l’organizzazione giuridica della società non appare estranea alla prospettiva anarchica; ciò che appare invece avulsa da tale prospettiva è una costruzione dell’organizzazione giuridica fondata sulla coercizione, quindi sul potere. Ma tale costruzione è impossibile nella logica del po-sitivismo kelseniano; chi rifiuta la sua (particolare) rappresentazione del diritto, rifiuto il diritto tout court.

Si può pertanto riconoscere come l’anarchismo critica e rifiuta solo l’u-so repressivo del diritto operando un’implicita critica delle rappresenta-zioni giuridiche, in primis quella positivistica, che rendono necessaria una visione del diritto quale strumento di dominio, non ammettendo, all’incontrario dell’anarchismo, la possibilità di forme diverse di regola-mentazione giuridica, forme cioè non fondate cioè sul potere.

3. L’IMPLICITA CRITICA AL POSITIVISMO GIURIDICO