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FRA REATO E DEVIANZA

CAPITOLO OTTAVO

4. FRA REATO E DEVIANZA

Ritornando per il momento alla questione sopra posta, l’azione de-littuosa, lungi dal venire pre-determinata da un insieme di pre-scrizioni poste in essere da un’autorità competente (nelle disposizioni racchiuse nella parte speciale dei Codici penali), viene di volta in volta riconosciu-ta in considerazione della sua non aderenza a quell’insieme di norme sociali o morali che soprassiedono la vita della collettività. L’azione de-littuosa è anzitutto l’atto che pone in pericolo la vigenza della libertà e dell’uguaglianza e, conseguentemente, è pericolosa socialmente ogni specifica azione che a tale principio possa ricollegarsi. Il problema è se questa pericolosità sociale assume, nel pensiero malatestiano connotati prevalentemente giuridici oppure, di converso, sociologici.

La questione può venire esaminata prendendo in considerazione il se-guente passo malatestiano. Il nostro, a conferma della centralità dell’au-tonomia – possibile solo in clima di libertà ed uguaglianza – nel deter-minare quella regolarità comportamentale da cui far scaturire il diritto sociale, afferma come il “sentimento dei doveri di noi verso gli altri e degli altri verso di noi deve, secondo la nostra concezione sociale, svilupparsi liberamente, senza altra sanzione esteriore che la stima o la disistima dei concittadini. Il rispetto, il desiderio del bene degli altri deve entrare nei costumi ed apparire non più come un dovere ma come una soddisfazione normale degli istinti sociali”25.

Se Malatesta coglie con chiarezza nella regolarità la base per la fondazio-ne di ogni regola, che altrimenti risulterebbe sorretta sono dalla forza costrittiva degli apparati repressivi, ciò non di meno rimane ancorato all’idea che il comportamento conforme non debba venire istituziona-lizzato; ovvero, per dirla in altri termini, resta ancorato al campo della devianza (da cui la disistima dei concittadini), e non si traghetta verso un ambito prettamente giuridico, solo all’interno del quale si potrebbe con compiutezza parlare di reato. Pare quindi che il venir meno ai do-veri sociali, in qualche modo istituiti in norme sociali, generi più pro-priamente un comportamento deviante che la commissione di un reato. Rileviamo, infatti, come Malatesta non fa alcun riferimento alla istitu-zionalizzazione di comportamenti definiti, sia pur genericamente, come antisociali al di là degli accenni sopra richiamati. Pertanto, il nostro non si pone il problema (o ritiene che lo stesso non sussista) della (più

o meno precisa) definizione dei comportamenti delittuosi. Questa è de-mandata di volta in volta al corpo sociale, che dedurrà la specifica nor-ma (più sociale che propriamente penale) dal generale principio per il quale si palesa un’azione delittuosa ogni qual volta si ravvisa la

violazio-ne del diritto di tutti ad una eguale libertà ed al godimento del massimo possibile di beni morali e materiali. Tale principio va letto, per esplicita

ammissione di Malatesta, alla luce della morale sociale vigente26. Se le cose stanno in questo modo, pare quindi maggiormente corretto ricondurre l’azione antisociale, più che al concetto di reato a quello di

de-vianza, ovvero di comportamento esteriore, non preventivamente e

preci-samente definito, che suscita una reazione sociale negativa, poiché viola una norma socialmente riconosciuta come positiva (nel senso di giusta). Vale la pena di precisare, quando parliamo di devianza rispetto a re-gole sociali riconosciute, come queste presentano delle caratteristiche diverse dalle regole propriamente giuridiche, così come la tradizione codicistica le tratteggia. Seguendo come falsariga il pensiero di Wright27, constatiamo che le regole sociali possiedono una autorità normativa anonima (poiché si creano spontaneamente in un contesto sociale, ed altrettanto spontaneamente subiscono modificazioni) e quasi sempre tali prescrizioni anonime non si presentano in forma scritta, ovvero risul-tano tramandate nella e dalla coscienza sociale. Il tutto fa sì che tali regole risultino quanto meno vaghe; dunque, abbiano un contenuto di determinazione inferiore alle prescrizioni giuridiche (che, nell’ipotesi presa in considerazione dal logico finlandese, promanando da una auto-rità normativa non anonima, che specifica con precisione il carattere, il contenuto, le condizioni di applicazione, l’occasione, il soggetto a cui si rivolgono, non appaiono cioè né vaghe, né ambigue).

Abbiamo già sottolineato come le regole sociali non vengono

promul-gate, ovvero non risultano istituite (nel senso di scolpite) in documenti

al fine di portarle a precisa conoscenza dei destinatari; il tutto anche in conseguenza dell’assenza di una vera e propria autorità normativa, che dovrebbe sovraintendere a tale processo di comunicazione verso i soggetti normativi.

È chiaro come le regole sociali hanno funzione normativa, nel senso che esercitano un’influenza nel loro ambito di applicazione, ma, proprio in seguito alla genericità ed anonimato della fonte, ed a causa della

vaghez-26 Cfr. lo scritto malatestiano su opinione popolare e delinquenza già richiamato. 27 Cfr. Norma e azione, trad. it. Bologna, 1989.

za del loro contenuto risultano non (perfettamente) consone a quell’idea di certezza del diritto derivante dal pensiero illuminista.

Vi è un’ultima constatazione, in vero la più importante: ogni regola comportamentale implica una sanzione nel caso di non ottemperanza. L’idea di sanzione non è affatto avulsa dal pensiero di Malatesta, il qua-le, come sopra evidenziato, la invoca (sotto forma di repressione) a fron-te di comportamenti antisociali e, quindi, difformi dalle norme sociali condivise. La reazione sociale al comportamento deviante è di per sé una sanzione allo stesso, ma, a differenza della sanzione propriamente giuridica (così come ci è tramandata dalla prospettiva illuministica), que-sta non è espressamente previque-sta accanto alla regola comportamentale e, pertanto, in quanto non preventivamente e tassativamente istituita, non appare prevedibile.

Legare, di fatto, l’intero sistema di difesa sociale contro il delinquere alla dinamica devianza-conformità, recidendo il rapporto (giuridico-formale) fra lecito e illecito, accosta tale modo di intendere la difesa sociale a te-orizzazioni estreme della Scuola positiva, ponendosi però in netto con-trasto con ogni prospettiva di garantismo formalisticamente fondato28. Certo è che da un punto di vista an-archico, tale prospettiva si preserva da derive autoritarie: negando la legittimità di un’autorità normativa predeterminata e sovraordinata ai rapporti sociali, i quali qui ritrovereb-bero regolamentazione in modo autonomo, ancorando altresì le norme prodotte ai luoghi comuni e dando vita, in tal modo, anche nell’ambito dell’esperienza penalistica, a quelle forme di diritto sociale, alle quali si è già fatto cenno.

In definitiva, ci troviamo di fronte ad itinerari di ricerca di certezza del diritto non riconducibili a quelli istituzionalizzati da certo pensiero giuridico – non a caso traspare una viscerale opposizione tra una pro-spettiva giuridica anarchica e quella palesata all’interno del positivismo giuridico. Va altresì richiamato come tale prospettiva, qui fatta propria da Malatesta, non è in vero, al di là della più volte esplicitata consonanza con la Scuola positiva, appannaggio esclusivo, in ambito di critica radi-cale allo stato di cose presenti, del pensiero anarchico, ma affiori proprio negli stessi anni e con gli stessi intenti in una Russia post-rivoluzionaria non ancora schiacciata dal tallone staliniano29.

28 Cfr. per tutti le riflessioni di L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teorie del garantismo

penale, Bari, 1990.

Il rifiuto di una istituzionalizzazione delle fattispecie astratte di reato non è quindi vezzo esclusivo di una prospettiva giuridica anarchica e non può, nei suoi intenti, venire ricondotta di per sé ad una apertura incondizionata al mondo dell’arbitrio; va riconosciuta, infatti, la non univocità della strada che conduce verso la certezza del diritto.

5. PER UNA DIFESA SOCIALE