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IL FATTO ANTISOCIALE E LA FIGURA DEL DELINQUENTE Lo stesso Malatesta si interroga su “quali sono i fatti che si possono

CAPITOLO OTTAVO

3. IL FATTO ANTISOCIALE E LA FIGURA DEL DELINQUENTE Lo stesso Malatesta si interroga su “quali sono i fatti che si possono

qualificare delitti e danno il diritto, secondo noi, alla repressione colla forza materiale”13. In prima approssimazione appaiono atti antisociali “quelli che offendono il sentimento di pietà umana e ledono il diritto degli altri all’eguale libertà, non già dei tanti fatti che il codice penale colpisce solo perché offendono i privilegi delle classi dominanti”14. È del tutto consequenziale all’interno della prospettiva anarchica separare la definizione formale delle varie fattispecie astratte di reato, così come la stessa si riscontra all’interno degli esecrati Codici borghesi – redatti in funzione del dominio del ceto privilegiato – dalla definizione sostanziale di un atteggiamento antisociale, il quale risulta tale nel momento in cui lede i principî fondanti una convivenza non basata sul dominio; l’anti-socialità del fatto va desunta dall’offesa arrecata alla libertà ed all’ugua-glianza altrui (“ledono il diritto degli altri all’eguale libertà”), poiché tale atteggiamento contravviene il dovere sociale dell’essere umano.

In generale si può riconoscere che sia il venir meno ad un dovere

socia-le, nel senso che vedremo ora, a generare un atto antisociale. In

proposi-to Malatesta rileva, “col progredire della civiltà, col crescere dei rapporti sociali, colla coscienza crescente della solidarietà naturale che unisce gli uomini, coll’elevarsi dell’intelligenza e col raffinarsi della sensibilità crescono certamente i doveri sociali e molte azioni che erano

considera-12 Cfr. in tema, fra i molti, L. Fabbri, malatesta, cit., pp. 17-23, nonché P. La Torre,

errico malatesta nel 50° anniversario della sua morte, cit., p. 20.

13 E. Malatesta, la difesa sociale contro il delitto, cit., p. 206. 14 id., ancora del diritto penale nella rivoluzione, cit., p. 198.

te come spettanti al diritto strettamente individuale ed indipendenti da ogni controllo collettivo acquisteranno, stanno fin d’oggi acquistando, carattere di cose che interessano tutti e debbono essere regolate confor-memente all’interesse generale. Per esempio già oggi non è considerato lecito per un padre il lasciare nell’ignoranza i propri figli ed allevarli in modo dannoso al loro sviluppo ed al loro benessere futuro”15. Pertanto, il punto di riferimento per comprendere quali sono i comportamenti socialmente legittimi è offerto, con chiarezza, dai valori e dagli interessi sociali presenti in un determinato contesto; questi forgiano i cosiddetti

doveri sociali, che a loro volta si sostanziano in comportamenti

social-mente doverosi.

La violazione dei doveri sociali va quindi repressa; in questo senso, per Malatesta, “è delinquente – non contro la natura, non a causa di una leg-ge metafisica, ma contro i suoi contemporanei ed a causa degli interessi e della sensibilità offesi degli altri – chiunque violi l’eguale libertà degli altri. E finché qualcuno ve n’è, bisogna difendersi”16. Va rilevato come, per il nostro, “indipendentemente da quello che la legge prescrive, vi sono degl’individui che per una ragione o per l’altra sono un pericolo per gli altri uomini e contro di cui tutti sentono la necessità di difender-si. Per noi delitto è ogni azioni che tende ad aumentare volontariamente il dolore umano: è la violazione del diritto di tutti ad una eguale libertà ed al godimento del massimo possibile di beni morali e materiali”17. I fautori della cosiddetta parte speciale del Codice penale, ovvero coloro che, in nome di una rappresentazione della certezza del diritto in chiave illuministica, auspicano una precisa definizione e circoscrizione delle fattispecie di reato, non possono che ritenere le affermazioni malatestia-ne sopra riportate quali prodromiche ad una determinaziomalatestia-ne (malatestia-nel senso di elencazione) specifica e conchiusa dei reati. Malatesta non può che deludere tali aspettative; infatti, come già rammentato, egli si accosta alla Scuola positiva, nota agli addetti ai lavori come propugnatrice di un Codice senza parte speciale. Nell’eludere la richiesta di determinazione specifica dei reati, il nostro non rappresenta certamente una voce isola-ta, a maggior ragione se collocata negli anni Venti dello scorso secolo.

15 ibidem, pp. 206-207.

16 E. Malatesta, libertà e delinquenza, ora in Scritti, cit., vol. II, p. 167 (l’articolo appare il 30 settembre 1922 su “Umanità Nova”).

17 id., opinione popolare e delinquenza. Un effetto moralizzatore del fascismo, ora in

In proposito egli sottolinea come “resta sempre difficile determinare in concreto quali fatti sono delittuosi e quali no, poiché varie sono le opinioni degli uomini su ciò che è causa di dolore o di godimento, su ciò che è bene e su ciò che è male, salvo che non si tratti di quei reati be-stiali che offendono i sentimenti fondamentali dell’animo umano e sono perciò universalmente condannati”18. Dal che possiamo evincere che in tale prospettiva si possa distinguere il genere reato in due specie: i reati qui definiti bestiali, i quali, in quanto lesivi di valori universalmente condivisi e fondanti il vivere umano, sono di immediato riconoscimento ed esecrazione da parte dei consociali19, e reati, la cui determinazione è invece ancorata all’opinione corrente nella comunità. Se entrambe le fattispecie di reato si ancorano ai luoghi comuni, di cui si faceva già riferimento, i primi ineriscono a loci fortemente radicati la comunità, imprescindibili alla stessa per risultare tale – infatti, chi li viola si pone al pari delle bestie, smettendo i suoi panni di animale politico –, i secon-di, non connotandosi come reati naturali di immediato riconoscimento, risultano pertanto, nella loro determinazione, condizionati da opzioni variabili pur essendo socialmente condivise.

Una determinazione, che taluni chiamerebbero oggettiva, dei reati non fa parte dell’orizzonte speculativo malatestiano (ma nemmeno, lo ricor-diamo ancora, di quello della Scuola positiva); per il nostro i comporta-menti socialmente pericolosi si desumono avuto riguardo al complesso di valori ed interessi sociali vigenti: “è indubitabile che per le necessità della vita collettiva tale quale è determinata dalla storia passata e dalle circostanze attuali si costituisce in ogni società una certa morale, che riconosce a ciascuno dei determinati diritti la cui violazione, colla frode o colla violenza, è considerata delitto, e come tale è condannato e perse-guitato dalla pubblica opinione”20.

Se, per un verso, gli studiosi di questioni penali scorgeranno agevolmen-te in tali affermazioni un accostarsi indubitabile alla prospettiva solcata in quegli stessi anni in campo prettamente giurisprudenziale da Enrico

18 ibidem, pp. 100-101.

19 Con buona approssimazione questi rientrerebbero fra i reati naturali richiamati dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 328 del 1988 in tema di ignoranza non scusabile.

Ferri e dai sui allievi21, per altro, coloro che coltivano la teoria generale del diritto, riconosceranno la tendenza a fondare una regolamentazio-ne penale su di una sorta di sistema giuridico statico, in opposizioregolamentazio-ne all’assunzione kelseniana per la quale il sistema è giuridico in quanto

dinamico22.

Al di là di ciò va rilevato come in Malatesta, che in vero pare estremizza-re la tendenza della Scuola positiva, il venir meno ai doveri sociali, più che assumere i connotati di una azione illecita in senso stretto, possa venire ricondotto verso i lidi, meno marcati, della devianza.

Per ora va sottolineato, come, se Malatesta offre al suo lettore una bipar-tizione del genere reato, egli distingue anche la figura del delinquente in due specie. Infatti, gli atti antisociali possono avere due origini: l’una propriamente sociale (“miseria, ignoranza, vizii”), l’altra, per così dire, naturale (“difetti di costituzione congeniti od acquisiti”); la distinzione per il nostro non può essere ovviamente netta, dato che la miseria ma-teriale e morale non può che avere nefaste conseguenze sulla salute e sull’equilibrio mentale di soggetti socialmente marginali. In ogni caso, per Malatesta, i delinquenti per causa sociale “spariranno con una mi-gliore organizzazione sociale”, mentre i secondi, in quanto affetti da patologie psico-fisiche, “debbono essere affidati alle cure dei medici e degli alienisti”23.

Per il nostro, dunque, “la massima parte dei delitti è direttamente o indirettamente di origine sociale; ed è anche quella minima parte che trova origine in fatti naturali può essere neutralizzata e corretta da isti-tuzioni adeguate”24.

21 In proposito non può essere sottaciuta l’attiva partecipazione del penalista mo-denese al moto socialista montante anche nella società italiana a cavaliere fra Otto e Novecento, del quale l’anarchismo (fortemente influenzato dal pensiero malatestiano) è parte integrante.

22 Non può essere questa la sede per affrontare la questione; basti rammentare che, nel lessico kelseniano, un sistema normativo statico si fonda su di un rapporto contenutistico fra la norma di grado inferiore e quella di grado superiore (la prima è dotata di una maggiore specificità avuto riguardo alla generalità della seconda), mentre un sistema dinamico si fonda su di un rapporto di delegazione di potere da una norma superiore ad una di rango inferiore. In proposito, ovviamente, h. Kelsen, la dottrina

pura del diritto, cit., pp. 219-222.

23 E. Malatesta, ancora del diritto penale nella rivoluzione, cit., p. 198. 24 id., la difesa sociale contro il delitto, cit., p. 205.