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La disciplina della cittadinanza della donna negli Stati dell’Europa occidentale

La Francia, spesso, viene raffigurata come una nazione con un’identità fortemente integrativa, forgiata soprattutto attraverso la sua esperienza rivoluzionaria. Il periodo successivo al 1889, è caratterizzato da una fase di stabilità legislativa, in materia di cittadinanza, che si protrae per circa un secolo; sarà, dopo la prima guerra mondiale, che il paese sentirà il bisogno di una nuova legge, quale quella del 1927, quando il Parlamento ha adottato la legislazione più liberale che la Francia abbia mai conosciuto. Uno tra gli obiettivi principali era proprio quello di invertire quella disposizione, secondo la quale la cittadinanza della moglie, debba seguire quella del marito: le conseguenze di questo intervento, furono la perdita per il paese di sessantamila donne francesi tra il 1914 ed il 1927. Centoventimila donne straniere erano diventate straniere, attraverso il matrimonio con un uomo straniero ed altre sessantamila donne straniere, erano diventate francesi, sposando un cittadino francese. Dunque, fu permesso ad una donna francese, che sposava uno straniero, di mantenere la sua cittadinanza francese e di trasmetterla anche ai suoi figli. All’alba della seconda guerra mondiale, la nuova legge 12 novembre 1938; qui l’acquisto della nazionalità per matrimonio è ancora limitato e gli stranieri non possono sposarsi fino a che non hanno ottenuto il visto per più di un anno. In particolare, se una donna straniera aveva il desiderio di sposare un uomo francese, doveva fare una richiesta prima del matrimonio, ma, questa domanda, non sarebbe stata considerata se la donna fosse stata espulsa o fosse andata incontro ad un

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L’ordinanza del 19 ottobre 1945, prodotto della seconda guerra mondiale, stabilisce un nuovo codice di nazionalità in Francia; qui i diritti delle donne sono stati parzialmente ridotti. Questo sistema, così adottato, mirava a massimizzare il numero di donne che rimanevano di nazionalità francese, limitando la loro capacità di scegliere la nazionalità, dopo il matrimonio. Le donne straniere, che sposavano uomini francesi, acquisivano automaticamente la nazionalità francese, a meno che prima del matrimonio non esprimessero il loro dissenso. Le donne francesi, invece, che sposavano uomini stranieri mantenevano la loro nazionalità, a meno che, anche queste, dichiarassero, prima del matrimonio, di voler acquistare la nazionalità del marito straniero. Dopo la fase c.d. di politica di naturalizzazione relativa al periodo tra il 1945 ed il 1973, con un’attenzione particolare al fenomeno della decolonizzazione, la successiva legge del 1973 ha completamente equiparato i diritti di nazionalità per le donne, gli uomini ed i bambini legittimi. La legge 22 luglio 1993 si presentò come una nuova legge sulla nazionalità, ma in realtà era parte di un programma più ampio di controllo sull’immigrazione. Il sospetto maggiormente dimostrato da questa legge, in materia di matrimonio, è stato quello relativo all’accrescere del numero di matrimoni misti. La legge del 9 gennaio del 1973, come abbiamo appena affermato, aveva reso gli uomini e le donne uguali relativamente agli effetti del matrimonio in base alla nazionalità: un coniuge straniero poteva diventare francese, sulla base di una sola dichiarazione. Se già la legge del 7 maggio 1984 aveva imposto un termine di sei mesi, successivi al matrimonio, prima che il coniuge potesse ottenere la naturalizzazione, la legge del 1993 ha aumentato questo periodo a due anni ed ha aggiunto due ulteriori condizioni all’acquisto della nazionalità: la coppia nel corso di questi due anni deve aver convissuto in maniera continuativa ed, il coniuge francese, deve aver mantenuto la sua nazionalità. Lo scopo è sempre quello di combattere i cosiddetti matrimoni di convenienza. Sarà poi la legge 16 marzo 1988 a fare un passo indietro, riducendo il periodo di convivenza successivo al matrimonio, ad un anno. Nel 2002 lo scopo per il governo era quello di ridurre l’accesso degli stranieri ai

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visti francesi e, quindi, alla nazionalità francese. Tali questioni erano state affrontate separatamente prima della fine degli anni ottanta, ma sono poi state riunite politicamente. Lo scopo per il governo continua ad essere quello di combattere i matrimoni di convenienza, ma di pari passo rafforza l’accesso alla nazionalità francese per gli stranieri coniugi. E’, la legge del 2003, a riportare il periodo di ritardo rispetto al momento del matrimonio, per l’acquisizione della nazionalità, a due anni. Prima, era esclusa la decorrenza di questo periodo, nel caso in cui vi fossero dei figli, ma, tale eccezione, da questo momento, non è più valida. Il ritardo nell’acquisizione, addirittura, può essere elevato a tre anni nel caso in cui, i coniugi stranieri, risiedano all’estero ed al momento della dichiarazione, non possano dimostrare di aver vissuto continuativamente in Francia, nel corso dell’anno precedente. La prefettura ha cominciato a svolgere delle vere e proprie indagini riguardo all’effettiva convivenza della coppia e non si è risparmiata anche, per il coniuge straniero, dei test di lingua francese, al

momento della presentazione dell’istanza.

Un altro paese dell’Europa occidentale, che ammette l’acquisto della cittadinanza per matrimonio, è il Belgio, il quale si è particolarmente preoccupato, nella sua legge sulla nazionalità, del rispetto del principio di eguaglianza tra l’uomo e la donna, abbandonando, nel tempo, il principio dell’unitarietà della cittadinanza, nella famiglia. Dal 2005, uno straniero che sposa un cittadino belga o il cui partner diventa cittadino belga, non acquisisce automaticamente la cittadinanza belga; inoltre, sia la madre che il padre, trasmettono la cittadinanza ai figli. Tutto questo è finalizzato anche a lottare contro determinate forme di frode, quali matrimoni fittizi o sequestri di bambini. Se, infatti, il genitore che non ha la custodia del figlio, decide di portarlo fuori dal paese qualora il bambino, abbia acquisito, precedentemente, anche la cittadinanza belga dell’altro genitore, sarà più semplice per le autorità belghe, riportarlo a casa (esercizio della protezione diplomatica). Il Belgio è divenuto indipendente dal 1830 e, precedentemente, il codice di riferimento per il paese era quello francese, anche riguardo a quelle che erano

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le norme sulla cittadinanza; così, sino al 1895, la teoria seguita era quella di J. J. Rousseau, secondo la quale, l’acquisizione della nazionalità, poteva essere qualificata come una sorta di contratto, al quale l’individuo può scegliere se aderire o no. il principio guida, a proposito del rapporto tra moglie e marito, era quello dell’unitarietà della cittadinanza all’interno del nucleo familiare (artt. 12

e 19 del codice).

Sarà poi la legge del 15 ottobre del 1932, ad indebolire il principio suddetto; da questo momento, la donna può , in caso di matrimonio con un cittadino belga, decidere di non acquisire tale cittadinanza (previa dichiarazione prima del matrimonio).

La legge 28 giugno del 1984 detta i nuovi criteri di acquisto e perdita della cittadinanza, sostituendosi alla precedente disciplina; sono, soprattutto i passi avanti compiuti nell’ambito del diritto di famiglia, che rendono i principi, fino

ad ora adottati, non più adeguati.

La legislazione del paese si spinge oltre, prevedendo due alternative, nel caso di acquisto della cittadinanza belga per matrimonio: il coniuge straniero potrà presentare la domanda di acquisizione, solamente dopo sei mesi di convivenza qualora sia autorizzato a soggiornare, senza limiti di tempo, nel paese, a prescindere dal matrimonio. Se, invece, il coniuge non ha questo diritto illimitato di soggiorno sul territorio, dovrà attendere tre anni di convivenza, prima di poter fare domanda di acquisizione della cittadinanza.

101 CONCLUSIONI

Dopo aver indagato, in maniera dettagliata, l’iter legislativo percorso in Italia, in materia di cittadinanza, con particolare riguardo alla posizione della donna ed al metodo di acquisto della cittadinanza per matrimonio, ho notato quali potrebbero essere quei punti di carenza, per i quali sarebbe necessario intervenire. Ho cercato di osservare anche ciò che effettivamente accade, nella realtà concreta più vicina che abbiamo, per capire quali sono i meccanismi che, principalmente, si attivano al fine di emanare un decreto di attribuzione della cittadinanza. Le donne straniere che vogliono ottenere la cittadinanza italiana devono presentare telematicamente la domanda; è poi la Prefettura che si riserva di convocare, presso il suo ufficio, la donna straniera, la quale dovrà produrre una serie di documenti: il certificato di nascita, il certificato penale del paese d’origine, un documento di riconoscimento, la ricevuta del versamento di euro 200 previsto dalla legge 94/2009 ed una marca da bollo da euro 16. La domanda della donna straniera risulta, sicuramente, inammissibile, nel caso in cui non vi sia la trascrizione dell’atto di matrimonio, nei registri di stato civile, del Comune italiano di competenza. Dopo essere entrata in contatto con la Prefettura di Pisa, ho raccolto alcuni dati relativi agli ultimi dieci anni: la maggior parte delle richieste di cittadinanza per matrimonio, provengono da donne albanesi e marocchine; si tratta di donne che non conoscono la lingua ed avrebbero bisogno di un supporto, offerto eventualmente dal nostro paese, per conoscere la nostra storia, le nostre tradizioni e, soprattutto, la lingua. La Prefettura non ha alcun potere di negare la cittadinanza, qualora la richiesta provenga da una donna che non conosce l’italiano, ma produce regolarmente i documenti necessari, dato che l’attribuzione della cittadinanza per matrimonio, corrisponde ad un diritto soggettivo. Sicuramente, come abbiamo osservato sia per l’Italia che per altri paesi europei, nel presente elaborato, sono stati fatti molti passi avanti, con riguardo al ruolo della donna rispetto al marito (in materia di cittadinanza); abbiamo evidenziato come il principio di unitarietà

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della cittadinanza nel nucleo familiare, fortemente radicato nella materia, si è pian piano affievolito, fino a scomparire del tutto. Nonostante questo, il rischio per la donna, che chiede la cittadinanza di un paese del quale non conosce la lingua, è quello di non riuscire mai ad arrivare ad un’integrazione completa all’interno del paese; accade che, allora, vengano praticamente vanificati tutti gli sforzi compiuti dalla legislazione. Se la donna non riesce ad integrarsi, non acquista alcuna posizione di autonomia; la conseguenza è che la donna rimane in una posizione di subordinazione rispetto al marito ed è una posizione alla quale ci si è opposti per secoli.

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