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Le modifiche apportate dalla legge 15 luglio 2009 n.94.

L’art.5, nell’attuale legge 15 luglio 2009 n. 94, dispone che «il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza, quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni, nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio, se residente all’estero» qualora, in entrambi i casi, al momento dell’adozione del decreto di conferimento, «non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili e non sussista la separazione personale dei coniugi». L’acquisto della cittadinanza, con tale formulazione, non costituisce più automatica conseguenza del matrimonio, come antecedentemente previsto, per la moglie straniera, dall’art. 10, comma 2, della legge 13 giugno 1912 n. 555. Si tratta comunque di un diritto soggettivo del coniuge, uomo o donna che sia. Il coniuge straniero potrebbe anche decidere di non presentare la domanda di richiesta di cittadinanza, come potrebbe anche decidere di attendere più tempo, dalla celebrazione del matrimonio, rispetto a quello indicato dal legislatore. Anche in questo caso, il coniuge, dovrà mantenere tutte le condizioni per l’attribuzione della cittadinanza, sino alla fine del procedimento; anche se, ad esempio, lo scioglimento del matrimonio avviene dopo molti anni rispetto alla celebrazione dello stesso, questo scioglimento non può comunque intervenire, prima del provvedimento di conferimento125.

Tenendo sempre ben presente la formulazione dell’art. 5, come riformato dalla

124 L’art. 10 della legge organica, come già accennato nella legge del 1983, prevede l’obbligo di

giuramento per colui che è intestatario del decreto in base agli artt. 7 e 9 della legge medesima.

125 Qualora una delle condizioni per l’attribuzione della cittadinanza venga a mancare dopo il

termine previsto per l’emanazione del provvedimento da parte della pubblica amministrazione, il soggetto potrà invece ottenere la cittadinanza.

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l. 94/2009, evidenziamo il prolungamento del termine da sei mesi a due anni di residenza legale in Italia, come condizione necessaria, tra le altre, alla presentazione della domanda; si tratta di una scelta di inasprimento, operata solo in assenza di figli. Si tratta di una modifica coerente rispetto alle scelte degli altri paesi, in materia, ma non prende in considerazione la grave anomalia, presente nell’iter procedimentale, in Italia; è infatti imposto il mantenimento dei requisiti e la mancanza di preclusioni, sino al momento di emanazione del provvedimento di conferimento, tralasciando il comportamento, frequentemente omissivo e dilatorio, della pubblica amministrazione, nell’adempimento del suo compito. Come accennavamo prima, se la coppia è sposata ed ha dei figli, sia che questi siano nati prima o dopo il matrimonio o, sia che si tratti di un minorenne figlio di uno dei coniugi ed adottato dall’altro coniuge, è prescritto un dimezzamento dei termini relativi all’obbligo di

residenza legale, nel territorio della Repubblica126.

Nel 2009 poi, l’art. 5, subisce delle significative modifiche, disponendo che non vi debba essere scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili del matrimonio o separazione personale dei coniugi, sino all’emanazione del decreto di conferimento. Quanto alle circostanze sopravvenute, al provvedimento stesso, si prefigura l’ipotesi di irrevocabilità del decreto; la revoca del provvedimento è possibile quando vi sono delle cause ostative, sorte prima dell’emanazione, anche se fatte valere in un momento successivo alla domanda. Il legislatore ha abbandonato l’orientamento fino ad ora espresso dal Consiglio di Stato; secondo tale orientamento, il coniuge manteneva il suo diritto soggettivo di acquisire la cittadinanza italiana, qualora si fossero verificati questi eventi impeditivi, in un momento successivo, rispetto alla decorrenza del periodo di residenza legale minimo previsto dalla legge o, anche nel caso di verificazione di tali cause ostative, prima della presentazione della

126 Vi sono delle opinioni contrastanti riguardo ai figli maggiorenni di uno dei coniugi che

vengono adottati dall’altro coniuge; si sostanzia il sospetto di una sorta di escamotage per ottenere la riduzione dei termini prescritti. In realtà non è condivisibile una simile opinione dato che un tale abuso può comportare delle conseguenze giuridiche ben più gravi nella sfera giuridica dell’adottante e dei suoi eredi.

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domanda. Ci sono state diverse opinioni contrastati, manifestate dall’Amministrazione dell’Interno, ma il Dicastero si è poi conformato

all’interpretazione del Supremo Organo Consultivo127.

Il legislatore, deciso all’eliminazione dei cosiddetti matrimoni di comodo, finisce per prolungare indefinitamente la durata temporale della vita coniugale, finendo per non dare rilevanza né alla presenza di figli all’interno della coppia, né all’autenticità del rapporto coniugale stesso. Il risultato è stato quello di andare a colpire i matrimoni che cessano, dopo aver già superato il limite temporale minimo, previsto per l’attribuzione della cittadinanza; da qui il diffondersi di accordi dissimulanti, per aggirare le previsioni del legislatore. In Francia, la disciplina si rivela maggiormente coerente, dato che il coniuge può acquisire la cittadinanza, attraverso una dichiarazione di cittadinanza128,

quando siano trascorsi quattro o cinque anni dal matrimonio ed il soggetto si dimostri linguisticamente preparato. Il codice francese non tralascia l’ipotesi di eventuale procedimento di annullamento dell’acquisto, entro due anni dalla dichiarazione, per una mancanza dei presupposti. Ancora il Pubblico Ministero ha il diritto di contestare l’acquisto, nel termine di due anni, dalla scoperta di frode o menzogna. Inoltre, se la convivenza cessa, nei primi dodici mesi dopo il matrimonio, scatta la presunzione semplice di frode, così che dovrà essere il

coniuge, a fornire delle prove contrarie.

Riprendendo in esame l’acquisto della cittadinanza italiana per matrimonio, invece, sottolineiamo come il diritto soggettivo del coniuge risulti, ingiustificatamente, subordinato ai tempi impiegati dall’amministrazione, per concludere il procedimento; la dilatazione del termine, cui responsabile risulta la pubblica amministrazione, dovrebbe non avere ripercussione alcuna, sulla domanda presentata dal privato, dal momento che si profila l’ipotesi di un danno da ritardo. L’art. 8 della legge avvalora questa ultima interpretazione, poiché dispone il divieto di emanare il decreto di rigetto dell’istanza, una volta

127 Min. Interno, circ 6.5.1994, prot. n. K.60.1. 128 Ai sensi degli artt. 21-2 21-3 code civil.

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trascorsi più di due anni, rispetto al termine finale del procedimento. Secondo un’ulteriore interpretazione, si tratterebbe di un divieto limitato alle situazioni in cui ricorrano quelle preclusioni, relative alle esigenze di sicurezza della Repubblica o quelle individuate nelle cosiddette pregiudiziali penali. E’ vero che, all’inizio, l’art. 8 trovava applicazione solamente in quelle situazioni in cui vi era una condanna penale ostativa o una situazione di rischio per la sicurezza della Repubblica; prima della riforma del 2009, la rilevanza giuridica dei requisiti del matrimonio si esauriva nel momento stesso della domanda (operanti come condizioni di ricevibilità) e solo dopo la riforma medesima, sia la qualità che la persistenza della relazione coniugale, devono perdurare per tutto il periodo, fino alla conclusione del procedimento. Sono requisiti che si classificano, fondamentali, per l’emanazione del provvedimento. Questa precisazione e la mancanza di dimostrabilità della seconda interpretazione dell’art. 8, sia sul piano letterale che sistematico, ne escludono la validità. Dunque, come nel caso di eventi riguardanti la separazione personale del coniuge, a maggior ragione, delle cause ostative come la commissione di reati o la pericolosità del soggetto debbono, se sussistenti, impedire, anche a distanza di tempo dalla domanda, l’acquisto della cittadinanza. Per il provvedimento di rigetto della domanda sarà quindi previsto il medesimo termine legale, qualsiasi sia la ragione, per cui la pubblica amministrazione ritenga di non accogliere una domanda, che era prima ricevibile ed accoglibile. Un altro impedimento relativo all’adozione del provvedimento di conferimento della cittadinanza, come abbiamo anticipato, è quello dell’intervenuta separazione personale tra i coniugi. La nuova formulazione dell’art. 5 della disposizione, con la riforma 94/2009, potrebbe riferirsi sia alla separazione legale che a quella personale. In realtà, dal momento in cui viene inserito nella disposizione il termine “separazione personale”, il riferimento è ad una nozione di tipo tecnico, riconducibile al contenuto del codice civile129. L’art. 158

129 Ai sensi dell’art. 150 cod. civ. è ammessa la separazione personale dei coniugi che può essere

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statuisce: “la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice”. La separazione personale, nel caso di consenso tra i coniugi, avverrà solamente con un intervento del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale civile oppure del Presidente del tribunale, con la successiva trascrizione nei registri di stato civile; in alternativa, se i coniugi intraprendono una procedura autogestita130, sarà comunque necessaria la conferma

dell’accordo di separazione, davanti all’ufficiale di stato civile. La separazione di fatto rimane estranea rispetto alla separazione personale, ma è comunque produttiva di effetti in determinate circostanze, come quelle previste da alcune leggi speciali, come nell’ipotesi dell’art. 3 n. 2 lett. b), l. 1.12.1970, n.898 sul divorzio e dell’art. 6 l. n. 184/1983 in materia di adozioni. La separazione di fatto, per cui uno degli elementi esteriormente percepibili, è l’interruzione della coabitazione, produce degli effetti speciali, così come esplicitante stabilito dal legislatore; questo non è avvenuto nè nel caso della formulazione originaria dell’art. 5 della legge né con la successiva riforma del 2009. Nonostante la separazione di fatto, non abbia particolari conseguenze di tipo ostativo, nel procedimento di attribuzione della cittadinanza, può essere percepito come

rivelatore di una situazione matrimoniale di comodo.

E’ la riconciliazione personale ad aver bisogno di alcune specificazioni, in collegamento con il contenuto dell’art. 5; non è escluso che i coniugi possano separarsi, nel corso del procedimento, dato che è rilevante la situazione coniugale, con riferimento al momento di adozione del decreto. Il Ministero dell’Interno, su suggerimento dell’avvocatura dello Stato, ritiene che, una volta iniziato il procedimento per l’ottenimento della cittadinanza, il tempo utile alla maturazione dei requisiti di legge, è quello che va dal momento della dichiarazione di riconciliazione (una riconciliazione che deve sussistere dall’inizio e per intero). In realtà non vi è un riscontro, dal punto di vista letterale, teso a dimostrare questa interpretazione; dato che i coniugi, per sottrarsi all’applicazione della disciplina, preferiscono optare per una

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separazione di fatto, piuttosto che per quella legalmente costituita, non hanno bisogno di separarsi e poi riconciliarsi, se realmente vogliono aggirare le regole. Quindi, un eventuale periodo di separazione personale, può al massimo avere l’effetto di sospendere il computo del periodo temporale, sul presupposto di un’interruzione dell’ordinaria vita coniugale. La questione della riconciliazione coniugale, si basa sul presupposto che si tratti di una riconciliazione esplicita; l’istituto della riconciliazione ha effetti tra le parti, anche in caso di conclusione dell’accordo per atto pubblico, scrittura privata o anche oralmente; è errato, però, intendere la pubblicità nei registri di stato civile, come condicio sine qua non, dell’efficacia della riconciliazione, nell’ambito dell’attribuzione della cittadinanza, potendosi, piuttosto, ravvisare un’inefficacia solamente nei confronti dei terzi. La riconciliazione, infatti, non è detto che sia efficace dal momento della dichiarazione resa all’ufficiale di stato civile; rispetto a quest’ultima, l’effettiva riconciliazione può essere anche anteriore, a patto che la data venga annotata nella dichiarazione. Anche l’Amministrazione dell’Interno potrebbe essere considerata proprio al pari di un terzo, se non considerassimo la possibilità che essa ha di conoscere della riconciliazione dei coniugi, attraverso le altre dichiarazioni, indispensabili nel caso di riconciliazione.

L’elemento caratterizzante la relazione coniugale è la coabitazione dei due coniugi che, tuttavia, in particolari circostanze (come la carcerazione di uno dei due) può venire meno, pur non cessando la relazione stessa. I coniugi potrebbero, quindi, essere conviventi ed essere dunque legati da un legame di tipo affettivo, anche se dimoranti in due diverse abitazioni. I due coniugi possono anche decidere di simulare il loro rapporto coniugale ed, in quel caso, avrà luogo l’ipotesi di matrimonio fittizio; esso si differenzia rispetto al matrimonio invalido, poiché nel primo caso siamo di fronte ad una causa di annullabilità del matrimonio. Il matrimonio fittizio si differenzia anche rispetto a quello simulato; quest’ultimo, infatti, è un istituto disciplinato dal codice civile e ammesso nella sfera dell’autonomia privata. Il matrimonio fittizio

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si sostanzia nell’ambito del diritto dell’immigrazione e si rivela come negozio, in frode alla legge, con scopo illecito. Inoltre, anche per il regime degli effetti, le differenze sono evidenti, dato che per il matrimonio simulato, vi è una caducazione immediata degli effetti, mentre per il matrimonio fittizio, vi è una produzione degli effetti, limitata relativamente a determinate sfere di diritto pubblico. La mancata attuazione del rapporto, è fondamentale per l’indagine di entrambe le figure, mentre, l’attenzione sul momento dell’accordo simulatorio, rileva esclusivamente nella simulazione. Nel diritto dell’immigrazione, non mancano degli strumenti atti a correggere quei danni, derivanti dalla pratica dei matrimoni fittizi, mentre, in materia di attribuzione della cittadinanza, in parallelo, sono assenti strumenti per far sì che una simile frode, sia legalmente inquadrata come causa impeditiva. L’interpretazione integrativa della giurisprudenza del Consiglio di Stato ha dichiarato: “il requisito per poter ottenere la cittadinanza, deve consistere non solo, nel dato formale della celebrazione di un matrimonio tra lo straniero ed il cittadino italiano, ma anche nella conseguente instaurazione di un vero e proprio rapporto coniugale (con le sue concrete connotazioni tipiche: fedeltà, assistenza, collaborazione e coabitazione).”

Il matrimonio fittizio non è causa di un’invalidità del matrimonio, agli effetti civili, ma, con riferimento, al percorso di cittadinanza, come previsto dalla legge. Da una parte, ignorare la falsità del matrimonio, costituisce una indiretta violazione della formulazione dell’art. 5 della legge, dall’altra parte, sarebbe opportuno che vi fosse un’esplicita norma di carattere eccezionale, volta alla privazione dello status di coniuge, rispetto ad un matrimonio non invalidato. Le soluzioni che si propongono sono due, delle quali, solamente la seconda, potrà essere seguita. Secondo una prima opinione, dalla mancanza di una separazione personale, se ne dovrebbe dedurre l’effettività della convivenza coniugale ( qualificando anche la sola separazione di fatto, come impeditiva per l’acquisto della cittadinanza); la seconda opinione, invece, la più condivisibile, ritiene rilevante la sola separazione legale, garantendo l’attribuzione della

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cittadinanza, sino ad un’eventuale formalizzazione, dal punto di vista giuridic,o dell’elemento patologico, manifestatosi nel rapporto coniugale. Il Ministero dell’Interno ha provato, anche in passato, a far rientrare nelle cause ostative, previste all’art. 6 comma primo, lett. i), anche il matrimonio fittizio. La risposta a questo tipo di orientamento è arrivata da parte del Consiglio di Stato, che ha escluso la possibilità di includere il matrimonio fittizio, tra i motivi di

rischio effettivi per la sicurezza dei consociati.

L’art. 5 individua nell’annullamento del matrimonio, una delle cause impeditive all’acquisto della cittadinanza; se il coniuge ottiene il decreto di conferimento, prima dell’annullamento, conserverà il suo status. Gli effetti retroattivi delle invalidità matrimoniali si producono, però, in relazione allo stato coniugale, visto che quest’ultimo configura un effetto diretto del matrimonio; l’acquisto della cittadinanza non è un effetto diretto del matrimonio, il quale è solamente un presupposto per il suo realizzarsi. La cittadinanza può essere perduta da un soggetto, solo per quelle cause espressamente previste dalla legge e l’invalidità di matrimonio, sembra addirittura essere esclusa, implicitamente, da queste cause. Da questa premessa, scaturiscono due diverse critiche, rivolte al legislatore; quest’ultimo, avrebbe potuto, per prima cosa, indicare le cause di invalidità che producono la perdita della cittadinanza acquisita. Poi, anziché parlare di invalidità, il legislatore avrebbe potuto circoscrivere il suo discorso esclusivamente all’annullamento del matrimonio, evitando dei dubbi relativi

alla nullità.

Tuttavia, prima della modifica del 2009, era essenziale chiarire se il matrimonio tra i due coniugi fosse stato concluso, ad esempio, con la malafede del coniuge, in modo da prospettare delle conseguenze, sull’acquisto della cittadinanza, nel caso di invalidità del matrimonio, successivamente accertata; questo proprio perché, il termine di residenza legale tra i due coniugi, era quello minimo di sei mesi, senza che questa dovesse persistere, nel corso del procedimento. Dopo la modifica dell’art. 5, operata nel 2009 ed il prolungamento del termine legale minimo di residenza, l’atto di matrimonio, passa in secondo piano ed una

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eventuale invalidità di esso, non ha più l’effetto di travolgere lo status di cittadinanza, precedentemente acquisito; ciò che conta adesso, è la sussistenza del rapporto.

88 CAPITOLO III

La donna cittadina del mondo Premessa

Fin dall’origine della società umana l’uomo e la donna sono stati concepiti come entità separate e diverse tra di loro, protagonisti di rapporti variabili e mutevoli nel tempo: quali rapporti di gerarchia, complementarietà, differenza, uguaglianza. L’evoluzione storica ha condotto a processi di attribuzione differenti rispetto ai caratteri peculiari e distintivi di ciascuno dei due sessi. In particolare, l’idea predominante nella storia è sempre stata relativa ad una posizione gerarchicamente predominante dell’uomo sulla donna; dal XVIII secolo in poi le donne hanno quindi cominciato ad organizzare delle azioni collettive di intervento, più o meno sempre basate su un’elaborazione teorico- politica di forte impegno. Poco più di due secoli fa è nata l’idea del “genere” come terreno fondamentale per l’elaborazione del potere. Da questo momento in poi, infatti, le donne diventano un vero e proprio soggetto politico collettivo. L’identità sessuale, inevitabilmente, manifesta i suoi effetti sia in campo culturale sia soprattutto nella sfera pubblica, quale quella del diritto e della politica.

Se volessimo definire nel tempo un momento nel quale le donne si affacciano sulla scena pubblica, potremmo fare sicuramente riferimento al periodo posteriore alla Rivoluzione francese; da qui, nel mondo occidentale, nasce una nuova definizioni di rapporti tra lo Stato e l’individuo, quest’ultimo assume in tale contesto, la qualifica di cittadino. La Costituzione francese del 1791 definiva il cittadino sulla base di requisiti, quali: maggiore età, capacità di portare le armi, reddito ed autonomia personale, concepita quest’ultima come autonomia sia dal punto di vista economico che giuridico. Quindi, nonostante la proclamazione dei diritti universali del 1789, la categoria delle donne rimaneva ancora esclusa dal concetto di cittadinanza, dato che questa poteva possedere tutti i requisiti previsti dalla Costituzione, ma non acquisiva mai, durante tutta la sua vita, una qualsiasi forma di autonomia né economica né

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giuridica. Le donne non sono soggetti di diritto e rimangono in una situazione di dipendenza rispetto alla famiglia di appartenenza, in particolare rispetto al padre o al marito. Questo momento di passaggio dalla concezione dell’individuo da suddito a cittadino ha una portata talmente rivoluzionaria che deve essere in qualche modo “controbilanciata”; come se all’emancipazione dell’uomo si contrapponesse un’inversione di tendenza per il genere femminile, rimasto relegato alla posizione di subordinazione. Il ruolo della donna è circoscritto per lungo tempo nell’ambito della famiglia ed anche quando questa riuscirà ad acquisire i suoi diritti soprattutto a livello politico o sociale, dovrà fare i conti con il modello creato dall’uomo, come nel caso del modello di cittadinanza così costruito dal genere maschile. E’ una disparità di trattamento che, diversamente da altre forme di discriminazione, non poteva essere soppressa perché la donna non aveva la possibilità, anche nel corso di una vita intera, di mutare la sua collocazione sociale (a differenza di un nullatenente o di un analfabeta).

3.1 I primi riconoscimenti a favore dell’indipendenza della donna rispetto al