• Non ci sono risultati.

La disponibilità della prova e l'intervento ex officio del giudice: come si conciliano?

La stagione del riformismo processuale

3.2 La disponibilità della prova e l'intervento ex officio del giudice: come si conciliano?

All'interno dell'iter processualpenalistico italiano vige il principio della divisione della conoscenza, in virtù del quale l'organo giudicante perviene alla decisione finale dopo aver assistito alla formazione dialettica dell'elemento probatorio sul quale andrà a fondare il proprio convincimento. A far da protagoniste in questa vicenda formativa sono le parti che, con il rispettivo apporto gnoseologico, contribuiscono sia a delineare il thema probandum, sia a selezionare gli strumenti che serviranno alla sua verifica. Fondamentale al riguardo si pone la differenziazione di ruoli che si è venuta a creare sotto la spinta riformistica del 1988, la quale ha portato alla creazione di due distinte figure di magistrato, l'una che ricopre le funzioni di pubblica accusa e l'altra finalizzata invece ad "accertare se sia vero o no l'assunto di

colpevolezza"13.

La separazione delle due funzioni è volta a salvaguardare l'imparazialità dello ius dicere finale e tale obiettivo è realizzabile solo attraverso l'inibizione del potere del giudice di fissare l'oggetto della decisione, poichè "le differenti prospettazioni di accusa e difesa

devono presentarsi, in partenza, con il medesimo grado di persuasività e plausibilità"14. Per non compromettere la neutralità con la quale

l'organo giudicante dovrà approcciare la vicenda, gli viene inoltre fatto divieto di porre in essere modifiche sul petitum partium integrandolo con propri enunciati fattuali, ciò per evitare che egli vada a costruire diverse e nuove ipotesi sul fatto da verificare, intaccando

13 R. Kostoris, (voce) Giudizio, (dir. Proc. Pen.), Enc. Giur. Treccani, XV, 1997 p. 8 14 M. L. Di Bitonto, Profili dispositivi dell'accertamento penale, Torino, G.

inevitabilmente la porpria posizione di equidistanza verso le pretese, rispettivamente punitiva e difensiva delle parti.

Il fulcro del principio dispositivo si esplica quindi nella possibilità per il giudice di esercitare i propri poteri conoscitivi all'interno dei confini posti dalle prospettazioni formulate e rappresentate dai contraddittori. All'interno di tale principio, frutto dell'elaborazione dottrinale, si rinviene la volontà di tutelare in modo netto l'autonomia dell'organo giudicante grazie all'individuazione del monopolio di parte sugli strumenti di accertamento, nel caso di specie si va a concretizzare appunto nella piena disponibilità della prova in capo ad accusa e difesa. Tale principio, in apparenza inflessibile, viene ad essere mitigato dalla previsione che rende possibile al giudice un suo intervento d'ufficio, sempre che questo risulti però caratterizzato dall'eccezionalità e dalla residualità rispetto all'operato di parte.

Il potere dell'organo giudicante assume un'ulteriore sfaccettatura, ovvero quella di esercitare un controllo sulla corretta osservanza delle disposizioni che regolamentano la genuina formazione del convincimento: egli infatti immette nella dinamica processuale gli elementi reputati utili dalle parti per sostenere le proprie asserzioni fattuali, ma trova un'attiva concretizzazione in particolare nei casi in cui l'elemento probatorio sia inserito nella vicenda, tramite metodologie non prescritte dal Legislatore, attuando in questo senso un controllo di vera e propria garanzia volto a fermare gli "abusi e le

prevaricazioni di parte"15 nella formazione della prova.

L'intervento di controllo sullo svolgimento dell'iter di formazione della prova in conformità alle regole, determina un'inevitabile compressione della disponibilità della prova in capo alle parti, le quali vedono il proprio diritto assumere una posizione non più considerabile in termini

di piena esclusività, dato che anche il giudice potrà in questo frangente porre in essere delle inziative istruttorie officiose tese ad ottenere un quadro completo nell'accertamento dei fatti. Tale compensazione del principio di disponibiltà della prova in capo alle parti assurge alla funzione di reale perseguimento di giustizia sostanziale, in quanto l'organo giudicante deve agire in veste di garante per il conseguimento della verità processuale, evitando di sottostare alle decisioni delle parti che potrebbero anche eventualmente accordarsi per non introdurre nel procedimento elementi che potrebbero invece essere indispensabili per una genuina decisione finale.

L'intervento del giudice non dovrà mai qualificarsi come

"autoreferenziale"16, ma dovrà delinearsi all'interno del solco del

potere di cui dispongono le parti, muovendosi in un ottica di piena sussidiarietà rispetto ad esso. L'attività dell'organo giudicante necessiterà quindi sempre di un bilanciamento da parte di accusa e difesa, le quali dovranno sempre essere messe in condizione di realizzare il contraddittorio sia "sulla" che "per la prova", potendo quindi accedere all'attuazione effettiva del contraddittorio con la deduzione di prove a discarico rispetto a quelle raccolte dal giudice nell'esercizio delle sue prerogative.

Tale impostazione rende visibile il netto cambiamento portato dalla legge delega n. 81 dell'87 nel nostro ordinamento, concretizzatosi appunto nell'abbandono della figura del giudice-dominus della prova, emblema della vecchia impostazione inqusitoria. Nel nuovo contesto, dalle radici prettamente accusatorie, i pilastri del diritto alla prova affondano nella "teoria dialettica della verità"17 in cui si esalta come la

verità sia frutto dell'incontro-scontro tra il portato gnoseologico delle

parti di fronte al quale andrà a porsi in posizione neutrale ed equidistante il giudice, destinatario dell'attività istruttoria degli antagonisti e allo stesso tempo garante giurisdizionale del procedimento di formazione della prova e di ricostruzione del fatto. La prospettiva appena descritta ci porta a constatare come il processo penale italiano sia di fatto scisso in due fasi, le quali hanno subito una sorta di vera e propria "impermeabilizzazione": una fase procedimentale in cui tramite l'attività investigativa delle parti18 si

assiste alla raccolta di elementi a sostegno delle rispettive asserzioni fattuali di accusa e difesa e una successiva fase dibattimentale di vera e propria formazione delle risultanze probatorie. Quest'ultima si presenta come epilogo del procedimento probatorio, in cui il giudice torna ad essere protagonista, dovendo egli valutare, in ossequio al principio del libero convincimento, l'apporto conoscitivo introdotto dalle parti nella vicenda processuale.

L'art. 190 c.p.p. risulta essere l'emblema dell'"autarchia cognitiva

della fase del giudizio"19 poichè esso riconosce in capo a pubblico

ministero e difesa la possibilità di immettere nel procedimento quegli elementi che essi stessi pongono a sostegno dei rispettivi petita, pur che superino il vaglio di rilevanza e non mansifesta superfluità, e utilizza quanto reperito da tale fase per delimitare l'area entro cui il magistrato potrà esercitare il proprio potere. L'iniziativa probatoria di cui godono le parti svolgerebbe quindi la funzione di rimarcare la netta separazione rispetto al munus del giudice, il quale in questo modo riuscirebbe a conservare la propria estraneità, in ossequio anche a

18 Si allude all'attività connaturata alla figura della pubblica accusa e a quella di recente creazione inerente alle "Attività investigative del difensore" ex art. 327-

bis, che permette alla Difesa di fornire al pubblico ministero elementi reputati

necessari per la fissazione del thema su cui si impernierà il confronto dibattimentale.

quanto sancito nelle previsioni contenute nell'art. 34 c.p.p., le quali dettano l'impossibilità di conciliare la funzione decisoria con ogni altra attività che abbia potuto determinare, nelle fasi precedenti, la formazione di qualsivoglia convincimento sulla res iudicanda.

Il giudice si riappropria della possibilità di esercizio delle proprie prergoative in ambito probatorio solo per ponderare la prevalenza delle affermazioni sull'oggetto del giudizio effettuate dalle parti, determinando in questo modo una totale inversione di tendenza rispetto al modello processuale in cui l'acquisizione della prova si innestava sul principio dell'autorità del magistrato-investigatore, con l'intento in questo senso, di recidere gli "atavici legami di filiazione dalla vecchia

ibrida figura dell'"inquisitore"20.

Ecco che l'iniziativa istruttoria del giudice viene ad essere collocata in una categoria residuale di intervento, disciplinata tassativamente dal Legislatore, il quale individua nella rubrica dell'art. 190 c.p.p. "Diritto alla prova" un diritto che sia effettivamente esercitabile da tutte le parti del processo e che si esplichi non solo nella possibilità di ammettere un elemento ritenuto necessario ai fini dell'elaborazione di un quadro probatorio completo, ma che permetta anche di espletare su di esso un genuino contraddittorio. Detto ciò l'organo giurisdizionale appare quindi in grado a sua volta di introdurre rispondenze probatorie secondo quanto esplicitato nel secondo comma dell'art. 190 c.p.p., esercitando allo stesso tempo un potere di garanzia e controllo sull'ammissibilità delle istanze istruttorie presentate dalle parti. Quanto previsto ex art. 190 comma 2 c.p.p., pur relegando l'intervento officioso dell'organo giudicante ad un potere sussidiario e residuale, determina uno scollamento del sistema processualpenalistico italiano

20 M. Nobili, Il "diritto delle prove" ed un rinnovato concetto di prova, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da M. Chiavario, II

rispetto al modello accusatorio a cui si ispirò la riforma codicistica del 1988, in quanto il magistrato in questo caso si spoglia della tipica veste di spettatore passivo, peculiare del Judge anglosassone.

Ulteriore distacco dal sistema adversary effettuato nelle scelte del nostro Legislatore si ha con l'esclusione dall'ordinamento della previsione di un potere di disposizione dell'oggetto del processo in capo alle parti: un'orientamento dal quale si desume la ferrea volontà di "conservare il carattere di indisponibilità della pretesa punitiva

dello Stato"21 in ossequio ai principi di legalità enunciati nell'art. 25

comma 2 Cost. e nell'art. 112 Cost.. Tale presa di posizione è dettata dal fatto che l'oggetto della decisione, all'interno di un procedimento, verte pur sempre sulla responsabilità penale di un soggetto, che dovrà essere accertata in virtù delle risultanze probatorie formatesi, le quali andrebbero ad incidere direttamente o indirettamente sul diritto alla libertà personale, di per sè indisponibile e quindi impossibilitato a sottostare all'esclusivo dominio delle parti.

Un processo in cui la prova sia totalmente a pannaggio delle parti potrebbe determinare delle devianze nel naturale corso della giustizia, la quale verrebbe ad essere negata dall'ostruzionsimo delle parti medesime di fronte a determinati elementi probatori indesiderati: per questo motivo si è cercato di bilanciare l'assolutezza del principio dispositivo ritagliando all'organo giudicante un autonomo potere di iniziativa, che vada ad incidere sulle prerogative delle parti con istituti come quello previsto dall'art. 507 c.p.p.. Esso consente al giudice la facoltà di andare ad integrare quanto introdotto in precedenza da accusa e difesa: si tratta infatti di una competenza che assume il carattere di intervento successivo, collocandosi temporalmente al momento in cui sia "[t]erminata l'acquisizione delle prove" e nel caso

in cui sia superato un vaglio di assoluta necessità.

Dal contesto appena delineato si desume come tale intervento previsto dall'art. 507 c.p.p. non vada di fatto ad intaccare la sequenza di formazione della prova che prevede l'iniziativa di parte, ma si collochi all'interno dell'ambito di quanto scaturito dalla dialettica di accusa e difesa, in ossequio al principio del contraddittorio, di cui si richiede un'onnipresenza funzionale atta a corroborare le risultanze probatorie che ne scaturiscono.

3.3 L'art. 507 c.p.p.: il perimetro dell'intervento ope