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I poteri istruttori del giudice dibattimentale, fra retaggi inquisitori e ricerca della verita'.

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Ai miei genitori e a me

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Indice

Introduzione...p.1 CAPITOLO I

1 "Modelli processuali: lo specchio dello stato"

1.1 Il "Magistrato-Investigatore"alla ricerca della verità...p.5 1.1.1 Cosa si intende per verità processuale?...p.9 1.2 Dalla "Preuve morale" al recupero della tassatività post Riforma

1988...p.13 1.3 Una rivoluzione giusnaturalistica: l'art. 111 Cost...p.18

1.3.1 Giusto processo, Procés equitable e Fair Trial: uno sguardo ai tre modelli...p.22 1.4 Modello accusatorio e inquisitorio: significato "emotivo" e

tecnico-giuridico...p.27 1.4.1 L'ibrido italiano dell'"accusatorio all'europea" in ambito

probatorio...p.31 CAPITOLO II

2 "La stagione del riformismo processuale"

2.1 Dalla prima legge delega del '74 al "progetto preliminare": nuovi confini del potere istruttorio...p.35 2.2 La legge delega n. 81 del 1987: obiettivi primari e linee

guida...p.41 2.2.1 L'adeguamento alle fonti sovranazionali...p.47 2.3 Quadro costituzionale: il giudice "terzo ed imparziale" nell'art 111

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2.3.1 Imparzialità del giudice: una garanzia fondamentale della

persona...p.55 CAPITOLO III

3 "Giudice, parti e prove nel nuovo Codice di Procedura Penale"

3.1 "Diritto alla prova": epicentro del sistema processuale...p.61 3.1.1 L'art 190 c.p.p. e il suo background normativo...p.66 3.2 La disponibilità della prova e l'intervento ex officio del giudice: come si

conciliano?...p.69 3.3 L'art. 507 c.p.p.: il perimetro dell'iniziativa ope iudicis...p.76 3.4 Criteri per l'ammissione della prova ex officio...p.86 3.5 La recente pronuncia n. 73 del 2010 della Corte

Costituzionale...p.96 3.6 L'art. 507 c.p.p. rispetto al diritto alla controprova e al

contraddittorio...p.105 3.7 Profili di conciliazione fra intervento del giudice ex art 507 c.p.p e

imparzialità...p.108 3.8 Il comma 1-bis dell'art 507 c.p.p...p.112 CAPITOLO IV

4 "Il particolare caso della giurisdizione penale minorile"

4.1 I principi ispiratori del d.P.R. n. 448/1988 : verso un processo penale a "misura di ragazzo"...p.116 4.2 Il principio di individualizzazione...p.121

4.2.1 Art. 9 d.P.R. 448/1988: acquisizione del patrimonio probatorio

utilizzabile dal giudice...p.124 4.3 Incompatibilità del giudice per le indagini preliminari...p.130 4.4 L'intervento "tutorio" dell'organo super partes: un'imparzialità

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Conclusioni...p.139 Bibliografia...p.148 Ringraziamenti...p.151

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Introduzione

L'idea per questo progetto di tesi nasce da un'attenta analisi dell'articolo 507 c.p.p. rubricato "Ammissione di nuove prove" e delle innumerevoli implicazioni che la sua applicazione concreta nel sistema processualpenalistico italiano ha comportato. L'istituto contenuto all'interno dell'articolo concerne l'iniziativa probatoria del giudice laddove egli ritenga che risulti "assolutamente necessario": ma cosa si intende esprimere con questo criterio, che funge da vaglio di legittimazione, per l'intervento giudiziale? E come può, tale intervento, conciliarsi con la struttura del nostro processo penale in cui la prova risulta essere non solo "epicentro" del procedimento, ma anche sottoposta ad un regime di disponibilità per le parti?

Questi solo alcuni dei quesiti che verranno affrontati, ma per riuscire al meglio a capire quale è stata l'evoluzione interpretativa di questo istituto nel panorama giurisprudenziale italiano è necessario scavare a fondo e tornare a quelle radici storico-culturali che ci contraddistinguono e di cui il nostro ordinamento ha provato a spogliarsi per allinearsi ai sistemi anglo-americani di Common Law, diventati modello preponderante ed ispiratore non solo per l'Italia, ma anche per Francia e Germania. Sarà grazie a questo iniziale sguardo comparatistico che si potrà enucleare il progressivo abbandono della figura del "giudice-investigatore" da parte del nostro ordinamento, a favore dell'instaurarsi di una figura di Giudice le cui caratteristiche portanti dovranno essere ispirate ai principi di "imparzialità" e "terzietà". Questa vera e propria svolta dell'impianto processualpenalistico non è stata frutto di una rottura repentina col passato, bensì di una lunga elaborazione nata col "Preambolo" del 1974 e terminata con la Legge Delega n. 81 del 1987: di questa lenta rivoluzione normativa verranno ripercorse le tappe fondamentali,

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soffermando l'attenzione sulle linee-guida dei vari progetti e gli obiettivi che la svolta riformistica si prefiggeva di realizzare.

Il Legislatore di quegli anni ha infatti dato luogo ad una vera e propria rivoluzione strutturale che ha visto l'Italia sdradicata da quell'impianto inquisitorio, che da sempre aveva caratterizzato le maglie del suo processo penale, per farla approdare ad un sistema di stampo accusatorio, proprio dei paesi di Common Law, in cui il Giudice non è più teso alla spasmodica "ricerca della verità" ma alla ricorstruzione del "vero fattuale" imperniato sulle prove, le quali sono frutto di una dialettica che si sviluppa in sede processuale fra Accusa e Imputato. Dall'analisi di questa importantissima evoluzione procedimentale si rinviene però un'ineludibile involuzione del nostro sistema, che non riesce a staccarsi del tutto da quel background normativo e culturale che ne determina la formazione e che darà origine al cosiddetto ibrido dell'"accusatoria all'europea".

Da questa ampia trattazione dei punti nevralgici che hanno portato al processo penale così come oggi lo si conosce si potrà meglio inquadrare il "diritto alla prova" esplicitato nell'art. 190 c.p.p. e allo stesso tempo comprendere la portata dell'art 507 c.p.p., conducendone peraltro un'esegesi giurisprudenziale che vedrà protagoniste la Suprema Corte e la Corte Costituzionale nelle rispettive pronunce Cass. Sez Un., 6 novembre 1992, e Corte Cost. 26 marzo 1993, fino alla recente pronuncia n. 73 del 2010, sempre ad opera del giudice delle leggi.

Per rendere completo il quadro dell'applicazione dell'art. 507 c.p.p. ne verranno analizzate le implicazioni rispetto al diritto alla controprova e al principio del contraddittorio, fulcro dell'impianto accusatorio del nuovo processo penale in cui la "prova" (che ancora prova non è), deve appunto risultare corroborata da uno scontro dialettico fra le parti per poter essere innalzata al rango di vera e propria prova. Come si

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concilia questo aspetto con l'intervento "integrativo" dell'organo giudicante?

L'analisi procederà cercando di spiegare come si sia riusciti a salvaguardare l'imparzialità di un giudice che abbandona la sua posizione di apice in un'immaginario triangolo "giudice – imputato – accusa", per introdurre egli stesso elementi probatori ritenuti necessari al fine di formulare una "giusta decisione". Il giudice che torna a "sporcarsi le mani" con le prove invece di rimanere un passivo spettatore della dialettica delle parti, non è forse questo un retaggio del fin troppo recente passato inquisitorio?

Rapida digressione verrà condotta sulla novella apportata dall'art. 42, della l. 16 dicembre 1999, n. 479: il comma 1-bis dell'art 507 c.p.p inquadrato come correttivo, un vero e proprio "nuovo corso" del rapporto fra imparzialità ed esercizio dei poteri giudiziali, in base a cui l'organo giudicante potrà utilizzare, per fondare la sua decisione finale, gli apporti probatori consensualmente stabiliti dalle parti e quanto egli ha già conosciuto negli "atti acquisiti al fascicolo per il dibattimento". Infine, per rendere più esaustiva la trattazione dell'argomento, verrà affrontata, in termini di comparazione, la tematica del "caso a parte" della Giustizia Minorile, un mondo a sé stante in cui i principi costituzionali ispiratori tendono ad essere molto più incisivi e concretizzati per rendere tangibile la tanto agognata finalità, in questo caso educativa. Nello specifico si farà riferimento all'intervento cosiddetto "tutorio" dell'organo giudicante, che in ambito probatorio verrà contaminato dal copioso apporto di informazioni sull'imputato minore, utili a prendere cognizione non solo del fatto commesso, ma anche della persona che c'è dietro e di tutte le implicazioni psicologiche necessarie per avere un quadro completo che gli permetta di prendere una decisione atta al recupero del giovane. In questo frangente si assiste quindi ad una pressochè totale commistione dei

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ruoli fra "giudice – investigatore" e organo giudicante, perdendo all'apparenza la caratteristica che contraddistingue l'operato del Magistrato: l'imparzialità, la quale in questo caso viene "plasmata" all'esigenza di un procedimento penale fortemente teso alla realizzazione della finalità rieducativa.

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Capitolo I

Modelli processuali: lo "specchio dello stato"

SOMMARIO: 1.1 Il "Magistato-Investigatore" alla ricerca della verità -1.1.1 Cosa si intende per verità processuale -1.2 Dalla "preuve morale" al recupero della tassatività post Riforma 1988 -1.3 Una rivoluzione giusnaturalistica: l'art. 111 Cost. -1.3.1 Giusto processo, Procés équitable e Fair trial: uno sguardo ai tre modelli -1.4 Modello accusatorio e inquisitorio: significato "emotivo" e tecnico-giuridico -1.4.1 L'ibrido italiano dell'"accusatorio all'europea" in ambito probatorio.

1.1 Il "Magistrato-Investigatore" alla ricerca della verità

Per riuscire ad inquadrare la figura del "Magistrato-Investigatore" propria del quadro processualpenalistico dell'Europa continentale del XIX secolo è necessario effettuare un'excursus delle linee guida del modello processuale che prese le mosse dal celeberrimo "Code

d'instruction criminelle" del 1808: il cosiddetto modello Napoleonico.

Tale impianto strutturale ispirò il primo codice di procedura penale dell'Italia post unitaria varato nel 1865: esso risulta essere un testo, prima di tutto imperniato sullo scheletro della precedente codificazione piemontese del 1859; in secondo luogo in esso è facile scorgere i due nuclei che contraddistingono la sua ibrida essenza, ovvero il modello inquisitorio mutuato dall'esperienza francese e l'accusatorio d'ispirazione anglosassone, ma pervenuto solo in seguito all'affermarsi dei principi propri della Rivoluzione Francese. La natura mista del modello Napoleonico, ispiratore dei vari ordinamenti ottocenteschi, si traduce di fatto in una struttura bifasica del processo che consta quindi di un momento propriamente "istruttorio" in cui si tende alla "difesa

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della società dal delitto"1 e la fase dibattimentale, in cui invece tutto

ruota attorno alla tutela dell'imputato e alle garanzie di cui esso gode per difendersi dalle accuse che gli vengono rivolte. Tale dicotomia intrinseca si pone come ostacolo alla formazione di un diritto delle prove legali assimilabile alla Law of evidence inglese e lascia spazio invece alla strenua ricerca della verità materiale, che affonda le radici nel sistema di stampo inquisitorio, di cui il Giudice penale è il sommo protagonista e risulta essere naturalmente dotato di una supremazia conoscitiva propria esclusivamente del rito penale e non riscontrabile con la stessa forza nel rito civile. E' il processo penale appunto ad essere innalzato a sede naturale dell'accertamento della verità ed è proprio da questo assunto che scaturisce il dovere di iniziativa officiosa del giudice nell'acquisizione della prova, dovere che però rischia concretamente di debordare in uno "stra-potere", posto che l'organo giudicante è il dominus assoluto dell'indagine conoscitiva e la sua ricerca spasmodica non trova nella fisionomia giudiziaria dell'Ottocento alcun perimetro, spingendosi ben oltre il confine della domanda dell'accusatore. Questa impostazione in cui l'esigenza investigativa è piegata alla scoperta del Vero crea una degenerazione del rapporto "giudice – prove" inquadrabile come chiaro precipitato del rito inquisitorio dell'Ancien Régime.

La figura di Giudice, fin qui delineata, risponde all'identikit del "Magistrato – Investigatore" che altro non è che il meglio conosciuto, in termini tecnici, Giudice Istruttore, qualificato ex art. 56 del vecchio Codice di Procedura Penale del 1865 come "ufficiale di polizia

giudiziaria", direttamente posto alle dipendenze del Pubblico

Ministero, la cui mansione enunciata ex art. 84 c. 2 c.p.p. 1865, è

1 E. Amodio,"Dalla intime convinction alla legalità della prova" Testo della relazione svolta oralmente al Convegno "Il diritto delle prove penali dall'Unità d'Italia alla Costituzione Repubblicana, 2011

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quella di "raccogliere tutti i mezzi di prova che gli si presenteranno nel

corso della istruzione", ma soprattutto, quella che enuclea visibilmente

il fine proprio di un procedimento penale fortemente contaminato dal "germe inquisitorio" ovvero "fare tutte quelle indagini che possono

condurre all'accertamento della verità". Il presidente risulta quindi

investito di un "potere discrezionale" con il quale conduce la fase dibattimentale ponendo in essere "quanto egli stim[a]i utile a scoprire

la verità": egli gode in pratica di un mandato in bianco da parte del

Legislatore che confida ciecamente nelle valutazioni di opportunità che egli riterrà necessario attuare, lasciando "al suo onore e alla sua

coscienza"2 un carattere decisivo. Altro potere dal quale è facile

desumere l'estrema libertà di cui il giudice penale goda è quello previsto a norma dell'art 479 del Vecchio Codice di Procedura penale, in cui prevedendosi una deroga a forme prescritte a pena di nullità, si permette al giudice di assumere le deposizioni di testimoni e periti anche senza che questi abbiano prestato giuramento, pena la sola degradazione delle dichiarazioni assunte a "semiplena probatio", insufficiente di certo in un sistema di valutazione della prova imperniato sul libero convincimento. Questi i tratti distintivi che si discostano fortemente dai principi oggi incarnati dall'organo giudicante, improntato ad un indice di imparzialità necessaria per garantire l'equidistanza del Giudice dalle pretese, rispettivamente punitiva e difensiva, di Pubbica Accusa ed Imputato.

Il "Magistrato-Investigatore" dell'Europa continentale, si è quindi gradualmente avviato verso il tramonto della sua egemonia nel processo penale, tale inarrestabile crisi è dettata dalla strenua ricerca di un'imparzialità dell'organo giudicante che, per sua natura, non alberga nella figura del giudice istruttore delineata all'interno del modello

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Napoleonico. Essa infatti non riesce a garantire l'esistenza di una sorta di membrana impermeabile fra la fase istruttoria e quella dibattimentale, momento processuale al quale si dovrebbe pervenire senza intaccare la cosidetta "Virgin-mind" del giudice, la quale se realmente scevra da pregiudizi e non inficiata dagli apporti probatori provenienti da un'onnivora fase istruttoria, potrebbe pervenire ad una decisione finale giusta, o quantomeno elaborata all'interno di un procedimento equilibrato ed ispirata al principio di parità delle parti.

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1.1.1 Cosa si intende per verità processuale?

Circa il concetto di verità possiamo affermare in modo pacifico che essa sia il fulcro della ricerca attuata dall'organo giudicante nell'avvicendarsi delle fasi processuali del procedimento penale, ma nel corso della storia si è potuto assistere ad una vera e propria degradazione del valore di Verità, che per quanto concernerebbe l'ambito processuale si dovrebbe indicare con "l'iniziale minuscola"3.

Questa impostazione affonderebbe le proprie radici nella constatazione che nel processo penale la verità che viene ad essere perseguita "non

pretende di essere la verità"4, ma apparirebbe visibilmente "più

ridotta" rispetto all'apporto informativo desumibile da qualsivoglia verità sostanziale: questo avverrebbe in quanto la verità cui si cerca di pervenire all'interno di un procedimento penale risulta "imbrigliata" all'interno di una rete di tecniche prestabilite per legge, ad esempio i limiti di tempo e di prova, che altri "ricostruttori" di verità come gli storici non dovrebbero rispettare potendo peraltro avvalersi di un iter conoscitivo completo che utilizzi "tutti i mezzi materialmente

disponibili"5.

Ciò che si riscontra adottando uno sguardo d'insieme rispetto alla categoria della "Verità" è una sorta di Veriphobia cioè una patologica diffidenza dei processualisti penali circa la ricerca della verità, riscontrabile in vari punti dell'attuale codice di procedura penale

3 F. Caprioli,"Verità e giustificazione nel processo penale" Testo della relazione svolta nell'ambito del Convegno "Verità del precetto e della sanzione penale alla prova del processo", Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 22 giugno 2012, p. 19

4 L. Ferrajoli, "Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale", Laterza, 1991, p. 17

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italiano, dai quali si desume implicitamente come il Legislatore attui un richiamo accostabile per lo più ad un dovere di sincerità imcombente ad esempio sul testimone che rende una dichiarazione o sul perito che pone le sue conoscenze tecniche a disposizione per una corretta ricostruzione dei fatti. L'abolizione di qualsiasi richiamo codicistico attinente la ricerca della verità da parte del giudice, autorizzato a porre in essere tutti gli atti che egli avesse ritenuto necessari a tale scopo, favorisce il netto distacco dalla tradizione precedente alla riforma del 1988, in cui l'impostazione inquisitoria aveva posto in primo piano la "ricerca della verità materiale", plasmando su tale principio l'intero sistema probatorio6. Con analogo

atteggiamento si pone al riguardo la giurisprudenza della Corte Costituzionale che, dopo un'iniziale involuzione implicitamente racchiusa nell'individuazione della ricerca della verità come "fine

primario ed ineludibile del processo"7, ritorna su di un'impostazione in

cui il processo esaurirebbe il proprio scopo nell'"accertamento

giudiziale dei fatti di reato e delle relative responsabilità"8.

Ma cerchiamo di capire perchè la verità perseguita all'interno di un procedimento penale non debba esser qualificata come categoria deteriore rispetto alla verità ricostruita dallo storico. Quando il giudice dichiara nella propria sentenza che l'imputato è responsabile del fatto, egli non fa altro che affermare la verità dell'enunciato fattuale contenuto nell'imputazione posta a carico del soggetto. Se il giudice, durante l'iter logico che lo dovrebbe condurre alla fromulazione della sentenza, si trovasse davanti a falle argomentative tali da poter dichiarare alla fine che "il fatto non sussiste" o che l'imputato "non lo

6 Cfr. E. Amodio, Verso una storia della giustizia penale in erà moderna e contemporanea, in Criminalia, 2010, p. 13

7 sic Corte costituzionale 3 giugno 1992, n. 255 8 sic Corte costituzionale 2 novembre 1998, n. 361

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ha commesso", egli risulterebbe senza dubbio autorizzato ad

argomentare ad ignorantiam, o meglio a mentire9. Per ciò la tanto

agognata ricerca del vero, in realtà, si riduce al dovere posto in capo all'organo giudicante di dimostrare la genuinità dell'assunto che concerne la colpabilità: egli "positivamente dee dimostrar[si]e la reità

del giudicabile"10.

All'interno del procedimento penale vi sono molti istituti che per loro natura tenderebbero a rendere l'intero percorso conoscitivo non finalizzato alla ricerca del vero, come la rosa di rigide regole formalistiche quali i tempi da rispettare, le preclusioni o le decadenze, che soprattutto in ambito probatorio mettono a dura prova la ricostruzione di un quadro fattuale coerente e lineare: ad esempio in un processo si avrebbe l'esclusione di una prova frutto di un'intercettazione poichè non autorizzata o compiuta fuori dal termine, la stessa fonte per contro potrebbe essere pienamente utilizzata nell'attività ricostruttiva di un giornalista. Ma nonostante questo appartente divario fra le due modalità conoscitive, la verità processuale non può dirsi deteriore rispetto a quella dello storico poichè il rigido formalismo dell'assunzione probatoria è comunque piegato all'accertamento dell'innocenza dell'imputato tramite l'introduzione di norme che permettono deroghe alla regola "nel caso in cui dalla

risultanza che dovrebbe essere ammessa emergano illazioni favorevoli alla difesa"11.

Ecco che potremo riassumere il tutto in una frase di Francesco Carrara secondo il quale "l'accertamento dell'innocenza è una posta troppo

importante per essere sacrificata agli idoli della procedura" da cui si

può desumere come per pervenire alla pronuncia di condanna il

9 F. Caprioli, op. cit., p. 21

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giudice debba essere in possesso di "verità formale e verità sostanziale della colpevolezza" ed esse debbano necessariamente coincidere.

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1.2 Dalla "Preuve morale" al recupero della tassatività

post Riforma del 1988

Dalla disamina effettuata nei paragrafi precedenti sulla "voracità" probatoria del giudice istruttore si può introdurre un altro aspetto del profilo probatorio, fondamentale per comprendere al meglio la chiave di lettura dei principi ispiratori che caratterizzeranno il processo penale dell'età moderna: il libero convincimento. Questo prende le mosse oltralpe dal dibattito dell'Assemblea Costituiente francese che in pieno clima rivoluzionario aveva recepito l'isituto tipico del modello processuale di Common Law, ovvero la jury da cui scaturisce appunto l'omonimo jury trial, processo nel quale l'imputato viene giudicato da un collegio di pari per mezzo di un verdetto che parrebbe esprimere, quasi in senso oracolare, il sentire comune dei giudicanti, in un certo senso una sorta di infallibile vox populi. I fautori della decisione finale, espressione di giustizia, sono dei comuni cittadini estratti a sorte, che a prescindere da una qualsiasi preparazione giuridica si esprimono sui fatti loro presentati e poggiano il loro convincimento sul proprio buonsenso. Questa decisione scaturente da una pulsione emotiva si poneva agli antipodi rispetto al fulcro di un sistema processualpenalistico che fino a quel momento aveva costruito le fondamenta della sentenza sull'esistenza di un'antecedente logico necessario quale le prove legali.

L'infiltrazione subita dal classico modello inquisitorio francese in epoca rivoluzionaria portò ad un travisamento totale dei principi ispiratori del jury trial, questi infatti mal attecchirono in un retroterra normativo in cui si era rimasti da sempre saldamente ancorati al sistema delle prove legali; per contro in Inghilterra, la giuria aveva trovato una patria naturale, poichè sviluppatasi in un contesto filosofico guiridico nel quale si era razionalmente pervenuti alla

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genuinità del verdetto finale, non in quanto sorretto da un mero imput emozionale (e quindi del tutto irrazionale), come mal interpretato dagli Illuministi, ma poichè fondato sul concetto di common sense enucleato nella teoria dell'empirismo di Locke, che sulla base dei concetti di

observation, experience ed experiment12 veniva innalzato a criterio di

discernimento utile a soddisfare l'esigenza di accertamento della verità secondo ragione13.

Il progressivo diffondersi della preuve morale nel coacervo rivoluzionario francese portò quindi alla soppressione di qualsivoglia nesso logico e giuridico fra la prova e la persuasione del giudicante, spostando così il baricentro dell'opera di convincimento dal valore intriseco dell'elemento probatorio a "quel che suscita nella coscienza

del giudice non togato"14, che in tal modo viene automaticamente a

porsi, col suo potere decisionale, "au dessous de la loi humaine"15.

Il quadro processuale appena dipinto è un palese riflesso dell'interpretazione in chiave prettamente "romantica" del modello anglosassone da parte dei philosophes, i quali abbagliati dall'apparentemente impeccabile funzionamento del jury trial in Inghilterra, pretendono che esso attecchisca, in termini di efficienza funzionale, anche nella loro patria, da sempre imperniata su di un sistema decisorio che poneva al centro le prove e la disamina giuridica condotta su di esse da parte di un corpus di tecnici, quali la Magistratura e non la mera suggestione che esse implicano nel giurato non togato. Tale impostazione determina una progressiva espunzione delle prove legali dall'ambito legislativo in quanto, se astrattamente considerate, non vengono ritenute determinanti nell'esito della

12 W. Twining, Theories of evidence: Bentham and Wigmore, 1985, p. 52 13 W. Twining, op. cit., p. 16

14 E. Amodio, op. cit., p. 26

15 C. Perelman, Ethique et droit, Editions de l'Université libre de Bruxelles, 1998, p. 172

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decisione finale, bensì esse possono essere considerate un mezzo per determinare lo "scoccare della scintilla della verità" nell'animo del giurato.

La visione romantica della intime convinction unita al principio della spasmodica ricerca della verità materiale ha portato ad un'inevitabile degenerazione del sistema di ricerca della prova, il quale è passato dal non detenere vincoli nella valutazione di essa ad una esasperata libertà di acquisizione di essa, come se il libero convincimento fosse diventato un vero e proprio "lasciapassare capace di rendere utilizzabile

qualsiasi elemento idoneo ad offrire argomenti"16 utili alla

ricostruzione del fatto storico, contravvenendo in modo vistoso alle forme ormai superate del vecchio modus procedendi.

A livello comparatistico è possibile accorgersi di come il principio del libero convincimento abbia contaminato i vari ordinamenti, sia pur con sfumature diverse: per prima la Francia che lo ha chiaramente assorbito nel suo Code de l'instruction criminelle del 1808, arrivando a concepire la motivazione della sentenza in fatto come pura e semplice esposizione di ciò che è stato accertato17; in secondo luogo possiamo

rinvenire un fenomeno non dissimile nella Strafprozessordnung tedesca del 1877 che ha ugualmente ridotto la parte concernente la motivazione ed il suo iter logico-giuridico ad una mera descrizione del risultato conseguente all'accertamento dei fatti.

Completando lo sguardo comparatistico, per quanto concerne l'Italia, possiamo affermare come questo vento rivoluzionario dell'intime convinction non sia riusciuto a spazzar via del tutto l'obbligo di motivazione, fortemente radicato dapprima nella cultura partenopea, all'interno della Prammatica Ferdinandea del 1774 e successivamente

16 E. Amodio, Libertà e legalità della prova nella disciplina della testimonianza, 1973, p. 317, così in E. Amodio, op. cit., p. 29

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recepita nel Codice di procedura penale della giovane Italia appena unita. Nonostante quindi la sregolatezza a cui si asisstette in ambito probatorio nel Novecento, culminata nella triste parentesi dell'autoritarismo fascista, in cui si superò ogni aspetattiva con un pressoché totale abbandono del garantismo processuale, si ebbe nel secondo dopoguerra un'involuzione dettata dalla necessità di riappropriarsi del terreno probatorio da tempo deserto, per reinserirlo all'interno di un perimetro legale ben delineato. Si arrivò quindi gradualmente alla costituzione di un vero e proprio diritto delle prove che nelle codificazioni europee del tempo aveva trovato spazio solo nella tradizione dell'adversary system, precisamente nella law of

evidence collocata su di un piano nettamente diverso dalle norme

processuali, attuando un vero e proprio recupero della razionalità del sistema che culminerà nell'elaborazione finale dell'attuale Codice di procedura penale italiano, in cui le prove godono di una rete di disposizioni che ne regolamentano le modalità di ammissione, assunzione e valutazione, enucleate nell'art. 191 del c.p.p.. Esse spezzano il legame col retaggio inquisitorio attraverso la sanzione di inutilizzabilità, che definitivamente travolge la portata concettuale del libero convicimento, ponendosi di fatto agli antipodi dell'infallibile arbitrio conoscitivo del Giudice. Per rendere ancora più netto il superamento dell'equivoco che scaturisce dalla irrazionale concezione del libero convincimento dell'organo giudicante, il Legislatore ha provveduto ad inserire nell'art 192 c.p.p. una formula per cui si attribuisce alla motivazione la valenza di mezzo per giustificare il legame fra la valutazione degli elementi probatori e la decisione finale contenuta nella sentenza che verrà emessa. Tramite queste innovazioni codicistiche che imbrigliano letteralmente le prove nella rete della tassatività si riesce ad abbandonare quella "pulsione romantica" del tutto irrazionale penetrata nei vari ordinamenti europei sotto forma di

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1.3 Una rivoluzione giusnaturalistica: l'art 111 Cost.

Per continuare a delineare le innovazioni giuridico-culturali con le quali il nostro ordinamento ha cercato di debellare definitivamente ogni retaggio del recente passato inquisitorio, è necessario soffermarsi sulla portata innovativa che ha comportato la modifica dell'art. 111 Cost. novellato con legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999. Soffermandosi sul primo comma di questo articolo, nella sua veste riformata, vediamo che esso sancisce che la "giurisdizione si attua

mediante il giusto processo regolato dalla legge". Ma qual è

l'accezione più corretta secondo cui interpretare l'aggettivo "giusto" in riferimento appunto al processo penale?

Di fatto l'attributo "giusto" sembrerebbe pleonastico, aggiungendo poco al sostantivo "processo" che immediatamente lo segue, poichè "ogni modello di processo è, per chi lo adotta, immancabilmente giusto"18. Ma la prospettiva appena illustata sembrerebbe impoverire la

portata di questa storica riforma, non considerando la ventata rivoluzionaria che si è avuta nel nostro sistema processualpenalistico grazie all'introduzione di secolari concetti come il fair trial e il due

process of law, rispettivamente di conio inglese ed americano, ma non

solo, ciò che preme sottolineare è infatti l'utilizzo, nella nuova formulazione della norma, di un lessico poco familiare ad orecchie avvezze ai vocaboli della legge positiva19. Il richiamo che viene

fortemente auspicato nel testo dell'art 111 Cost. è quello rivolto a valori etico-politici collocati ben al di sopra della legge così come posta dal Legislatore, si fa quindi riferimento a valori ricavabili dalla

18 P. Ferrua, Il processo penale dopo la riforma dell'art. 111 della Costituzione, in Questione giustizia, 2000, p. 50

19 Cfr. Amodio, Processo penale, diritto europeo e common law: dal rito inquisitorio al giusto processo, Milano, Giuffré, 2003, p. 133

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natura e dalla ragione secondo i dettami del giusnaturalismo. Ciò che il Legislatore ha cercato di comunicare, positivizzando tali principi, è che l'esercizio della iurisdictio nel nostro ordinamento va perpetrata all'interno di un perimetro di garanzie che, se violate, determinerebbero il superamento di quella soglia minima necessaria a definire la sequenza di atti in corso un "processo", atto ad accertare un fatto penalmente rilevante.

La grande innovazione normativa che nel 1999 ha inciso sull'art. 111 della nostra costituzione appare in tutta la sua peculiarità per la forza espansiva di cui intrinsecamente è dotata, essa infatti ha la capacità di estendersi su innumerevoli aspetti cardine all'interno della struttura di un procedimento penale, quali la terzietà e l'imparzialità dell'organo giudicante, il contraddittorio e la parità delle parti, o ancora il diritto alla prova e la ragionevole durata del processo. La copertura di tutti questi profili garantistici da parte dell'unico concetto di "giusto

processo" richiamerebbe una sorta di concezione legata alla natural justice20, per la quale questi diritti sarebbero connaturati all'imputato in

quanto essere umano ed in quanto tali inscindibili: essi infatti possono essere ricondotti sotto il "monolitico" principio di "giusto processo" in ossequio ad una concezione monistica, che impedirebbe il paradosso del crearsi di situazioni in cui si debba condurre un bilanciamento di interessi fra due principi che, se singolarmente considerati, potrebbero dare origine a conflitti applicativi.

La positivizzazione a cui si è potuto assistere con la novella del 1999 per quanto concerne il nostro sistema nazionale, è in realtà il frutto di un percorso che ha visto una precedente positivizzazione della natural

justice a livello sovranazionale nell'art. 6 della Convenzione europea

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diritti civili e politici, ma ciò che deve essere sottolineato riguardo alla scelta del Legislatore italiano è la grande forza precettiva di cui gode la nuova formula dell'art 111 Cost., che si rende effettiva sovrapponendosi nell'applicazione delle norme codicistiche concernenti ad esempio il diritto alla prova e trova concreta applicazione nel dovere di attuazione a cui è tassativamente sottoposto l'organo giudicante, il quale deve necessariamente vigilare sulla corretta applicazione del precetto costituzionale.

Ed è proprio questa impostazione, che vede l'attuazione dell'art. 111 della Costituzione come una vera e propria "esigenza oggettiva"21, che

ha dato origine ad una diversa corrente interpretativa, la quale mira a collocare le garanzie scaturenti dal portato normativo del "giusto processo" in due categorie ben distinte, rispettivamente il genus delle garanzie oggettive e quello delle garanzie soggettive. Questa visione dualistica si contrappone al senso del fair trial così come lo si intende in ambito europeo, ovvero come una rosa di garanzie che attengono al singolo in quanto essere umano e quindi inscindibili. Se adottata la prospettiva interpretativa del nostro art. 111 Cost. si avrebbe quindi, per ciò che concerne il diritto al contraddittorio, una dicotomia che vede da un lato la garanzia oggettivamente intesa come criterio di accertamento nella formazione della prova; dall'altro si rinverrebbe una garanzia soggettiva che riconosce un diritto all'imputato, il quale risulterebbe in grado di dare un impulso per l'acquisizione delle prove a suo discarico o di avere la possibilità di controesaminare i soggetti che abbiano reso dichiarazioni a suo carico22.

Il risultato cui si perviene è quello di una distorsione del significato di "giusto processo" inteso all'europea, ben visibile nella forte antitesi che

21 M. Chiavario, Appunti sul processo penale, Giappichelli, Torino, 2000, p. 12. 22 P. Tonini, Il contraddittorio: diritto individuale e metodo di accertamento, in Dir.

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viene a crearsi "fra garantismo e difesa sociale"23: in questa sede si

riscontra il tratto dinstintivo di un passato ideologico fin troppo recente e saldamente ancorato ad un'impostazione di stampo inquisitorio, la quale pone una reticente resistenza ai valori acquisiti dai principi garantistici sovranazionali, piegando così il sistema processualpenalistico ad una "oggettività-efficienza" atta a bilanciare il profilo garantistico del singolo a favore del primato della parte pubblica.

Ma l'impostazione che pone in risalto la garanzia oggettiva risulta essere di per sé contraddittoria in quanto, all'interno di un processo, le garanzie sono esse stesse un freno all'esercizio del potere dell'autorità e per questa caratteristica non possono che essere intrinsecamente proprie dell'individuo, il quale ne potrà usufruire di fronte all'apparato giudiziario per difendersi dalle pretese punitive vantate da quest'ultimo.

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1.3.1 Giusto processo, Procés equitable e Fair Trial: uno

sguardo ai tre modelli

Dopo aver illustrato la portata storica dell'art. 111 Cost. novellato con legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999 è necessario addentrarsi nello specifico ambito probatorio, collocato all'interno dello spettro di garanzie contenute nel principio del "giusto processo" e per meglio comprendere come il nostro ordinamento si sia approcciato alla complessa sfera delle prove nel processo penale, sarà utile condurre una trattazione che apra il suo sguardo al comportamento di altri due ordinamenti, quali quello di Francia e Inghilterra, dalla cui disamina sarà possibile desumere le diverse modalità in cui ogni ordinamento ha deciso di trattare il delicato settore "Prove".

Partendo dall'approccio francese è possibile accorgersi di come il

Procès èquitable, ovvero il nostro giusto processo, sia stato recepito

faticosamente dall'ordinamento interno, ancora saldamente imperniato su un modello processuale inquisitorio che ne aveva costituito lo scheletro normativo sin dal Code d'instruction criminelle del 1808, nel quale ben esplicitato era il ruolo centrale nell'acquisizione del materiale probatorio da parte del giudice cosiddetto istruttore. L'opera di recepimento dei principi affermatisi a livello sovranazionale nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo è avvenuta con l'assorbimento del catalogo di garanzie direttamente attuato all'interno del Codice di procedura penale francese in una sorta di preambolo denominato article préliminaire. All'interno di esso vengono elencate le varie garanzie di cui potrà disporre l'imputato nel corso del procedimento penale a suo carico, in ossequio ai dettami della Convenzione, o almeno così sembrerebbe. Di fatto, nel catalogo di norme elaborate dal Legislatore d'oltralpe, si parla di processo

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del diritto di difesa, o ancora si fa riferimento alla parità di trattamento di soggetti imputati del medesimo reato, alla presunzione di innocenza, all'adeguatezza e proporzionalità delle misure restrittive della libertà personale, alla ragionevole durata del processo, ma ciò che desta maggiormente l'attenzione nella disamina di questo elenco è il richiamo all'"equilibrio" dei diritti riconosciuti alle parti. Esso infatti si pone in chiara disarmonia rispetto alle mire egualitaristiche verso cui spinge la giurisprudenza della Corte Europea, a causa della scelta lessicale che appunto richiama un'équilibre e non il più pregnante concetto di parità delle armi, come del resto esplicitato all'interno della nostra Costituzione nell'art 111.

Dislocate su un diverso piano, si pongono due clausole che prevedono rispettivamente la separazione della funzione di accusa e di giudizio, per tentare di superare quel "cumulo di ruoli" incentrato sulla figura del giudice istruttore, ed il diritto di far verificare la validità della sentenza di condanna da parte di un altro giudice: nel caso di specie è stata prevista quindi, con la legge del 2000, l'introduzione nel Code de

procédure pénale di un meccanismo di apello avverso le decisioni della

Corte d'Assise, intervento che per quanto necessario sembrerebbe essersi collocato tardivamente a livello europeo, forse per le strenue resistenze dell'ordinamento francese ancora ispirato al principio della insindacabilità del verdetto dei giurati, già osservato nella trattazione della intime convinction.

Ma l'aspetto che forse vale la pena osservare con più attenzione è la scelta del Legislatore francese in ordine alla modalità di recepimento nell'ordinamento interno dei precetti enunciati nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo e del cittadino: qual è la natura giuridica dell'article préliminaire? La forma prescelta è quella della legge ordinaria in quanto gli articoli in questione assurgono alla funzione di preambolo al Codice di procedura penale francese e tale scelta

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normativa sembrerebbe tradire la volontà del Legislatore di creare una specie di "normativa-cuscinetto", collocata fra le disposizioni europee di rango superiore e quelle del codice processuale, di fatto aventi forza di legge ordinaria. Da questo goffo escamotage traspare la volontà di mantenere una facciata normativa, formalmente allineata agli human

rights, ma di fatto ancora visibilmente contaminata dall'impostazione

inquisitoria. Altro aspetto che sottolinea fortemente questo attaccamento del sistema francese al suo passato, è riscontrabile nel valore che viene attribuito al preambolo, un valore che non vuole essere precettivo, ma bensì meramente déclaratoire, ovvero una normativa plasmata per avere un "significato simbolico"24, che serva

più che altro da parametro esegetico per le altre norme del codice la cui applicazione dovrà rispondere ai principi del procès équitable.

Per quanto concerne l'ambito probatorio, troviamo un Legislatore che ha totalmente ingorato gli input della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e del cittadino, in quanto, sempre per rendere omaggio all'efficacia del secolare modello inquisitorio adottato nelle aule dei tribunali francesi, egli non ha minimamente allineato la propria stuttura processuale di ricerca della prova a quella ispirata dall'introduzione del modello accusatorio, lasciando così sopravvivere l'antica figura del

Juge d'instruction.

Completamente agli antipodi rispetto all'impostazione francese si pone la modalità di recepimento ed attuazione della Convenzione Europea da parte del Regno Unito, il quale risulta tra i primi stati ad averla sottoscritta nel 1951 e ratificata nel 1953, al contrario appunto della Francia che accumulò un discreto ritardo procrastinando la propria adesione fino al 1973. A sottolineare la diversità dei due approcci contribuisce inoltre l'analisi dello statute approvato dal Parlamento

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inglese nel 1998: lo Human Rights Act entrato in vigore il 2 ottobre del 2000, con il quale si dava una forte spinta per rendere effettiva la tutela dei "diritti fondamentali dell'individuo senza però intaccare la

sovranità del Parlamento"25.

I principi del fair trial sono realmente concretizzati nella prassi giurisprudenziale inglese grazie ad uno speciale meccanismo atto a dirimere le eventuali controversie nascenti dal conflitto fra due norme, nel caso di specie, una di fonte europea e l'altra appartenente alla prassi giurisprudenziale inglese o all'equity, ovvero quel corpus normativo che scaturisce dalla giurisprudenza della Chancery Court. Quest'ultima infatti cedrebbe il passo all'applicazione della norma di rango superiore la quale va ad affermare la preminenza dei conventional rights. Diversa via è stata scelta dal Parlamento inglese se il conflitto fra norme dovesse presentarsi fra una fonte di primary legislation e una norma europea: in questo caso il meccanismo che scatta è quello della

declaration of incompatibility attuata dal giudice, il quale così facendo

segnalerà un "vizio" al Parlamento in tal modo richiamato ad emendare la norma incompatibile per armonizzarla al contesto delle norme europee di rango superiore.

Nel quadro normativo appena tratteggiato è possibile scorgere la forte affinità fra il modello inglese e la nostra declaratoria di non manifesta infondatezza della questione di legittimità, la quale permette ai giudici italiani di far sì che a giudicare sulla possibile incompatibilità della legge ordinaria sia la Corte Costituzionale, con la differenza però che nel sistema anglosassone non viene mai messo in secondo piano il ruolo fondamentale del Parlamento, la cui sovranità resta integerrima sempre.

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Focalizzando l'attenzione sulle scelte del Legislatore italiano rispetto all'interiorizzazione dei principi della Convenzione europea nell'ordinamento, si denota inoltre come questa abbia influito drasticamente sulla disciplina del modus probandi: il diritto alla prova viene infatti codificato dando origine ad ua corpus normativo che fino ad allora non aveva avuto luogo in nessuna esperienza codicistica dell'Europa continentale. Nonostante la tentata involuzione avvenuta con le sentenze numeri 254 e 255 del 1992 della Corte Costituzionale, le quali avevano cercato di dar voce al nostalgico principio di "non

dispersione della prova", l'obiettivo venne raggiunto con "l'attribuzione di rango costituzionale a quel difendersi provando originariamente previsto dal modello accusatorio"26. La storica legge

che permise questa rivoluzione fu la legge costituzionale n. 2 del 1999 che andò a modificare l'art. 111 determinando la realizzazione di una sorta di incorporazione rafforzativa di garanzie, peraltro già contenute nel Codice di procedura penale del 1989, ma che se elevate al rango costituzionale sarebbero rimaste esenti in futuro da altre possibili involuzioni guidate da una quasi ineliminabile forma mentis inquisitoria del nostro Legislatore.

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1.4 Modello accusatorio e inquisitorio: significato

"emotivo" e tecnico-giuridico

Restringendo l'analisi finora condotta sulla dicotomia di fondo fra modello accusatorio ed inquisitorio, è possibile osservare come questa si ponga alla base dell'esame comparatistico che meglio ci permetterà di comprendere l'evoluzione del potere del giudice penale in ambito probatorio. Per condurre in modo più efficace possibile tale raffronto risulta necessario affrontare l'argomento partendo dal "retroscena psicologico" che si prospetta dinnanzi allo studioso nel momento in cui esso va a confrontarsi con le fondamenta dei due modelli. Essi racchiudono infatti un significato emotivo che va a caratterizzarne l'impronta processualistica: il modello accusatorio viene ad identificarsi come la struttura processualpenalistica che meglio esplicita il garantismo, foriera di maggiori spazi di libertà per le parti; al contrario il modello inquisitorio riveste tutte quelle caratteristiche negative che lo vedono come "luogo processuale" in cui il giudizio appare improntato alla tutela esclusiva dei valori attinenti alla difesa sociale, ponendo di conseguenza in secondo piano la figura dell'imputato e di quell'entourage di garanzie che ad esso si riconducono.

Per significato emotivo si intenderebbe precisamente "un significato in

cui la risposta (da parte di chi ascolta) o lo stimolo (da parte di chi parla è una sfera di emozioni"27 ed in esso è possibile rinvenire il

retaggio di un passato che ha visto il procedimento penale dell'Ancien Régime ruotare attorno alla figura di un giudice dominus, dotato di un potere che poteva spaziare nell'impiego dei mezzi di tortura per

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raggiungere l'agognato obiettivo della conoscenza della verità. Naturalmente bisogna precisare che questa connotazione estremamente negativa era da considerarsi già superata grazie alle profonde innovazioni portate dalla Rivoluzione francese che contribuì a ribaltare questa impostazione oscurantista a causa dell'avvento dei dilaganti principi propri del processo di Common Law. Purtroppo bisogna però sottolineare come, osservando l'impostazione del processo penale italiano precedente alla Riforma codicistica del 1988, l'eredità del recente passato inquisitorio sia ancora ben fresca nella memoria del Legislatore che fatica ad abbandonare figure come quella del giudice istruttore, in cui risulta lampante la commistione di ruoli propri del giudicare e dell'indagare. Ed è proprio in queste due funzioni che si condensa la mansione svolta dall'organo giudicante nel processo penale, così come osservata dalle "lenti deformanti"28 del sociologo

statunitense che si pone all'osservazione di un dibattimento di stampo inquisitorio: ciò che salta all'occhio è sicuramente una scena in cui il difensore della parte imputata non svolge un ruolo attivo all'interno del procedimento, bensì è relegato in una funzione di secondo piano rispetto alla conduzione del processo concentrata totalmente nella mani del magistrato. Questa naturale inclinazione a deformare così vistosamente il ruolo del giudice nel processo penale è dovuto al divario sussistente fra le due impostazioni del processo penale: nel modello adversary da cui proviene l'osservatore infatti, è l'avvocato a ricoprire la funzione di dominus che pone le domande nell'esame incrociato dei testimoni, al contrario nel procedimento di stampo inquisitorio, la difesa appare come una sorta di "assistenza fornita all'imputato", il quale viene automaticamente ad assumere una

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posizione di "passive bystander"29, ovvero uno spettatore passivo che

non può far altro che rimanere in attesa dell'accertamento della verità da parte dell'autorità inquirente.

Se fin qui la comparazione è stata condotta utilizzando un profilo che fa leva sull'emotività, ovvero sulle sensazioni scaturenti dall'osservazione di questi due modelli a confronto, è necessario adesso condurre la medesima operazione utilizzando però una prospettiva tecnico-giuridica. Se adottata, questa rivela come in particolare in ambito probatorio si riescano a delineare le opposte linee guida ispiratrici rispetto alla formazione dell'elemento prova, il quale nel modello inquisitorio vede protagonista principale il giudice

dominus della fase, che incarna in sé una figura di raccordo e

conduzione del processo, detentore di un ruolo di difesa sociale su cui si impernia tutto il sistema di formazione della prova; al contrario nel sistema adeversary la formazione dell'elemento probatorio è demandato alle parti grazie alle funzioni di prosecution e

party-presentation in cui il giudice assume la veste di arbitro con funzione di

difensore della società per mezzo della repressione dei fatti di reato. A far da sfondo culturale a queste due impostazioni stanno due correnti ideologiche che si pongono agli antipodi, in quanto nell'un caso troviamo una radice marcatamente liberale, che plasma un processo che si presta a divenire un momento di confronto fra le parti, innalzate in questo modo a protagoniste della vicenda che le riguarda; al contrario il retroterra normativo del modello inquisitorio è incentrato sulla figura dell'autorità, posta in una posizione di rilevanza centrale, la quale imperniando sulla propria attività lo svolgimento del procedimento tende a porre in secondo piano le parti ed il loro apporto materiale alla vicenda processuale. Da qui si può ben desumere la

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predominanza del ruolo attivo del giudice continentale nella dinamica dell'acquisizione probatoria, che tende oggigiorno ad essere debellata da continui interventi del Legislatore che assumono la veste di un vero e proprio labor limae rispetto al taglio netto effettuato con il portato rivoluzionario della Riforma codicistica del 1988, volto a smussare la centralità del giudice tipica del sostrato culturale del nostro modello processuale per lasciar maggior spazio di intervento alle parti; per contro il Legislatore di common law cerca di bilanciare la fortissima prassi giurisprudenziale sedimentatasi nel tempo, cercando di rafforzare la capacità di intervento dell'organo giudicante volta al perseguimento dell'obiettivo di giustizia sostanziale.

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1.4.1 L'ibrido italiano dell'"accusatorio all'europea" in

ambito probatorio

La vicenda evolutiva sin qui tracciata ci porta al cuore di quella che è la profonda innovazione introdotta con la legge delega n. 81 del 1987, normativa che ha sancito l'abbandono formale dell'impostazione inquisitoria da parte del nostro modello processualpenalistico a favore di un innesto accusatorio. L'apporto rivoluzionario è ben visibile nell'abolizione della figura, e della corrispettiva fase processuale, che più rappresentano il quasi ineliminabile retaggio del passato, ovvero il

giudice istruttore. Si assiste infatti ad una riequilibrazione delle parti

che riescono ad assumere in tal modo il ruolo di protagoniste della vicenda processuale: abbiamo lo schierarsi da un lato della parte imputata e del suo difensore e dall'altro la Pubblica Accusa, il cui operato di raccolta di elementi probatori durante la fase delle indagini preliminari è supervisionata dall'omonimo giudice per le indagini preliminari introdotto ad hoc, il quale inteviene in qualità di garante della legalità, esercitando in tal modo una giurisdizione di garanzia. Dopo questa fase di raccolta iniziale si apre la fase regina di formazione della prova, il dibattimento che viene in tal modo innalzato a "luogo privilegiato per la raccolta della prova" la quale scaturisce dalla "dialettica contrapposizione delle parti protagoniste della

escussione probatoria mediate la tecnica dell'esame diretto"30.

Come vedremo nell'analisi che verrà successivamente condotta al riguardo31, l'iter legislativo che ha segnato questo passaggio epocale

non è stato breve e lineare, ma anzi si è sviluppato sulla scia di accesi dibattiti coinvolgenti la lungimirante dottrina, che già spingeva verso

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un allineamento dell'assetto processuale italiano al rito adversary e gli impulsi involutivi che si potevano cogliere all'interno della legge delega dell'aprile del 1974, nella quale il ruolo del giudice istruttore sembrava aver trovato una riconferma piuttosto evidente. Ma di fatto questo tentativo di ristabilire l'assetto precedente all'instaurarsi delle spinte riformistiche non ha trovato accoglimento nella realtà processuale italiana, che viene ad assumere una struttura improntata alla ripartizione di ruoli e alla ripartizione delle fasi32. Le parti vedono

concretizzarsi il proprio ruolo nella disponibilità della prova, esse acquisiscono infatti la titolarità dell'iniziativa istruttoria che nel testo del Progetto preliminare è ben esplicitata nell'art. 190 commi 1 e 2 in cui si stabilisce che "le prove sono ammesse a richiesta di parte" e che

"la legge stabilisce i casi in cui le prove sono ammesse d'ufficio",

arginando con quest'ultimo inciso il potere di intervento dell'organo giudicante che potrà essere esercitato in rigido ossequio al principio di legalità. Nel profilo di piena disponibilità probatoria delle parti si rinviene il germe del procedimento di common law visibile nel principio della party presentation of evidence, che però viene ad essere prontamente contemperato da un intervento integrativo del giudice dell'udienza preliminare, il quale "può indicare alle parti temi nuovi o

incompleti sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni"33, utili a rendere completo lo spettro di elementi che gli

permetteranno di pervenire ad una decisione nel merito. Altro intervento da parte del Legislatore che va a bilanciare il potere dispositivo delle parti circa la definizione del thema probandi, lo si riscontra nella fase dibattimentale all'interno dell'art. 499 comma 1 c.p.p. in cui si esplicita come il giudice possa appunto "indicare alle

32 Cfr. E. Amodio, op. cit., p. 221 33 Art. 419 comma 1 c.p.p.

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parti temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza dell'esame", ed è all'interno di questi interventi correttivi che si denota

il formarsi di un modello ibrido di processo penale, in cui accanto al precipitato del modello accusatorio angloamericano si rinvengono inevitabili infiltrazioni normative, eredità del secolare passato inquisitorio, le quali portano inevitabilmente alla creazione di un modello che viene definito in questo senso "accusatorio all'europea". In questo innovativo modello, il dominio delle parti sul thema

probandi proprio del sistema accusatorio viene ad essere mitigato da

una serie di interventi che rendono ben visibile come la svolta che ha investito il nostro ordinamento si collochi sul piano della tecnica processuale e non vada ad intaccare la tutela giurisdizionale. La legge delega n. 81 del 1987 di concerto col Progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale infatti non consentono margini di disponibilità della tutela, poichè questo significherebbe permettere alla Pubblica Accusa di comportarsi come il Prosecutor di common law, il quale può deliberatamente rinunciare a promuovere l'azione penale o addirittura arrivare a revocarla in ossequio al principio di disponibilità della pretesa punitiva. Tale principio è ripudiato dal nostro ordinamento che salvaguarda la tutela giurisdizionale negando all'accusatore e all'imputato, protagonisti del procedimento, il potere di disporre dell'oggetto della controversia, tant'è che ad esempio nel caso di confessione da parte dell'imputato, il Pubblico Ministero non viene sollevato dall'onere di provare il fondamento della pretesa punitiva: la confessione quindi assurge solamente al ruolo di presupposto per ottenere un'accelerazione del rito, che verrebbe nel caso di specie a convertirsi in giudizio direttissimo. Altro esempio che esplicita l'indipendenza del giudice dalla volontà delle parti si riscontra nell'applicazione della pena su richiesta delle parti, in presenza della quale il magistato ha comunque il dovere di vagliare la correttezza

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della qualificazione giuridica del fatto ed inoltre egli è tenuto a verificare se siano state valutate correttamente le circostanze di cui all'art. 69 c.p. o ancora a rilevare l'eventuale presenza di una causa di non punibilità.

Tutti questi doveri che caratterizzano l'intervento del giudice sono segno distintivo della sua indipendenza rispetto alla volontà delle parti, la quale può senz'altro incidere sulla scelta del rito, ma sicuramente non sul profilo del merito, rispetto al quale il giudice è pur sempre libero di muoversi all'interno di quelle possibilità di intervento che gli sono state concesse tassativamente dal Legislatore, il quale ha deciso di tracciare per il nostro Giudice un ruolo che si distanzia nettamente da quello meramente notarile che assume il Judge statunitense.

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Capitolo II

La stagione del riformismo processuale

SOMMARIO: 2.1 Dalla prima legge delega del '74 al "Progetto preliminare": nuovi confini del potere istruttorio – 2.2 La legge delega n. 81 del 1987: obiettivi primari e linee guida – 2.2.1 L'adeguamento alle fonti sovranazionali -2.3 Quadro costituzionale: il giudice "terzo ed imparziale" nell'art. 111 Cost. - 2.3.1 Imparzialità del giudice: una garanzia fondamentale della persona.

2.1 Dalla prima legge delega del '74 al "Progetto

preliminare": nuovi confini del potere istruttorio

La legge delega n. 108 dell'aprile del 1974, denominata "delega al Governo per l'emanazione del nuovo Codice di procedura penale", è connotata da un incipit nel quale viene espressa la volontà del Legislatore di adeguare il nuovo corpus normativo ai principi recepiti tramite le "convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai

diritti della persona e al processo penale", in particolare all'interno di

questo preambolo esplicativo si fa leva sull'impegno che verrà impiegato nell'attuazione dei "caratteri del sistema accusatorio", fulcro della rivoluzione processuale in atto in Italia proprio in quel momento.

Le linee guida poste a fondamento della suddetta legge delega concernono l'importante indicazione dei valori della semplificazione processuale che pretende "l'eliminazione di ogni atto o attività non

essenziale" e della "partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento"; altri punti focali, non

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dinamica delle fasi anteriori al giudizio, ambito nel quale si è potuto assistere alla ridefinizione dei poteri e dei doveri della polizia giudiziaria, nel ricollocamento del ruolo del Pubblico Ministero nella funzione di organo giurisdizionale e nell'introduzione dell'"udienza

preliminare", fase di fatto sostitutiva della precedente "istruttoria".

Per ciò che concerne la fase dibattimentale successiva, che sarà il cuore pulsante della formazione dell'elemento probatorio su cui andremo a focalizzare l'attenzione, la legge delega si propone di introdurre nel sistema processuale la regola della cross-examination ricollocando quindi la prova come "diritto in capo alle parti"1.

L'ottimismo derivante dall'ondata di innovazioni di cui questa riforma è stata foriera, aveva portato alla previsione dell'enrata in vigore del nuovo codice entro due anni dall'emanazione della stessa legge delega, ma di fatto quel che si concretizzò fu la creazione di una Commissione la quale si occupò dell'elaborazione del "Progetto preliminare" del nuovo codice. In tale progetto, ultimato solo nel 1978, era stato creato un corpus normativo di 656 articoli, all'interno dei quali le varie materie processuali erano state divise in due parti: la prima constava di cinque libri e la seconda di sei. La Commissione, istituita ai sensi dell'art. 1 della legge delega n. 108 del 1974, si espresse in modo favorevole all'elaborato sottoposto al suo esame, in esso infatti venne riconosciuta la chiara "rispondenza delle linee fondamentali del nuovo

ordinamento processuale penale alle esigenze del Paese".

Ma nonostante il nulla osta ricevuto sulla bontà del "Progetto preliminare", la "macchina riformistica" rimase in una situazione di stasi a causa della sempre più crescente esigenza di porre un freno alla dilagante "emergenza" degli "anni di piombo". Il contesto storico in cui

1 M. Chiavario, "La riforma del processo penale: appunti sul nuovo codice", UTET, Torino, 1990, p. 7

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si colloca la stagione riformistica del processo penale italiano, si rivelò infatti molto più complesso di quanto il Legislatore avesse immaginato al momento della decisione di dare un primo input di svolta: il quadro che si presentava era infatti quello di una fitta rete di criminalità organizzata "endemicamente diffusasi"2 anche all'interno delle

istituzioni, di fronte a cui risultò necessario attuare una forte presa di coscienza grazie alla quale riuscire a plasmare i capisaldi della prima legge delega del '74, in modo da arginare la ormai dilagante situazione di emergenza.

Nel 1979 si assistette quindi ad una proroga temporale dell'esercizio di delega e, in un disegno di legge presentato dal ministro Morlino nell'ottobre dello stesso anno, fu possibile tracciare un quadro degli ulteriori input riformistici necessari per il completamento del rinnovo della macchina processuale italiana. Il fine verso cui la riforma si protendeva era inquadrabile nel raggiungimento di un assetto procedurale in cui fosse chiarito in modo netto il modello processuale prescelto dal Legislatore, con la conseguenza fondamentale che tale scelta sarebbe andata a ripercuotersi su vari punti toccati all'interno della prima legge delega, mantendenone di fatto ferme le scelte fondamentali in essa attuate, ma determinandone anche un adattamento maggiormente coerente alle esigenze sociali cui l'Italia doveva far fronte in quel preciso momento storico.

Per meglio comprendere questo fenomeno di adattamento delle linee guida della prima legge delega all'esigenza di maggior chiarezza nella scelta di un modello processuale ben delineato, risulta proficuo esaminare la scelta effettuata dal Legislatore per quanto concerne l'ambito istruttorio, poichè più in questo ambito rispetto ad altri è possibile comprendere quanto abbia inciso la portata innovativa

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dapprima della riforma in questione e successivamente della legge delega n. 81 del 1987. Il potere istruttorio dell'organo giudicante in fase dibattimentale ha infatti subito un forte ridimensionamento, ben visibile nell'art. 2 alla direttiva 65 della legge delega n. 108 nella quale era previsto soltanto in capo al Presidente o al giudice monocratico il potere di "indicare alle parti l'esame di temi nuovi od incompleti utili

alla ricerca della verità", con ulteriore possibilità di "rivolgere domande dirette all'imputato, ai testi e ai periti", questi i confini

tracciati per delineare i residuali poteri istruttori del giudice.

Ciò che contraddistinse la prima legge delega rispetto al "Progetto preliminare" e alla definitiva legge n. 81 fu la forte presa di posizione del Legislatore da cui traspariva un ripudio pressochè totale del vecchio modello inquisitorio, in essa infatti non si prevedeva un vero e proprio spazio di intervento d'ufficio del giudice, ma lo si relegava ad una posizione di secondo piano affidandogli, come esplicitato nella direttiva 65, un potere meramente residuale. Qualsivoglia ruolo attivo del giudice sarebbe quindi stato perimetrato all'interno dei chiari limiti di indicazione rimessi alla volontà dei contraddittori.3 Ma l'esclusività

della detenzione del potere di iniziativa istruttoria in capo alle parti, mal si conciliava con un progetto che allo stesso tempo aveva deciso di mantenere la figura del giudice istruttore, mutilando però il potere di intervento del giudice dibattimentale nella formazione della prova. L'incongruenza di fondo desumibile dalla situazione appena descritta mosse la critica della Commissione Consultiva che si espresse sul contenuto dell'art. 181 del Progetto preliminare, nel quale era stato ravvisato come "l'esclusiva iniziativa probatoria di parte nel processo

penale" non risultasse per niente "connaturale al processo

3 H. Belluta, "Imparzialità del giudice e dinamiche probatorie ex officio", Torino, G. Giappichelli editore, 2006, p. 158

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