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L'art 507 c.p.p.: il perimetro dell'intervento ope iudicis

La stagione del riformismo processuale

3.3 L'art 507 c.p.p.: il perimetro dell'intervento ope iudicis

L'art. 507 c.p.p. si è prestato, nel corso del tempo, ad una ricca esegesi giurisprudenziale e dottrinale, attraverso le quali si è cercato di dare una definizione precisa ai contorni, apparentemente evanescenti, del potere che il Legislatore ha disegnato per l'iniziativa istruttoria da parte dell'organo giudicante. Punto focale dei vari tentativi di interpretazione succedutisi nel tempo è il profilo di conciliazione di tale potere con le prerogative delle parti, senza andare ad incrinare il delicato assetto di equilibri concernenti la struttura triadica del processo. Attuando un bilanciamento fra le prerogative esplicitate all'interno dell'art. 507 c.p.p. e quelle contenute nell'art. 190 c.p.p., emblema dell'esclusività del "diritto alla prova" posto in capo alle parti, si può assistere ad un vero e proprio ribaltamento di prospettiva, in base al quale si determina un temperamento della presunta assolutezza del principio dispositivo processuale.

Primo punto ad essere sovvertito risulta la presunzione di ammissibilità prevista dal primo comma dell'art. 190 c.p.p. poichè se si osserva l'inciso "anche d'ufficio", contenuto nell'art. 507 c.p.p., si delinea un potere di richiesta da parte di accusa e difesa per l'ammissione delle prove ritenute necessarie una volta iniziato il dibattimento, e quindi conclusosi il momento di raccolta di elementi probatori della fase precedente: la richiesta viene ad essere sottoposta ad un vaglio del giudice che provvederà ad assumerle solo se lo riterrà "assolutamente

necessario". In questa prospettiva si denota una sorta di "residuale potere di sollecitazione"22 posto in capo alle parti che molto si

22 E. Aprile, L'art. 507 c.p.p. tra principio dispositivo delle parti, terzietà del giudice del dibattimento e poteri officiosi di iniziativa istruttoria, dopo la sentenza del 6 novembre 1992 delle Sezioni unite della Cassazione, in Nuovo diritto., 1993, n.

distanzia rispetto alla certezza di cui difesa e accusa godono in virtù di quanto disposto dall'art. 190 c.p.p., il quale fissa appunto un principio di presunzione di ammissibilità. Se i criteri di ammissibilità della prova risultassero superati, verrebbe a prospettarsi una sorta di potere potestativo del giudice rispetto all'assunzione degli elementi probatori, che nel caso non venisse esercitato laddove necessario, potrebbe comportare il sorgere di un diritto a sindacare l'inerzia dell'organo giudicante in sede di impugnazione.

Rispetto al sorgere di un potere-dovere in capo al giudice si delineano due opposti orientamenti, uno dottrinale secondo il quale il potere di cui egli gode non dovrebbe essere rincodotto nell'alveo di potere

discrezionale, connotandosi esso come risultante di una valutazione

normativa che affonda le proprie radici in una situazione soggettiva di

dovere23; l'altro giurisprudenziale di senso contrario in cui si pone

l'attenzione sul dato testuale "può disporre d'ufficio" che nell'utilizzo di un verbo che esprime una facoltà di porre o non porre in essere il proprio potere, esplicita tutta la sua non doverosità di intervento: una non obbligatorietà che verrebbe ad essere sostituita dall'imposizione di compiere un semplice apprezzamento sulla richiesta di parte. In continuità con tale presa di posizione, per ciò che concerne la possibilità per la parte di utilizzare l'inerzia del giudice come argomento per effettuare l'impugnazione, la giurisprudenza sembra essersi pronunciata in favore di un'interpretazione della discrezionalità dell'organo giudicante, che colloca il suo potere in una prospettiva di "non uso" di un potere eccezionale, che per tale natura non ha bisogno di essere motivato. Laddove il giudice non ammettesse prove decisive su sollecitazione di parte, verserebbe quindi in un errore di carattere

2-3, II, p. 106

procedurale e per ciò ricorribile in Cassazione.

L'attiva partecipazione dell'organo giudicante alla dinamica probatoria è quindi funzionale al perseguimento della verità e della giustizia, concernenti entrambe la vicenda processuale, per questo il suo ruolo non può essere sacrificato al rispetto del principio dispositivo delle parti, consacrato nell'art. 190 c.p.p., ma deve per ciò trovare una collocazione che si concili armonicamente con lo schema dialettico di accertamento, senza sfociare in estremismi di forte inerzia o per contro di iperattività sffocante verso le prerogative di parte.

L'intervento del giudice necessita quindi di essere letto come esercizio di un potere attuabile solo in misura residuale per rientrare nelle maglie di quello che è il giusto processo, principio che dopo essere stato introdotto con la novella dell'art. 111 Cost. nel 1999 non ha lasciato più spazio a dubbi esegetici sulle fondamentali caratteristiche che il processo italiano deve assumere e che il giudice deve incarnare nel proprio modus operandi, in particolare l'imparzialità. Il potere concesso al giudice dall'art. 507 c.p.p. deve quindi essere inquadrato secondo una prospettiva integrativa che vada ad insinuarsi fra le lacune del previo esercizio del diritto alla prova delle parti, in un'ottica che gli conferisca un carattere di "supplenza a qualche mancata iniziativa

della parte o di completamento per concludere un accertamento che è pur sempre la parte ad aver attivato"24. Viene ad essere escluso in tal

modo qualsiasi riferimento ad una presunta autonomia dell'attività istruttoria ope iudicis, collocandola in tal senso in prospettiva di accessorietà rispetto all'operato di parte, il quale si pone come chiaro antecedente logico necessario nella misura in cui tale prerogativa di parte non abbia portato, al termine dell'istruzione, a risultati che

24 A. Giarda, I giudici della consulta recuperano qualche caratteristica del sistema accusatorio, in Riv. it. dir. proc. Pen., 1999, p. 1452

constino di un certo livello di completezza ed esaustività.

Ma se questa ricostruzione effettuata da parte della dottrina ed avallata da alcune pronunce giurisprudenziali conferma l'interpretazione secondo cui non si potrebbe assolutamente parlare di potere "surrogatorio" del giudice, bisogna coerentemente affermare che in caso di mancato esercizio di attività istruttoria da parte di accusa e difesa si assisterebbe all'impossibilità per il giudice di porre in essere le facoltà di cui l'art. 507 c.p.p. lo munisce, proprio in virtù del fatto che verrebbe a mancare la base di legittimazione del suo intervento, ovvero una precedente raccolta di elementi probatori su istanza di parte. Le prerogative istruttorie ex officio del giudice vengono quindi ad essere relegate in un livello secondario che affonda le proprie radici

"in qualche prova già acquisita al fascicolo dibattimentale"25 e, per

meglio riuscire a salvaguardare l'imparzialità del giudice e mantenere intatto il principio dispositivo probatorio, il Legislatore sceglie di collocare l'assunzione d'ufficio di nuovi mezzi istruttori soltanto una volta "[t]erminata l'acquisizione delle prove".

A tale impostazione, che trova peraltro riscontro nelle linee guida della relazione al progetto preliminare del codice del 1988, fa da contraltare la lettura estensiva dell'art. 507 c.p.p. contenuta in una nota pronuncia giurisprudenziale26 dei primi anni '90, secondo cui l'organo giudicante

rappresenterebbe "il primo ed esclusivo motore dell'istruzione

probatoria dibattimentale"27 rispecchiando un'ottica in cui il potere

giudiziale riveste una funzione di vera e propria supplenza. In questa prospettiva estensiva, il potere istruttorio officioso del giudice dovrebbe di fatto sottostare solamente alla condizione della sussistenza

25 Cfr. E. Aprile, op. cit., p. 112 26 Cass. s. u., 6 novembre 1992, Martin

27 L. Marafioti, L'art. 507 c.p.p. al vaglio delle Sezioni unite: un addio al processo accusatorio e all'imparzialità del giudice dibattimentale, in Riv. it. dir. proc. Pen.,

di un'effettiva assoluta necessità di introdurre nella vicenda processuale il dato probatorio fino a quel momento escluso, ma considerato dal vaglio del giudice imprescindibile per pervenire ad una giusta decisione.

La posizione assunta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 6 novembre del 1992 poggia il proprio ragionamento su due argomentazioni delle quali una appare più fallace rispetto all'altra. La prima delle due affonda le proprie basi in uno dei principi cardine del nostro processo, ovvero il principio dispositivo e la connessione che si verrebbe a creare fra quest'ultimo e i poteri officiosi del giudice, quindi essendo nel nostro sistema prevista l'irretrattabilità dell'azione penale risulta necessario prevedere per contro strumenti istruttori che permettano all'organo, in questo caso in veste di garante, di colmare eventuali lacune probatorie. La seconda argomentazione verte invece sulla limitata funzionalità che il sistema processuale verrebbe ad assumere rispetto all'obiettivo di "ricerca della verità" se fosse impedito all'organo giudicante di attivarsi in ambito istruttorio laddove risultasse "più radicale [è] l'esigenza di un tale intervento, a causa

dell'inerzia delle parti"28. Nell'impostazione appena delineata si

ravvedono profili di incompatibilità con uno dei principi che costituiscono il cuore pulsante del giusto processo: l'imparzialità, che risulta messa in ombra dalla scelta interpetativa in cui il giudice viene dipinto come vero e proprio "sostituto degli attori dello scontro

dialettico"29. Ed è esattamente da questa visione del giudice in veste di

figura autonoma all'interno del procedimento probatorio che scaturisce la linea finale del ragionamento condotto dalla Suprema Corte nella sentenza, la quale contiene il riconoscimento in capo all'organo

28 Cass. s. u., 6 novembre 1992, Martin 29 L. Caraceni, op. cit., p. 148

giusdicente di un potere svincolato dall'effettivo esercizio di quello delle parti. Egli potrà quindi introdurre prove di sua iniziativa, procedendo all'ammissione di nuovi elementi dovendo solamente prestare attenzione a superare quel vaglio di assoluta necessità integrativa finalizzato alla delibazione ultima. Di questo assetto intepretativo si troverebbe, secondo la Corte, riconferma all'interno del dato tesuale dello stesso art. 507 c.p.p. che pone l'accento sul profilo temporale del quando il giudice potrà effettivamente porre in essere la propria azione autonoma, non soffermandosi per contro sull'an.

L'esegesi condotta sulla modalità di esercizio dei poteri officiosi del giudice appena descritta, è stata ricalcata in svariate pronunce successive, fino ad essere definitivamente riconfermata nella sentenza della Corte Costituzionale n. 111 del 26 marzo del 1993. Al suo interno il Giudice delle leggi ha specificato quali siano le tre basi fondanti di tale presa di posizione aperta ad una lettura marcatamente estensiva, individuandoli in tre principi. L'"obbligatorietà dell'azione penale" contenuto nell'art. 112 Cost., il quale va a restringere l'area di azione e la discrezionalità dell'accusa, introducendo forme di controllo finalizzate ad impedire che il principio di disponibilità della prova in capo alle parti si espanda al punto da determinare un'ulteriore disposizione incidente sulla res iudicanda. Troviamo poi il principio della "ricerca della verità"30 già richiamato nelle linee guida della

legge delega n. 81 del 1987, innalzato qui ad obiettivo primario dell'intero procedimento, che per l'importanza rivestita non ammette scelte di metodologie processuali che consentano un "prevalere della

verità formale [...] sulla verità reale", andando in tal modo a tradire la

funzione sottesa all'intero processo derivante dal principio di legalità. Infine troviamo proprio l'appena citato "principio di legalità", il quale

ripercorrendo i tratti distintivi dei precedenti principi citati, evita che il principio dispositivo della prova posto in capo a difesa ed accusa, determini una disposizione anche sull'oggetto dell'accertamento giudiziale, accompagnato dal principio contenuto nell'art. 3 della Cost.:

l'uguaglianza delle parti che assicurerebbe le condizioni per la

determinazione di un genuino convincimento del giudice, senza che si assista ad una dispersione del materiale probatorio31.

Il ragionamento posto in essere dal Giudice delle leggi risulterebbe ad oggi anacronistico non solo per il "mutato quadro costituzionale di

riferimento"32, concernente i principi introdotti nel nostro ordinamento

con la novella dell'art. 111 Cost., ma in particolare per le argomentazioni utilizzate nel sottolineare l'idea della spasmodica ricerca del vero, inquadrata come un "bisogno etico"33 di affermazione

della "verità reale", attuando di conseguenza un parallelismo fra l'obbligo costituzionalmente sancito di esercizio dell'azione penale, che renderebbe altrettanto obbligatorio tale perseguimento della verità, con ogni mezzo reso disponibile all'interno dell'iter processuale. Seguendo questo approccio eccessivamente ideologico si assisterebbe ad uno scollamento fra il fine ultimo del processo penale e la metodologia con cui tale fine può essere perseguito, ovvero con quali mezzi processuali messi a disposizione dal Legislatore si attua in concreto la ricerca della verità.

L'iter ideologico percorso dalla Corte Costituzionale sembrerebbe

"rispecchia[re] il carattere non rigido del sistema accusatorio introdotto nel 1988"34, poichè nel cercare la rispondenza fra il modello

31 Cfr. L. Caraceni, op. cit., pp. 150-51 32 H. Belluta, op. cit., p. 174

33 A. A. Sammarco, Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, Milano, 2001, p. 190, così in L. Caraceni, op. cit., p. 151

34 A. Bassi, Principio dispositivo e principio di ricerca della verità materiale: due raltà di fondo nel nuovo processo penale, in Cass. Pen. 1993, p. 1371

accusatorio italiano e la Costituzione, la Corte non verifica se nel nostro ordinamento sussistano le linee guida del "giusto processo legale", richiamato persino nel preambolo dell'art. 2 della legge delega, portando inevitabilmente a trascurare i valori di imparzialità e contraddittorio. Se quest'ultimo principio non venisse attuato al momento di formazione della prova, si assisterebbe ad un'alterazione del rapporto regola-eccezione fra l'equilibrio tra le parti nell'applicazione del sistema dialettico, iter formativo che si pone come "regola", e l'intervento del giudice collocato su un livello di eccezionalità. In aggiunta a quanto appena detto salta agli occhi la perdita di un altro dei requisiti costitutivi l'integrità dell'organo giudicante, ovvero l'imparzialità, la quale andrebbe a svanire inesorabilmente, determinando in tal senso il ritorno di un ben noto fantasma del passato: il giudice istruttore.

Nell'esegesi estensiva attuata dalla Corte Cstituzionale nei confronti dell'art. 507 c.p.p. scompare quindi del tutto l'ottica di un giudice che insinui il suo intervento, meramente sussidiario, nelle lacune lasciate dalle parti nel corso del confronto dialettico: nella sentenza n. 111 del 1993 infatti i poteri dell'organo giudicante non risultano assolutamente residuali, ma investiti di una forte carica di autonomia, incidente in maniera sicuramente negativa sulla "neutralità cognitiva"35 volta al

perseguimento della giusta decisione, ciò in quanto l'accezione stessa del termine "supplenza" determinerebbe una sorta di sostituzione del giudice alla parte, con l'inevitabile conseguenza di fare propria l'azione per la quale la parte si è attivata ab origine, andando irrimediabilmente ad contaminare il giudizio finale sul fatto.

Coerentemente con quanto prima accennato in merito all'introduzione dei principi di terzietà ed imparzialità nel nostro ordinamento ad opera

della legge n. 2 del 1999, si avrebbe dovuto assistere ad un'inversione di tendenza nell'interpretazione dell'art. 507 c.p.p., certamente verso una direzione restrittiva, ma tali aspettative vengono ad essere deluse da una riconferma dell'orientamento espansivo attuata dalla pronuncia della Cassazione a Sezioni unite del 17 ottobre del 2006. In questa pronuncia si riconferma il potere del giudice di "sostituirsi all'inerzia

del pubblico ministero e dell'imputato acquisendo le prove che questi avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto nei termini previsti", ciò in quanto il riformato art. 111 della Cost. non avrebbe di

fatto inciso sulle prerogative del giudice nell'esercizio dei poteri probatori officiosi previsti nell'art. 507 c.p.p., permettendo all'istituto di "consentire al giudice che non si ritenga in grado di decidere per la

lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone, di ammettere le prove che gli consentono un giudizio più meditato"36.

Secondo i giudici di legittimità infatti la contrazione dei poteri ex officio del giudice andrebbe a rendere vano il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, che come già visto nel parallelismo attuato precedentemente, pretenderebbe una "costante

verifica dell'esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero e quindi anche delle sue carenze od omissioni".

Secondo la pronuncia del Giudice delle leggi l'art. 507 c.p.p. quindi dovrebbe essere letto in chiave preventiva, come istituto posto a verificare che non si pronuncino condanne ingiuste nei casi di

"difensori negligenti che non utilizzano tutti gli strumenti a loro disposizione per un'efficace difesa dei loro assistiti", quindi

l'intervento del giudice assicurerebbe secondo la Corte l'introduzione di un maggior quantitativo di elementi probatori che gli permetteranno, in sede di decisione, di rendere una sentenza che si dimostri più

"equa", il cui contenuto si "mostri aderente ai fatti"37. Tali conclusioni

suonano paurosamente vicine alle vecchie impostazioni inquisitorie, secondo le quali il vero processuale non risulterebbe come conseguenza del quomodo di formazione dell'elemento probatorio, ovvero dal fatto che esso venga ad essere corroborato dal contraddittorio fra le parti, ma bensì scaturirebbe dalla "bulimia" del giudice, ancorando la genuinità della sua decisione ad un principio quantitativo, piuttosto che vertere sulla qualità delle risultanze.

Del tutto trascurata in questa ricostruzione estensiva dell'art. 507 c.p.p. appare la rivoluzione metodologica introdotta dal novellato art. 111 della Cost., nel quale certamente non si trova traccia di divieto di iniziativa istruttoria del giudice, ma si attua una "perimetrazione" del suo potere entro i confini disegnati dall'apporto di accusa e difesa, prospettando in questo senso un rapporto di dipendenza del primo rispetto al secondo, pena il venir meno dell'attributo di terzietà del giudice, che giudice più non sarebbe.