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Imparzialità del giudice: una garanzia fondamentale della persona

La stagione del riformismo processuale

2.2 La legge delega n 81 del 1987: obiettivi primari e linee guida

2.3.1 Imparzialità del giudice: una garanzia fondamentale della persona

L'importante innovazione giunta nel nostro ordinamento grazie alla legge costituzionale n. 2 del 1999, ha permesso di collocare ad un livello apicale delle fonti interne il canone dell'imparzialità, contribuendo allo stesso tempo ad allineare i valori ispiratori del processo penale a quelli presenti nelle fonti sovranazionali. Il principio di imparzialità si configura infatti come facente parte di quel corredo di diritti attinenti la persona in quanto essere umano, in armonia con il più spiccato retroterra normativo giusnaturalistico caratterizzante, per l'appunto, fonti come la Covenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Da essa si può desumere come spetti ad ogni soggetto di poter essere giudicato da un tribunale "indipendente" e "costituito

per legge", due caratteristiche che denotato il profondo legame

sussistente fra il diritto di essere giudicati in virtù dei canoni del fair

trial e l'esistenza di determinate garanzie, come appunto indipendenza

ed imparzialità, senza le quali non si potrebbe certo parlare di equo processo.

Nel novellato art. 111 della Cost. il Legislatore insiste sull'importanza del binomio di imparzialità e terzietà, che deve costituire il fondamento del modus operandi del giudice, per contro non viene fatto riferimento con la medesima enfasi al canone dell'indipendenza, come avviene invece nel testo convenzionale, principio al quale la giurisprudenza della Corte europea ha più volte riconosciuto un ruolo di strumento atto a garantire la concreta imparzialità del giudice. Questo status di essenziale pre-condizione, svolto dal principio dell'indipendenza, lo si ritrova ad esempio in una pronuncia della Corte europea che ha sancito come la "separazione del potere esecutivo e dell'autorità giudiziaria

Corte"25, sottolineando in questo modo l'importanza di mantenere il più

possibile la politica al di fuori dei congegni organizzativi della magistratura.

L'attuazione del canone dell'indipendenza all'interno dei tribunali è reso possibile da un controllo che verte ad esempio sulla designazione in carica dei membri del tribunale e sull'esistenza di garanzie che permettono di bloccare le ingerenze endogene, come la possibilità di affermare che un giudice appare o meno indipendente. Ed è precisamente sull'utilizzo del verbo "apparire" che si concentra l'attenzione dell'opinione pubblica, in quanto è proprio dal connubio fra un'apparente indipendenza dell'organo giudicante e l'imparzialità che lo caratterizza, che poggia la fiducia nella genuinità dell'istituzione giudiziaria e delle sue decisioni. Mantenere questa immagine è quindi di fondamentale importanza per il corretto funzionamento della macchina processuale dei vari stati, ma né l'articolo 6 della Convenzione, né nessun'altra disposizione si permettono di obbligare gli ordinamenti interni a conformarsi a qualsivoglia regola concernente la limitazione di interazione fra poteri. Dunque per salvaguardare il cittadino che venga a trovarsi di fronte ad un giudice che non "appaia" indipendente nella sua decisione, la Corte ha scelto di adottare un modello per cui i singoli possono sollevare individualmente le proprie doglianze e far valere attraverso questo canale i propri diritti. Questo approccio che rifiuta nettamente l'elaborazione di un modello astratto, denota la scelta di un'impostazione che per essere compresa al meglio deve necessariamente essere letta in "chiave personalistica"26.

Ma tale impianto, in apparenza prevalentemente soggettivo rispetto ai principi di indipendenza ed imparzialità, lascia spazio anche ad una

25 Sic C. eur., 6 maggio 2003, Kleyn et autres c. Paesi Bassi, p. 193. 26 H. Belluta, op.cit., p. 44

componente oggettiva, che nel nostro ordinamento si esplicita grazie alla riforma dell'art. 111 Cost., precisamente all'interno della formula

"ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale".

Tralasciando l'analisi linguistica occorre tuttavia inquadrare quali siano le tipologie di meccanismi elaborate dal Legislatore europeo attraverso le quali la previsione di legge acquisisce la forma di concreta garanzia. La Corte europea dei diritti umani codifica la via per arrivare a sollevare ricorso qualificandola come un diritto soggettivo, che se fatto valere dal privato, eleva il suo operato assimilandolo a quello di una sorta di "ambasciatore dell'oggettiva esigenza che l'apparato

giudiziario agisca in modo imparziale"27. Dall'iniziale input del

singolo ricorrente si può osservare come si abbandoni di fatto la prospettiva prettamente individualistica, per approdare ad un sistema giudiziario in cui il canone di imparzialità assuma una dimensione collettiva: il vaglio di imparzialità dovrà infatti avere luogo al

"cospetto della comunità"28.

Ma passando ad un'analisi incentrata sulle pronunce nel merito sul tema dell'imparzialità, è possibile accorgersi di come nella giusiprudenza della Corte europea, si delinei una sorta di bipartizione che i giudici di Strasburgo adottano nell'esegesi del canone di imparzialità. Esso rivelerebbe infatti questa duplice accezione che, ai sensi dell'art. 6 par. 1 della Convenzione, si esplicherebbe in due direzioni: uno in cui l'organo giudicante deve "essere e apparire

imparziale"29 ed un altro profilo, sta volta oggettivo, che verte sulla

verifica di certi fatti che "authorisent à suspecter de ces derniers"30.

27 H. Belluta, op.cit., p. 46 28 H. Belluta, op. loc. cit. 29 H. Belluta, op.cit., p. 47

Abbiamo a questo punto il prospettarsi di due punti di osservazione, dei quali uno predilige la visuale soggettiva, investendo il singolo magistrato in quanto tale e le condotte personali da esso tenute le quali potrebbero in qualche modo inficiare la vicenda processuale, ma non solo, esso si spinge infatti ad un vaglio che si estende fino all'indagine del foro interno del magistrato, che pur sempre è una persona, per

"déterminer ce que tel judge pensait dans son for intérieur en telle circostance"31.

Nonostante l'ampia giurisprudenza della Corte europea al riuagrdo, vi sono di fatto poche pronunce che riuscirebbero a testimoniare la presenza di un'effettiva imparzialità del giudice attinente alla sua sfera interiore, dato che comunque per rilevare una sufficiente soglia di imparzialità sarebbe necessaria la presentazione da parte del ricorrente di elementi probatori di cui per forza di cose egli non riesce a disporre. È per questo che si passa al vaglio della più vasta area dell'imparzialità in senso oggettivo che più raramente delude le aspettative del ricorrente, qui infatti il numero di ricorsi accolti è sensibilmente superiore rispetto a quelli che vertono solo sul vaglio del profilo soggettivo. L'approccio qui condotto risulta traslato dal piano comportamentale alla verifica della sussistenza di determinate situazioni materiali, che oggettivamente sollevino dubbi sull'imparzialità del giudice. Il giudizio verte quindi in questo frangente su dei "faits vérifiables"32, per cui ciò che si vuole verificare

è se la doglianza sollevata dal ricorrente resti confinata nel limbo delle sue percezioni personali o se effettivamente sfoci in un giudizio che sia oggettivamente giustificabile.

Se pur marginalmente trattato all'interno della giurisprudenza della

31 C. Eur. Piersack c. Belgio, 1 ottobre 1982, cit. Ss 30 32 C. Eur. Wettsein c. Svizzera, 21 marzo 2001, cit. § 44

Corte, resta di forte attrattiva la problematica delle interazioni che vengono ad instaurarsi tra il discusso principio di imparzialità e la metodologia di formazione della prova, in particolare nel caso in cui si sia di fronte all'esercizio da parte del giudice degli autonomi poteri d'ufficio, di cui l'ordinamento l'ha munito. Se il giudice decide di far valere la propria autonomia decisionale nell'acqusizione di prove ex officio potrebbe incrinarsi quel principio di parità delle armi che si concretizza nella possibilità per l'imputato di avere diritto all'esame della fonte a carico, indipendentemente se a produrla sia stata l'accusa o il giudice esercitando i propri poteri officiosi. Quindi andando oltre alla dicotomia del profilo soggettivo-oggettivo, in cui si esplica il principio di imparzialità, si potrebbe rinvenire la chiave di lettura dei giudizi della Corte europea sulla discrezionalità del giudice, proprio a partire dalla valutazione del rapporto che sussiste tra organo giudicante ed elemento probatorio.

Il caso di specie che ha permesso di individuare la giusta chiave di lettura è stato il caso Pisano c. Italia deciso dalla Sezione Seconda della Corte europea il 27 giugno del 2000, in cui il ricorso sollevato lamentava la violazione dell'art. 6 parr. 1 e 3, lett. d) della Convenzione, vertendo sulla "iniquité" del sistema procedurale concretizzatosi nel rifiuto opposto dal giudice dibattimentale di esercitare il potere conferitogli dall'art. 507 c.p.p., per supplire la tardività della parte che non aveva potuto inserire il nome del teste a suo discarico nella lista testimoniale entro i termini previsti ex art. 468 c.p.p., a causa della scoperta tardiva. Secondo la Corte il giudice non aveva posto in essere nessun comportamento sanzionabile, in quanto aveva di fatto esercitato poteri che gli spettavano, decidendo nel caso di specie di non attivare il suo potere in quanto non avrebbe ritenuto superato quel vaglio di "assoluta necessità" occorrente per sostituire l'inerzia, in questo caso involontaria, della parte. Quindi, non potendo

la Corte esprimere un proprio giudizio di merito sulla prova "scartata" o sulla colpevolezza, piuttosto che l'innocenza, dell'imputato non ha riscontrato alcuna violazione dell'"égalité des armes che postula l'esistenza di un occasione adeguata per la citazione dei testimoni"33,

ma che non garantisce allo stesso tempo la convocazione di ogni teste citato all'interno della lista testimoniale.

Il caso esaminato determina il sorgere di svariati dubbi sull'effettiva realizzazione del principio di imparzialità di fronte all'inerzia del giudice nell'esercizio dei suoi poteri istruttori d'ufficio, in particolare l'origine del pregiudizio deriverebbe dalla tipologia di controlli e rimedi che le parti possono utilizzare di fronte al rifiuto del giudice di attivare tali poteri. Ecco quindi che il modus operandi del giudice rispetto al potere offertogli dal Legislatore andrà esaminato cercando di effettuare un bilanciamento con i principi di parità delle parti, col metodo del contraddittorio e rispetto al canone dell'imparzialità.

Capitolo III

"Giudice, parti e prove nel nuovo Codice di Procedura

penale"

SOMMARIO: 3.1 "Diritto alla prova": epicentro del sistema processuale -3.1.1 L'art. 190 e il suo background normativo -3.2 La disponibilità della prova e l'intervento ex officio del giudice: come si conciliano? -3.3 L'art. 507 c.p.p.: il perimetro dell'intervento ope

iudicis -3.4 Criteri per l'ammissione della prova ex officio -3.5 La

recente pronuncia n. 73 della Corte Costituzionale -3.6 L'art. 507 c.p.p. rispetto al diritto alla controprova e al contraddittorio -3.7 Profili di conciliazione fra intervento del giudice ex art. 507 c.p.p. e imparzialità -3.8 Il comma 1-bis dell'art. 507 c.p.p.

3.1 "Diritto alla prova": epicentro del sistema

processuale

Per meglio addentrarsi nella disamina dei poteri ex officio del giudice in ambito istruttorio, è necessario cercare di inquadrare come si colloca il rapporto fra organo giudicante ed elmento probatorio, in particolare delineando il perimetro di azione riservatogli per esercitare i poteri di cui il Legislatore l'ha munito.

Appurato che il fine ultimo cui tende il procedimento penale è la ricerca della verità, si può senz'altro affermare che il meccanismo di raccolta degli elementi probatori sia quel "marchingegno"1 attraverso

cui il giudice cerca di individuare un profilo di corrispondenza fra l'esistenza del fatto storico su cui verte l'indagine e l'enunciato

descrittivo contenuto nella norma penale: viene quindi a sussistere un nesso inscindibile fra la prova e l'obiettivo stesso del procedimento penale. Come esaminato nel capitolo precedente, il Legislatore ha provveduto a disegnare un modello processuale che, sullo sfondo del novellato art. 111 Cost., esprima la finalità ultima in cui si inquadra l'intero sistema, ovvero l'ottenimento di una verità pratica, qualificata come risultato ultimo del percorso conoscitivo posto in essere tramite il confronto dialettico fra le parti: il contraddittorio, che va a fondarsi sugli elementi di parità tra accusa e difesa. Ed è proprio dallo scontro fra prospettive opposte di cui sono foriere le parti nel processo che scaturirà la verità, sempre che quest'ultima venga a formarsi in un contesto procedimentale che veda rispettate le regole imposte dal Legislatore, di cui sarà garante il giudice terzo ed imparziale.

Ma che cosa si intende per verità? Essa nasce dall'innesto di un dubbio e si configura come superamento del dubbio stesso, l'attività giurisdizionale si esplica esattamente in tale funzione, in cui il giudice deve ricomporre nella propria decisione finale la tesi e l'antitesi di fronte alle quali è venuto a trovarsi nell'iter istruttorio, sciogliendo definitivamente quel nodo, per pervenire alla risoluzione del dubbio. Dal contesto appena descritto appare lampante come sia di fondamentale importanza la metodologia adottata nel procedimento di accertamento della verità giudiziale, la quale risulta "relativa" poichè espressione del risultato di una ricerca che viene condotta entro i limiti prestabiliti dal diritto positivo, ma che allo stesso tempo mira al conseguimento di un grado di approssimazione quanto più elevato possibile alla "verità materiale" dei fatti ritenuti rilevanti per la risoluzione della controversia2. La genuinità del risultato cui si

2 L. P. Comoglio, "Riforme processuali e poteri del giudice", Giappichelli, Torino, 1996, p. 232

perviene risiede nel "giusto procedere", che nel nostro ordinamento viene inquadrato nella corretta conduzione del contraddittorio fra le parti, strumento che sembrerebbe ridurre il più possibile la distanza fra verità frutto del procedimento giudiziale e verità storica. L'accertamento che viene condotto verte in ogni caso sulla presunta genuinità di un enunciato fattuale, ovvero di un'affermazione, non di un fatto, che costituisce il vero e proprio oggetto di prova. Il thema

probandum quindi è il risultato della somma delle proposizioni

rappresentative di un fatto giuridicamente rilevante, ovvero le asserzioni concernenti non solo il fatto principale a cui è connessa l'integrazione della fattispecie astratta, ma anche i fatti primari ritenuti elementi fattuali integranti la fattispecie, ed in quanto tali utili alla decisione finale3.

La metodologia perseguita nell'accertamento della verità all'interno del procedimento penale, sembra ricalcare i tratti della tecnica

"falsificazionista"4 propria dalla ricerca scientifica, un procedimento

incentrato non tanto sulla verifica dell'ipotesi da cui prende le mosse il riceratore, ma sul continuo confutare l'assunto di partenza per assodarne l'effettiva resistenza alle obiezioni che egli stesso pone. Allo stesso modo l'organo giudicante conduce l'accertamento della verità a partire dalle ipotesi che le parti introducono nell'iter processuale, sottoponendole alla vicendevole confutazione, frutto della dialettica che si ingenera tra le parti. I tratti salienti dello schema adottato nella ricerca scientifica si ripetono nel processo penale con la capacità che l'ipotesi avanzata da una delle parti ha di resistere alle critiche derivanti dal contraddittorio: si assiste quindi ad una vera e propria azione dimostrativa condotta dai contraddittori, da cui scaturirà infine la

3 G. Ubertis, "Prova (in generale)", in Dig. Disc. Pen., X, Torino, 1995 p. 300 4 Cfr. K. Popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della

possibilità di sovrapporre l'enunciato di una delle parti alla fattispecie astratta tassativamente prevista dal Legislatore.

L'iter di accertamento appena descritto richiama il modello triadico all'interno del quale si collocano le figure della Pubblica Accusa, della difesa e del giudice, tutte ugualmente indispensabili per la realizzazione della giurisdizione. È proprio attraverso la partecipazione di tutti i soggetti processuali che si può pervenire alla decisione finale del giudice, il quale all'interno del procedimento non conduce assolutamente "un'autonoma ed autoreferenziale indagine

conoscitiva"5, ma bensì fonda il proprio convincimento sulla base del

paritetico apporto dei contraddittori nella vicenda. L'attività condotta dal magistrato, se pur superficialmente assimilabile a quella posta in essere dallo storico nella ricostruzione fattuale, in realtà si distanzia da essa per il connotato di imparzialità che ne deve contraddistinguere l'operato: il magistrato infatti non può approcciarsi alla vicenda partendo da un proprio disegno, come invece è possibile per lo storico che vuole e deve verificare un'ipotesi di lavoro di partenza, il giudice deve avvicinarsi alla vicenda mantenendo la propria "verginità mentale" intatta, così da garantire un giudizio realmente imparziale e non condizionato da propri convincimenti avulsi dalla vicenda in esame. Il giudice è tenuto a rimanere in un certo qual modo "passivo", nel senso che egli non deve "spingere lo sguardo indiscreto al di là [del petitum]"6, in modo da garantire la sua imparzialità, in ossequio

alle scelte attuate dal Legislatore per regolamentare il delicato ambito delle prove, che caratterizza di fatto il fulcro di ogni sistema processuale. Tale impostazione delinea in modo netto la scelta attuata dal Legislatore nella legge delega n. 81 del 1987, scelta che vede il

5 L. Caraceni, op. cit., p. 66

nostro sistema rivoluzionato dalle fondamenta per adattare il modello processuale tutt'ora vigente ai dettami del processo di tipo accusatorio. Il vecchio sistema inquisitorio, imperniato sul principio dell'autorità del giudice, secondo cui il perseguimento della verità risultava facilitato in modo direttamente proporzionale all'aumento dei suoi poteri, determinava la presenza nel procedimento di un giudice

"onnivoro"7, che fagocita ogni elemento ritenuto pertinente alla

vicenda in esame, grazie alle ampie prerogative di cui gode nella ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova, portando inevitabilmente ad una pressochè totale deregolamentazione del procedimento probatorio. Con l'abbandono di questa prospettiva si approda ad un sistema in cui regna la "legalità della prova" ed in cui la regolamentazione giuridica ricevuta si impernia su un sistema di partizione delle funzioni, in cui al giudice spetta solo di scegliere tra le differenti ricostruzioni attuate dalle parti, quella che sulla base delle prove ricercate ed introdotte da difesa ed accusa, si rivelerà più solida e resistente alle confutazioni. Nella ripartizione funzionale ha sede il bilanciamento fra poteri all'interno del processo, di modo che nessuno possa abusare della propria posizione.