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La recente pronuncia n 73 del 2010 della Corte Costituzionale

La stagione del riformismo processuale

3.5 La recente pronuncia n 73 del 2010 della Corte Costituzionale

Ancora una volta ci si trova dinnanzi ad una pronuncia che adotta una chiave di lettura "estensiva" del potere probatorio ex officio previsto dal Legislatore nell'art. 507 c.p.p., in cui il Giudice delle leggi sembra ricalcare le linee guida della precedente sentenza n. 111 del 1993, anche se improntandola ad un modello di ragionamento che si discosta da quello adottato nella precedente, legato ad un'"approccio dogmatico" che poneva come fine ultimo la "ricerca della verità" ed il potere officioso del giudice inquadrato in un'ottica prettamente "servente"55. Nel caso di specie il dubbio di legittimità costituzionale

sollevato dal Tribunale di Torino verteva su uno dei punti più controversi, sia in dottrina che in giurisprudenza, dell'art. 507 c.p.p., ovvero l'esercizio delle prerogative istruttorie officiose dell'organo giudicante nel caso in cui ci si trovi dinnanzi ad una lacuna probatoria determinata dall'inerzia del Pubblico ministero rispetto al suo dovere di attivarsi per il deposito delle liste testimoniali, entro il termine previsto ex art. 468 c.p.p.. Nel procedimento in questione, l'accusa aveva pensato di ovviare alla declaratoria di inammissibilità per tardivo deposito delle liste testimoniali, ricorrendo alla sollecitazione dei poteri officiosi del giudice: in tal modo il giudice avrebbe dovuto provvedere ai sensi dell'art. 507 c.p.p. all'ammissione della prova testimoniale, anche senza che il Pubblico ministero avesse specificato nell'istanza il motivo del ritardo nella presentazione della lista entro il termine prescritto nell'art. 468 c.p.p. e, senza oltretutto aver indicato le ragioni di assoluta necessità richieste come parametro di ammissibilità

55 Cfr. P. P. Paulesu, nota a commento "Iniziative probatorie del giudice dibattimentale e giusto processo", in Giur. Cost., 2010, p. 843

dallo stesso art. 507 c.p.p..

Il giudice remittente del Tribunale di Torino solleva la questione di costituzionalità prendendo le mosse da una lettura restrittiva del potere di iniziativa probatoria del giudice dibattimentale, facoltà che nel caso di specie sarebbe andata ad innestarsi su di un sostrato pressochè nullo di attività probatoria previamente svolta dalle parti, determinando il sorgere di un'attività propriamente "suppletiva", diretta a sostituire la carenza probatoria di parte, andando in questo senso ad inficiare irreparabilmente l'imparzialità del giudice. Secondo il giudice remittente si assisterebbe inoltre ad uno svilimento del criterio di "assoluta necessità" richiesto dall'art. 507 c.p.p., in quanto "consentire

al giudice di attivarsi ex officio di fronte alla totale inerzia delle parti, e quindi anche quando si registri la mancanza di un qualsiasi atto all'interno del fascicolo per il dibattimento" non toglierebbe il fatto

che questo requisito persista, "posto che la sola alternativa

all'intervento probatorio sarebbe l'epilogo assolutorio per mancanza di prove"56.

Ciò che risulta opinabile, rispetto al taglio dato dal giudice rimettente nei confronti della questione prospettatagli, è senz'altro la diretta associazione di idee che viene a crearsi nel suo ragionamento fra l'iniziativa ex officio e l'automatica contaminazione dell'imparzialità. Non si può infatti in tal senso paventare una perdita della neutralità dell'organo giudicante a fronte di un suo intervento teso all'introduzione in dibattimento di una prova, utile per la formazione del suo libero convincimento: l'aver "ritagliato" al giudice la possibilità di acquisire elementi probatori in caso di incertezza sui fatti è diretta conseguenza di un sistema in cui non è ammesso il non liquet e quindi per raggiungere un sufficiente convincimento, ed essere a sua volta

convincente anche nella motivazione che produrrà, non si può pretendere che, durante lo scontro dialettico fra le parti, assuma le vesti di un "convitato di pietra"57. Il compromesso da perseguire sarebbe

quello di riuscire a mantenere intonsa l'imaprzialità del giudice permettendogli allo stesso tempo di non rinunciare all'espletamento di una completa istruttoria dibattimentale, nella quale egli non persegua una propria ipotesi ricostruttiva dei fatti tramutandosi da soggetto "da

persuadere" in "soggetto incline ad autopersuadersi"58.

Il punto nevralgico della questione si mostra in tutta la sua complessità nel caso in cui il giudice non possa contare su di un sostrato probatorio, risultante dalla pregressa attività istruttoria condotta dalle parti, in assenza della quale si avrebbe il rischio dell'identificarsi dell'organo terzo con una delle pretese di parte. Nulla quaestio se il giudice va ad integrare un quadro probatorio ritenuto insufficiente servendosi degli strumenti che il Legislatore gli ha offerto, quali le "letture" di cui all'art. 511 c.p.p. che gli permette di attingere direttamente al fascicolo del dibattimento; oppure ricorrendo all'art. 507 comma 1-bis, grazie al quale egli può accedere ad elementi che gli permettano di acquisire d'ufficio prove nuove sulla base di un previa negoziazione fra le parti stesse. La criticità nell'intervento officioso si origina nel momento in cui ci sia totale mancanza di testimoni, come appunto si riscontra nel caso sollevato dal Tribunale di Torino, in cui il Pubblico ministero era decaduto dal termine previsto nell'art. 468 c.p.p. per il deposito della lista. Nel caso di specie il giudice opera in qualità di sostituto delle parti, poggiando il proprio intervento sul niente, ovvero sulla completa assenza di premesse probatorie, andando quindi ad individuare automonamente le prove utili in coerenza con la

57 P. P. Paulesu, op. cit., p. 845

58 P. P. Paulesu, Giudice e parti nella "dialettica" della prova testimoniale, Torino, 2002, p. 260

propria ipotesi ricostruttiva dei fatti59.

I due quesiti di fondo, che la Corte ha cercato di dirimere con il percorso ricostruttivo intrapreso nella sentenza n. 73 del 2010, sono quindi riassumibili in due punti: quello concernente la possibilità del giudice di poter intervenire ex art. 507 c.p.p. nel caso di assoluta assenza di materiale probatorio, cercando però di non sfociare, con tale intervento, in un'autonoma ipotesi ricostruttiva ed in secondo luogo quello inerente al rapporto fra la possibilità di esercitare tale prerogativa officiosa senza, allo stesso tempo, inficiare la sua imparzialità. Il Giudice delle leggi ha dichiarato la questione sottopostagli dal rimettente di Torino infondata, ed ha articolato la propria argomentazione su tre livelli che si intersecano: la natura non necessariamente officiosa dell'intervento giurisdizionale ex art. 507 c.p.p., risultante dal dato tesuale "può disporre anche d'ufficio"; il rapporto tra le iniziative probatorie del giudice e la sanzione di inammissibilità derivante dal mancato rispetto del termine di cui all'art. 468 c.p.p. ed infine l'espletamento del contraddittorio ex post sulla risultanza probatoria introdotta nel procedimento ex officio60.

L'iniziativa officiosa di cui all'art. 507 c.p.p., se letta in combinato disposto con l'art. 151 disp. att. c.p.p., si realizza sia nell'ipotesi in cui si abbia una sollecitazione di parte, sia nel caso in cui il giudice stesso proceda con il disporre l'esame di un teste, attuando una sorta di pre- escussione, per poi decidere quale parte sia legittimata a procedere all'esame diretto. A fronte di ciò, dato che l'organo giudicante per sua natura non conosce nel dettaglio la vicenda, cercherà di "non

trascurare o sottovalutare gli stimoli cognitivi (ancorche "tardivi") provenienti dall'accusa e dalla difesa"61, ponendoli come base di

59 Cfr. P. P. Paulesu, op. loc. cit., p. 846 60 Cfr. P. P. Paulesu, op. loc., p. 847

partenza per le proprie iniziative istruttorie, evitando così di allontanarsi dal ruolo imparziale per lui disegnato dal Legislatore. Ma interpretare il dato normativo contenuto nelle parole "anche d'ufficio" come nesso di dipendenza logica per l'attivazione delle prerogative officiose del giudice ex art. 507 c.p.p. vorrebbe dire non tenere conto della diversa sfumatura che sussiste fra diritto alla prova, di cui sono forieri gli artt. 190 e 495 c.p.p. e diritto a sollecitare il giudice ai sensi dell'art. 507 c.p.p. dalla cui osservazione è desumibile il chiaro rapporto di regola-eccezione sussistente fra i due.

Nel caso della "regola", se la parte non deposita le liste testimoniali dieci giorni prima dell'udienza fissata per l'apertura del dibattimento, ciò che si determina è la perdita del diritto alla prova previsto dall'art. 190 c.p.p., restando in capo alla parte la possibilità, nel momento degli atti introduttivi del dibattimento, di richiedere un intervento dell'organo giudicante ai sensi dell'art. 493 comma 2 c.p.p.62, affinchè egli attui una

sorta di ripescaggio dell'elemento probatorio: in questo caso si genererebbe un dovere di attivazione del giudice qualora l'elemento in questione superi il vaglio di ammissibilità informato ai criteri di legittimità, non manifesta superfluità ed irrilevanza, propri dell'art. 190 c.p.p.. Nel caso invece del potere previsto ex art. 507 c.p.p. ci si trova di fronte ad un'eccezione che va a porsi "al di fuori dell'area del diritto

all'ammissione della prova"63, diritto che la parte rimasta inerte ha

visto inesorabilmente consumarsi. Da quanto detto è possibile desumere come il giudice, qualora decidesse di intervenire su impulso di parte, non sia tenuto ad attenersi al perimetro dell'apporto probatorio immesso dalle parti nel procedimento e neanche al tipo di prova per la

62 "E' ammessa l'acquisizione di prove non comprese nella lista prevista

dall'articolo 468 quando la parte che le richiede dimostra di non averle potute indicare tempestivamente".

quale ha ricevuto la sollecitazione: egli può quindi spaziare e decidere di ammettere degli elementi che egli ritenga tali da superare il vaglio di

"assoluta necessità", indispensabile per motivare la sua scelta.

Per quanto concerne il secondo livello argomentativo riguardante il rapporto fra la sanzione di inammissibilità derivante dall'applicazione dell'art. 468 c.p.p. e le iniziative officiose ex art. 507 c.p.p., risulta lampante la problematica insita nell'effetto di "ripescaggio" derivante dall'esercizio dei poteri officiosi del giudice, che annullerebbe di fatto qualsiasi portanza sanzionatoria derivante dalla previsione di apposite preclusioni nell'art. 468 c.p.p.. Per dirimere questa controversia è necessario chiarire che l'inammissibilità prevista nella norma sopra citata va a colpire non la prova in sé, bensì il mezzo procedurale attraverso cui essa viene immessa nell'iter processuale, il bersaglio della sanzione è quindi la richiesa della prova effettuata dalle parti tardivamente: è l'inerzia delle parti che consuma il diritto alla prova, ma non la prova in quanto tale. Da qui si desume la connotazione prettamente soggettiva della sanzione di inammissibilità, motivo per cui essa non potrà precludere in alcun modo il potere del giudice di cui all'art. 507 c.p.p., il quale si pone su un piano nettamente distinto. La parte inerte perde quindi il proprio diritto alla prova riuscendo a mantenere un potere di sollecitare l'intervento del giudice, ingenerando una mera aspettativa, la quale potrebbe anche essere delusa dal rigetto dell'istanza, poichè la prova in questione non disporrebbe dei requisiti tali da superare il vaglio di ammissibilità, sta volta informato al più restrittivo criterio di "assoluta necessità".

Dopo questa ricostruzione dei primi due livelli argomentativi adottati nella sentenza n. 73 del 2010, rimane da analizzare quello che, secondo i giudici della Corte, sembrerebbe maggiormente porsi a baluardo dell'imparzialità dell'organo giudicante. Questa andrebbe ricercata non solamente nel tentativo di dare dei margini definiti all'estensione dei

poteri del giudice, ma dovrebbe soprattutto incentrarsi sulla metodologia adottata nel procedimento di formazione della prova. Si allude al diritto alla controprova e al contraddittorio (stabiliti ex art. 111 comma 4 della Cost.) che, nel caso di attivazione dei poteri officiosi, permette alle parti di poter difendere la propria posizione adducendo prove contrarie oppure facendo istanza di escussione del teste introdotto d'ufficio. Abbiamo già potuto osservare nei capitoli precedenti come imparzialità e contraddittorio risultino due facce della stessa medaglia, saldamente legate in un rapporto biunivoco in cui l'una è servente rispetto all'altra: l'imparzialità del giudice vista come garanzia per il corretto espletamento del contraddittorio e per contro il contraddittorio posto a garanzia irrinunciabile per la sussistenza dell'imparzialità64. Ogni elemento probatorio introdotto nelle maglie

del processo deve poter essere corroborato dallo scontro dialettico fra le parti, senza attuare distinguo di fase, ed è per questo che parimenti a come avviene per le prove introdotte dalle parti, così anche per le prove introdotte d'ufficio si avrà un corretto confronto dialettico fra i contraddittori che assicurerà la genuinità dell'elemento probatorio risultante, evitando in tal modo di inficiare l'imparzialità dell'organo giudicante che ha reputato opportuno esercitare i poteri di cui l'art. 507 c.p.p. lo ha munito.

In sintesi si assisterebbe al semplice mutare dell'input introduttivo dell'elemento probatorio nel procedimento, senza che questo determini automaticamente una preconcetta parzialità del giudice, celata dietro alla necessità di compensare una pregressa negligenza dell'accusa, come avvenuto nel caso di specie posto all'attenzione della Corte. Per maggior completezza espositiva mi sembra doveroso porre l'attenzione sulla ancor più recente sentenza n. 27879 emanata in data

26 giugno 2014 da parte della I Sez. della Cassazione Penale. In essa si affronta la questione relativa alla possibilità per il giudice di usufruire dei poteri di cui all'art. 507 c.p.p. con la finalità di recupero al fascicolo del dibattimento di un atto dichiarato inutilizzabile a causa del suo omesso deposito ai sensi degli artt. 415-bis e 416. Nel caso di specie si trattava di un'intercettazione telefonica che, per negligenza del Pubblico Ministero, non aveva trovato spazio all'interno del fascicolo del dibattimento ingenerando nella pubblica accusa la speranza di poterla vedere acquisire in virtù dell'esercizio da parte del giudice dibattimentale dei poteri officiosi di cui all'art. 507 c.p.p.. Questa aspettativa secondo i giudici della prima Sezione non poteva trovare accogliemento in virtù della mancanza del presupposto fondamentale necessario per l'attivazione dei poteri ex officio, ovvero il connotato di "novità" di cui per forza di cose l'intercettazione in questione non poteva essere munita in quanto atto già esistente, ma viziato per il mancato deposito nel fascicolo.

Nel caso di specie quindi l'atto di indagine nella disponibilità della pubblica accusa veniva ad essere reso inutilizzabile come sanzione alla negligenza del Pubblico Ministero, non potendo la conversazione in questione essere acquisita in virtù dell'art. 507 c.p.p. essendo essa viziata non tanto dal punto di vista genetico per l'eventuale mancanza del decreto di autorizzazione, bensì presentando essa un vizio sotto il profilo funzionale. La Corte afferma quindi che «Non è consentito

l’esercizio del potere istruttorio ex officio, di cui all’art. 507 c.p.p., al fine di recuperare al fascicolo del dibattimento un atto ontologicamente irripetibile del medesimo procedimento (nella specie, intercettazione telefonica) dichiarato inutilizzabile a causa del suo omesso deposito.ai sensi degli artt. 415 bis e 416 del codice di rito.».

Da non confondere il caso appena esminato, concernente il recupero di un atto già esistente ma di cui c'è stato un omesso deposito, con il caso

dell'ammisione di nuove prove testimoniali da cui le parti siano decadute a causa di una tardività rispetto al termine di cui all'art. 468 c.p.p.. In questo caso infatti il potere di supplenza del giudice chiamato ad esercitare le prerogative di cui l'art. 507 c.p.p. lo munisce, si qualifica come atto che si pone "a cavallo tra un atto legittimo (in

quanto depositato) e uno successivo parimenti legittimo (l’assunzione della prova in contraddittorio)"65 senza determinare la violazione del

principio di parità delle armi e non sfociando nel recupero di un atto viziato, poichè non depositato, come nel caso dell'intercettazione telefonica, peraltro irripetibile in fase dibattimentale.