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4. Porto Marghera: la nascita e il tramonto del polo industriale

4.11 Un nuovo paradigma giurisprudenziale di colpa: valutazione critica della destrutturazione

4.11.2 La dissoluzione dell’agente modello

Nel percorso che ha condotto i giudici di appello, e di legittimità, a forgiare la colpa secondo un paradigma di mero rischio, un ruolo centrale l’ha assunto la valutazione della misura delle conoscenze richieste all’agente modello.

Tale profilo è reso particolarmente delicato, specie in situazione di rischio come l’esposizione a sostanze tossiche (Cvm, amianto), a causa del lungo periodo di latenza che si frappone tra il momento dell’esposizione e la verificazione del danno alla salute. In questi casi, infatti, diventa cruciale individuare il livello delle conoscenze diffuse sulla tossicità di una determinata sostanza all’epoca in cui veniva utilizzata.

‹‹Il principio dal quale prendere le mosse è che le conoscenze rilevanti non sono solo quelle diffuse nella cerchia degli specialisti, e tanto meno le conoscenze avanzate in centri di ricerca, bensì sono le conoscenze che costituiscono un patrimonio diffuso a partire da una certa data››177

. Circa il momento a partire dal quale le conoscenze possono dirsi diffuse, questo va desunto dalle informazioni che l’agente modello è in grado di acquisire al tempo della condotta tipica.

Infine, occorre chiedersi quale sia lo ‹‹statuto epistemologico della conoscenza››, cioè in presenza di quali condizioni (costitutive) un’ipotesi cognitiva può assumere il rango di conoscenza scientifica, come tale sfruttabile dall’agente modello. In tal senso, è necessario che una conoscenza sia accreditata da un consenso sufficientemente consolidato nella comunità degli esperti, in virtù dell’elevato grado di credibilità razionale178.

Le considerazioni anzidette sul livello di perizia esigibile dall’agente modello, costituiscono un’acquisizione consolidata di tutti gli ordinamenti contemporanei.

176 A. Gargani, La “flessibilizzazione” op. cit. pag. 421. 177

C. Piergallini, Il paradigma op. cit. pag. 1678.

178 Ibidem in cui l’autore afferma che tale assunto debba essere inteso in senso autenticamente

popperiano:‹‹ in assenza cioè, sia di intervenute falsificazioni, sia di un’omessa verifica di ipotesi plausibili di falsificabilità della legge scientifica formulata››.

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Eppure, nella vicenda in esame, tali assunti sono stati totalmente disattesi allo scopo di legittimare la ricostruzione della colpa secondo un paradigma di mero rischio.

La Corte di Cassazione, accogliendo l’impostazione della sentenza d’appello e in senso contrario alle conclusioni di primo grado, ha ritenuto che nel periodo antecedente al 1969 fosse nota e, dunque, prevedibile sulla scorta del criterio nomologico, l’idoneità del Cvm a danneggiare il fegato. E, in riferimento agli effetti carcinogenetici del Cvm, la conclusione che già a partire dal 1970 si fosse nelle condizioni di percepire il rischio tumorale, seppure senza alcuna certezza: fonda il giudizio di prevedibilità ex ante non sulle leggi scientifiche disponibili all’epoca della condotta, ma su una condizione di sospetto fattuale derivante dagli studi condotti dal prof. Viola.

Il percorso che conduce i giudici a tali conclusioni è contrassegnato da una corposa semplificazione.

Per fondare il rimprovero colposo è sufficiente, infatti, la consapevolezza della natura epatotossica del Cvm, cioè della sua idoneità ad aggredire l’organo del fegato provocandone malattie. Ed è il danno alla salute l’evento al quale riferire il giudizio di prevedibilità che, per contro, non deve riguardare lo specifico evento hic et nunc verificatosi (morte conseguente ad angiosarcoma del fegato).

Sebbene tali conclusioni sembrano inoculare alcuni fraintendimenti già sotto il profilo relativo alla consapevolezza della natura epatotossica del Cvm negli anni ’60179

. È sul terreno della sospetta cancerogenicità del Cvm che vengono stravolti i consolidati principi in tema di accertamento del coefficiente colposo.

La scelta di incardinare la conoscibilità della natura cancerogena del Cvm al momento degli studi condotti da Viola, reclama, per l’agente modello, ‹‹un corredo di saperi massimamente esteso, sia perché confinato negli istituti di ricerca, sia perché sprovvisto di validazione scientifica››180

. Da tale premessa, allora, prende le mosse, in forma retrospettiva, l’addebito di colpa consistente nell’omissione di quelle stesse cautele adottate dall’azienda una volta certificata la cancerogenicità del Cvm: mancato blocco degli impianti, omesso abbattimento delle esposizioni, mancati investimenti e adeguamenti in sicurezza.

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In particolare, dalla dialettica processuale era emerso che ‹‹più di epatotossicità si era davanti ad una tossicità ad ampio spettro, evocativa di una pluralità di patologie di diverso impatto, ma in nessun caso correlabili ad esiti infausti (morte) o a mutazioni oncogene›› .

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La ricostruzione della colpa sconta, dunque, quella tensione tra “saperi del presente” e “saperi del passato” che si traduce nel riferire all’agente modello conoscenze successive alla condotta. Tali saperi, intesi al pari di un patrimonio cognitivo diffuso, avrebbero dovuto indurre l’agente all’adozione di quelle cautele che

ex post (al momento del giudizio) si sono rilevate idonee ad impedire l’evento.

Piergallini evidenzia come tale ricostruzione presenti due fraintendimenti: il primo riguarda il momento in cui ad un’ipotesi cognitiva può riconoscersi lo status di conoscenza; il secondo concerne l’individuazione del momento a partire dal quale ‹‹una conoscenza possa definirsi diffusa e penetrata nel circuito sociale di appartenenza dell’agente modello››181

.

Con riferimento al primo profilo, va rilevato che agli studi condotti dal prof. Viola non poteva attribuirsi il rango di scoperta scientificamente testata: non solo perché si trattava di una ricerca pioneristica condotta su cavie in un contesto metodologico, quello del 1969, che non permetteva di estrapolare i risultati all’uomo, ma anche, e soprattutto, perché la ricerca presentava una manifesta diversità dei presupposti dell’esperimento rispetto alla realtà fattuale presente in Montedison182

. In tal senso, la ricerca Viola seppur meritoria, era da considerare scientificamente inservibile anche solo per fondare l’ipotesi scientifica della cancerogenicità del Cvm. Del resto, la conferma che si trattasse di un sapere precario arriva dalle ricerche successive: gli studi del prof. Maltoni confermarono la cancerogenicità del Cvm, ma non con riferimento agli organi bersaglio individuati da Viola, bensì con riguardo al fegato.

Quanto al profilo della diffusione di una conoscenza, è da ritenere che non fosse nella disponibilità dell’agente modello, sebbene particolarmente attrezzato come la Montedison, un sapere comunicato in congressi scientifici alla stregua di un’ipotesi sperimentale. Non può, quindi, affermarsi che gli studi del prof. Viola costituissero un patrimonio conoscitivo diffuso a partire da una certa data.

Di contrario avviso, sono le sentenze in esame che, secondo criteri funzionali alla curvatura dell’illecito colposo verso un paradigma di rischio, hanno ridefinito lo

181

Ibidem.

182 Lo studio del prof. Viola era condotto su animali sottoposti a dosi elevatissime di Cvm (un autentico

bombardamento) per periodi di tempo brevi. Mentre, per contro, i lavoratori del Petrolchimico erano esposti a concentrazioni medio-alte di Cvm per un rilevante intervallo di tempo.

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statuto della conoscenza scientifica e il momento della sua diffusione. L’essenza di questa operazione, secondo Piergallini, va ravvisata nella dissoluzione del parametro dell’agente modello, così come tradizionalmente enucleato da dottrina e giurisprudenza, soppiantato da una nuova ‹‹Massfigur››, doverosamente protesa alla ricerca del primo segnale di allarme in ordine alla pericolosità di una sostanza o di un prodotto183.

In questa prospettiva, la sola presenza di un segnale di allarme renderà non più imprevedibile l’evento lesivo e, dunque, responsabile l’agente laddove non si sia attivato per disinnescarlo.

Secondo la ricostruzione dei giudici, dunque, l’agente modello, nell’esercizio di un’attività collettivamente organizzata, sarebbe chiamato ad oneri informativi superiori, allo scopo di ricercare la sussistenza di ipotesi cognitive in ordine alla sospetta pericolosità dell’attività svolta. La reperibilità di un’ipotesi cognitiva, non legittimerebbe eventuali approfondimenti scientifici volti a verificarne l’effettiva attendibilità, ma imporrebbe, altresì, di andare subito alla ricerca delle misure precauzionali. Emblematica, a tal proposito, è la posizione assunta dai giudici delle due Corti che rimproverano agli imputati la scelta di affidare al prof. Maltoni una ricerca, dopo essere venuti a conoscenza degli studi condotti da Viola. L’investimento nella ricerca sarebbe, secondo gli organi giudicanti, un espediente teso a procrastinare gli investimenti in sicurezza necessari al contenimento del rischio.

È evidente, dunque, la distanza che separa questa impostazione da quella del Tribunale. Secondo quest’ultima, il reperimento di studi che non assurgono al rango di conoscenze scientifiche testate può, al più, sollecitare l’agente modello allo svolgimento di ulteriori indagini conoscitive dirette a saggiare il tasso di plausibilità dello studio184. Un approfondimento che mai potrebbe essere considerato un escamotage per procrastinare gli investimenti necessari per l’adozione delle misure cautelari.

183 C. Piergallini, Il paradigma op. cit. pag. 1680. 184 Ivi, pag. 1681.

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