• Non ci sono risultati.

4. Il Diritto amministrativo nella società del rischio

2.1 Il Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro: dall’eliminazione del pericolo alla

Il d. lgs. 81/2008 in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è dimostrazione, insieme ad altri interventi normativi, della propensione legislativa a fronteggiare vecchie e nuove tipologie di rischi, attraverso l’elaborazione di regole di condotta, regole organizzative e procedurali ‹‹finalizzate a promuovere la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro››16

.

È utile osservare, come questo atto normativo, riprendendo la prassi sviluppata negli ordinamenti comunitari ed anglosassone, compia una scelta di metodo, da cui è possibile intravedere delle tracce normative precauzionali, scegliendo di fornire una definizione dei concetti di “pericolo” e di “rischio”. L’art. 2 lettera r del presente decreto legislativo, definisce il pericolo come : ‹‹proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni››; mentre la successiva lettera s definisce la nozione di rischio come: ‹‹probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione››.

La distinzione operata dal legislatore tra le nozioni di rischio e di pericolo, se da una parte dimostra un’attenzione legislativa verso le esigenze poste dalla modernità, dall’altra si è dimostrata del tutto priva di effetti sul piano applicativo. La descrizione normativa del pericolo, traduce in parte la categoria concettuale, presupponendo la conoscenza di un retroterra epistemologico in grado di spiegare l’idoneità, sotto il profilo eziologico, di un determinato fattore ad evolversi in danno. Al contrario meno afferrabile risulta la nozione di rischio, che secondo un primo approccio sembrerebbe da ricondurre ad un certo schema causale, almeno laddove si enfatizzi la definita relazione di probabilità, di raggiungimento del livello potenziale di danno, ossia di probabilità del

53

pericolo, che sembra riflettere ad un livello più anticipato lo schema di accertamento del pericolo. Questo, porta a ritenere che il legislatore abbia voluto, con la nozione di rischio, riferirsi all’esistenza di un rapporto tra ‹‹condotta– tipo›› ed ‹‹evento–tipo››, compreso in ‹‹leggi causali frequentisticamente più deboli›› rispetto a quelle espresse a livello di pericolo17. Mentre infatti a fondamento del pericolo, si pone una base scientifica fondata su un sapere nomologico espresso in leggi generali, a fondamento del rischio si pone una stima aleatoria, in quanto effettuata in situazioni di incertezza cognitiva.

La definizione di pericolo, sembra comunque rifarsi allo schema logico concettuale che presuppone la calcolabilità probabilistica degli effetti derivanti da un determinato fattore; al contrario la nozione di rischio si distacca, come evidenziato in dottrina, dal suo precedente normativo18, che definisce il rischio: ‹‹probabilità che un determinato evento si verifichi in un dato periodo o in circostanze specifiche››, riallineando il concetto di rischio a quello di pericolo da cui si è posta la necessità di distinguerlo. L’attuale definizione, nel riferirsi al ‹‹raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione››, finisce per attribuire una qualche rilevanza alla concentrazione delle sostanze e quindi anche all’esposizione dei lavoratori.

Queste ambizioni definitorie, tracciate in apertura del decreto, vengono però tradite al suo interno da un disinteresse per la distinzione dei due concetti che pervade l’intera disciplina: il concetto di rischio e di pericolo vengono spesso utilizzati come sinonimi e in correlazione con altri termini che ne generalizzano il significato, sminuendo la rispettiva autonomia. Con la conseguenza che il rischio, così come descritto, non produce alcun ampliamento dell’obbligo di sicurezza spettante al datore di lavoro, che resta confinato analogamente al pericolo, ‹‹nell’area delle concatenazioni offensive conosciute o conoscibili, alla luce del sapere scientifico››19

. Ciò premesso, si deve concludere che l’inclusione del rischio tra le norme definitorie assume una valenza meramente promozionale, funzionale al risalto da assegnare alla fase di valutazione e gestione del rischio all’interno della disciplina della sicurezza sul lavoro.

17

M. Masullo, op. cit. pag. 35.

18 Il riferimento è al d. lgs. n. 334/ 1999 in attuazione della direttiva 96/82/CE relativa al controllo dei

pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose.

54

Il nuovo approccio del legislatore alla sicurezza sul lavoro è deducibile dalla presenza, nel già citato Testo Unico, di norme che non hanno ad oggetto specifiche fonti di pericolo, ma che piuttosto operano sul piano remoto della prevenzione generale del rischio. Specificatamente l’art. 17, prevede come attività non delegabili da parte del datore di lavoro l’obbligo di valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento di valutazione dei rischi, e inoltre prevede la nomina di un responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. L’art. 34 comma II impone al datore di lavoro che intende svolgere i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, di primo soccorso, nonché di prevenzione incendi e di evacuazione, di frequentare corsi di formazione, di durata minima di 16 ore e massima di 48 ore, adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative.

Tali disposizioni dimostrano, come la disciplina in tema di sicurezza sul lavoro si presenti come un ‹‹inedito paradigma teorico››20

, che sostituisce gli specifici e puntuali obblighi cautelari, che in passato, nel settore di tutela in esame, mettevano in luce il nesso giuridico–fattuale tra la condotta doverosa che il datore era chiamato a tenere e l’evento da scongiurare. Come messo in evidenza da Civello quello che è avvenuto negli ultimi anni è la creazione di un sistema della sicurezza sempre più articolato e sofisticato che ha segnato il passaggio verso una “procedimentalizzazione” della regola cautelare, in quanto il datore di lavoro, insieme ad altri soggetti individuati

ex lege come responsabili, adempie al proprio ruolo di garante, non tenendo una

condotta di prevenzione dello specifico evento lesivo, come in passato, ma adempiendo ad una complessa rete di obblighi generali ed organizzativi remoti rispetto all’evento medesimo.

Il Testo Unico del 2008 completa così il percorso già iniziato con il d. lgs. n. 626 del 1994 segnando un passaggio epocale nell’ambito del diritto penale del lavoro. Si giunge, al superamento della logica del passato, in cui il valore assoluto riconosciuto alla sicurezza si spingeva sino al punto di chiedere – in caso di impossibilità di rimuovere altrimenti il pericolo – la cessazione dell’attività ritenuta pericolosa, per approdare ad una nuova filosofia, che sostituisce all’eliminazione del pericolo, la

55

riduzione dei rischi. L’attuazione delle direttive comunitarie in materia di sicurezza sul lavoro del 1994, attraverso il suddetto d. lgs. n 626, ha rappresentato l’abbandono dell’illusione di una tutela incondizionata nei luoghi di lavoro, sostituita da una tutela tendenziale, che impone al datore di lavoro l’eliminazione dei rischi, e ove ciò non sia possibile si accontenta della loro riduzione al minimo21.

A conferma di quanto anzidetto occorre volgere lo sguardo alle disposizioni previste nel Testo Unico del 2008, l’art. 15 lett. c prevede: ‹‹l'eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico››; e ancora la lett. f dispone: ‹‹ la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso››. L’idea che nei luoghi di lavoro non possa giungersi all’abbattimento totale dei pericoli, ma, altresì, residui sempre una minima parte di rischio, trova conferma nell’art. 163 comma I del Testo Unico laddove si dispone che : ‹‹quando, anche a seguito della valutazione effettuata in conformità all'articolo 28, risultano rischi che non possono essere evitati o sufficientemente limitati con misure, metodi, ovvero sistemi di organizzazione del lavoro, o con mezzi tecnici di protezione collettiva, il datore di lavoro fa ricorso alla segnaletica di sicurezza››. La stessa Corte di giustizia con una sentenza del 2007 ha affermato come gli obblighi del datore di lavoro ‹‹non implicano che egli sia tenuto a garantire un ambiente di lavoro privo di ogni rischio››22. La tendenza del legislatore a tollerare un minimum di rischio residuo, di fronte alla complessità dei sistemi lavorativi, non rappresenta un’abdicazione della tutela penale, ma come sostenuto in dottrina una sua ‹‹anticipazione teleologica››23

.

Il legislatore, supera l’atavico obiettivo della tutela della sicurezza raggiungibile attraverso l’eliminazione del pericolo, sviluppando una legislazione orientata alla gestione della sicurezza, attraverso il contenimento del rischio, prima che questo possa evolversi in pericolo.

Ebbene, come ribadito da Pulitanò, il ripiegamento della tutela messo in atto nella disciplina della sicurezza del lavoro, agendo sull’esistenza di un rischio residuo,

21 Cfr. M. Masullo, op. cit. pagg. 40-41. 22

Corte di giustizia CE, sez. III, sent. 14 giugno 2007 n. 127, causa C1257/05, in Foro.it, 2007, citata da M. Masullo, op. cit. pag. 42.

23 T. Padovani, Il nuovo volto del diritto penale del lavoro, in Riv.trim. dir.pen. econ., 1996, pp. 1157-

56

presuppone una valutazione normativa di irrinunciabilità dell’attività in cui il fattore di rischio è inserito24. In questo modo, la differenza tra rischio residuo ammesso ( anche se ridotto al minimo) e rischio illecito, dipende, da un giudizio di bilanciamento tra interessi contrapposti, le esigenze della produzione da un lato e la tutela della sicurezza sul lavoro dall’altro. Giudizio di cui si fa carico il legislatore, prevedendo all’interno del Testo Unico delle “clausole di compatibilità”, nel senso che, l’adozione delle misure cautelari necessarie alla gestione e riduzione del rischio sono richieste e adottabili, nei limiti del tecnicamente possibile25.

Il nodo cruciale, è qui rappresentato, dall’individuazione del parametro di riferimento attraverso cui determinare il livello di sicurezza “tecnologicamente fattibile”, esigibile dal datore di lavoro. Giacché, non possano ritenersi comunque decisivi gli esiti dell’interpretazione conformante, offerta dalla Corte Costituzionale, in occasione del rigetto della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 41 comma 1 del d. lgs. n. 277/199126. In specifico, nella vicenda, i giudici della Consulta sostennero che le misure cautelari, esigibili dal datore di lavoro, necessarie ad un contenimento dei rischi, siano da individuare nelle ‹‹misure che nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti››; specificatamente la Corte asserì che la diligenza esigibile dal datore di lavoro, vada misurata sullo ‹‹standard di applicazioni tecnologiche “generalmente praticate” in un certo settore lavorativo o industriale e, in definitiva, su ciò che viene usualmente fatto, piuttosto che su ciò che andrebbe fatto da parte di un uomo accorto e ragionevole››27. Un modello empirico dunque, che assume a parametro di riferimento le cautele generalmente adottate, una sicurezza tecnologicamente fattibile, misurabile sulla base dei provvedimenti abitualmente praticati nel settore lavorativo.

L’orientamento maggioritario in dottrina e in giurisprudenza, protende però ad esiliare in sede applicativa l’insegnamento della Consulta, sostenendo come una tale

24

D. Pulitanò, Gestione del rischio, citato in M. Masullo, op. cit. pag. 42.

25 M. Masullo, op. cit. pag. 43.

26 Corte Cost. sent. n. 312 25/07/1996 in particolare la Corte fu chiamata a valutare la legittimità

costituzionale dell’art. 41 comma 1 del d. lgs. 277 del 1991, che in tema di rischi per la salute dei lavoratori derivanti dall’esposizione a rumori, richiedeva al datore di lavoro di ridurli al minimo sulla base delle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico e per mezzo di misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente attuabili.

57

rigidità interpretativa legittimi le c.d. ‹‹prassi sciatte››. La diligenza esigibile dal datore di lavoro, in tal senso, non sarebbe individuabile in quella generalmente impiegata, bensì in quella disponibile, reperibile, in base alla maggior scienza ed esperienza del momento storico. Da qui l’elaborazione di un modello deontico, seguito nella giurisprudenza di legittimità, volto ad elevare verso l’alto lo standard di diligenza a cui il datore di lavoro deve uniformarsi nella predisposizione delle cautele necessarie alla gestione del rischio, giudicando esigibile, e come tale rimproverabile in caso di mancato adeguamento, la diligenza tecnologica disponibile sul mercato, anche se generalmente non praticata.

In conclusione il Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro, rappresenta l’esordio nel nostro ordinamento di una concezione della prevenzione degli infortuni sul