4. Il Diritto amministrativo nella società del rischio
2.7 La valutazione del rischio reato e la responsabilità dell’ente a fronte del d lgs 231 /2001
Il legislatore, prende atto delle nuove fenomenologie di rischio del processo produttivo, intervenendo attraverso sistemi normativi i cui precetti trasudano una logica precauzionale, identificabile nella regolamentazione di comportamenti che si pongono in una prospettiva anticipatoria rispetto alla concretizzazione di un evento lesivo.
Analogamente alla materia della sicurezza sul lavoro, anche nel d. lgs. 231/ 2001, il fulcro centrale della disciplina è rintracciabile nel momento di valutazione del rischio, con una fondamentale differenza individuabile nell’oggetto della valutazione. In particolare, all’interno dell’ente il rischio da valutare ai fini della prevenzione, è il rischio criminale. L’ente è chiamato ad una valutazione delle attività, all’interno del ciclo produttivo, che possano potenzialmente dar luogo alla commissione di reati, e alla successiva elaborazione di procedure cautelari volte a prevenirli.
In dottrina, si è da più parti evidenziato come la “mappatura dei rischi” ex d. lgs. 81/2008, quale obbligo non delegabile da parte del datore di lavoro, rappresenti in questa prospettiva il primo passo organizzativo verso l’elaborazione da parte della persona giuridica di un modello di organizzazione e gestione. Preliminarmente, l’ente è quindi chiamato ad individuare le attività d’impresa potenzialmente esposte al rischio di devolvere in fatti di reato, procedendo in questo modo ad una auto–organizzazione di natura progettuale, sulla base ‹‹delle esperienze tratte dal passato e dalle discipline che studiano l’organizzazione››42
, che nel complesso costituiscono le condizioni per
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l’elaborazione di regole cautelari che saranno poi meglio precisate nell’assetto prevenzionistico attraverso il modello di organizzazione e gestione. L’attività di risk
assessment (valutazione del rischio) potrebbe anche evidenziare un rischio reato di
livello zero, in ragione della ‹‹specifica tipologia di attività svolta dall’impresa o all’efficacia delle misure preventive e di controllo già in atto››43
. Tutto ciò, di certo valevole in generale, assume delle caratteristiche diverse rispetto alla valutazione del rischio reato previsto all’art. 25 septies del d. lgs. 231/2001, ossia quello relativo ai delitti di omicidio e lesioni colposi, se commessi con violazione delle norme antinfortunistiche. In questo caso, infatti, il vertice aziendale si trova dinanzi ad una sorta di riedizione della valutazione dei rischi, effettuando tale attività da un lato, ‹‹in veste di organo di amministrazione ai fini della predisposizione di un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire i reati di cui all’art. 25 septies e, dall’altro, in quella di datore di lavoro, per assolvere all’obbligo di redazione del documento di valutazione dei rischi, contenente le misure di prevenzione e protezione da adottare››44
. Con la conseguenza dunque, che mentre la disciplina prevista nel Testo Unico della sicurezza sul lavoro è volta a garantire il massimo livello possibile di sicurezza nei luoghi di lavoro, i modelli di gestione ed organizzazione sembrano integrare una ‹‹cautela di secondo grado››, in quanto finalizzati ad impedire il verificarsi di reati che dipendono dalla violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro45. In questa prospettiva, la predisposizione del modello di gestione ed organizzazione, corre su un binario predeterminato dalla precedente valutazione dei rischi e redazione del documento, poiché l’individuazione delle attività a rischio reato è già tracciata all’interno del perimetro dei rischi per la sicurezza e la salute effettuata ex art. 17 d. lgs. 81/2008. Giova ricordare, come anche la giurisprudenza più volte si sia espressa sulla necessità di affermare l’autonomia dei modelli di gestione e organizzazione rispetto al documento di valutazione dei rischi. In questo senso, in plurime decisioni i giudici hanno evidenziato che i due documenti presentano una diversa direzionalità, infatti ‹‹mentre il documento di valutazione di un rischio è rivolto
43 M. Masullo, op. cit. pagg. 56-57. 44
Ibidem.
45 P. Aldrovandi, La responsabilità amministrativa degli enti per i reati in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro alla luce del d. lgs. 9 aprile 2008, n.81, in Ind. pen., 2009, pag. 506, richiamato da M.
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anche ai lavoratori per informarli dei pericoli incombenti in determinate situazioni all’interno del processo produttivo [… ] il modello del d. lgs. n. 231 deve rivolgersi non tanto a tali soggetti che sono esposti al pericolo di infortunio, bensì principalmente a coloro che, in seno all’intera compagine aziendale, sono esposti al rischio di commettere reati colposi […] sollecitandoli ad adottare standard operativi e decisionali predeterminati, in grado di obliterare una responsabilità dell’ente››. Rispetto alla valutazione e gestione dei rischi, si è affermato che nel modello organizzativo ‹‹dall’analisi dei rischi del ciclo produttivo l’attenzione viene spostata anche ai rischi del processo decisionale finalizzato alla prevenzione››, cioè dall’individuazione delle corrette procedure del ciclo produttivo direttamente riferibili ai lavoratori, si passa all’individuazione dei responsabili dell’attuazione dei protocolli, decisionali, gestionali occorrenti per scongiurare quei rischi46. La predisposizione di un modello di organizzazione e gestione da parte dell’ente richiede come presupposto imprescindibile, ai fini anche di un successivo esonero da responsabilità, l’adempimento degli obblighi di sicurezza analiticamente descritti dalla legislazione antinfortunistica e il rispetto del modello di sicurezza previsto dal d. lgs. 81/2008, non potendo, l’ente, allontanarsi da quegli standard di sicurezza minimi.
Ritenere che il modello di organizzazione e gestione preveda al proprio interno un sistema di cautele di secondo grado, assume un senso laddove l’infortunio – malattia è la causa della violazione delle procedure preventive, imposte dalla legge o auto- normate, previste nel documento di valutazione dei rischi redatto dal datore di lavoro, regole portatrici di un’efficacia impeditiva dell’evento. In questo schema di accadimenti, ove l’ente dimostri di aver adempiuto diligentemente a tutti gli oneri organizzativi, necessari a prevenire la realizzazione dei reati, costituendo così un’idonea organizzazione prevenzionistica, potrà essere esonerato da responsabilità47. Ove ciò non sia dimostrato, e si riscontri che il modello di organizzazione e gestione predisposto dai vertici dell’ente presenti dei deficit organizzativi, all’interno dei quali si è inserito il comportamento colposo del singolo, potrà sussistere una colpevolezza di
46 Trib. Trani, sez. Molfetta, 11/01/2010.
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organizzazione, sicché ‹‹la colpa dell’ente viene in gioco quando il comportamento, compiutamente colposo, della persona fisica, è consentaneo alla struttura di impresa››48
. La responsabilità della persona giuridica è invece da escludere nell’ipotesi in cui il documento di valutazione dei rischi sia da considerare carente, perché incompleto e inadeguato in riferimento a possibili rischi non valutati o sottovalutati, evoluti poi in eventi lesivi. Recentemente la sez. IV della Corte di Cassazione, ha affermato, nell’ambito della responsabilità individuale, che la sussistenza di lacune nell’attività di valutazione del rischio in ambiente lavorativo, non possa per ciò solo, condurre ad un giudizio di colpa nei confronti del datore di lavoro, laddove si verifichi un infortunio con modalità non prese in considerazione nel documento. Specificatamente, i giudici della Corte hanno affermato come ‹‹il rapporto di causalità tra la condotta dei responsabili della normativa antinfortunistica e l’evento lesivo non possa essere desunto soltanto dall’omessa previsione del rischio nel documento di valutazione dei rischi, dovendo tale rapporto essere accertato in concreto, rapportando gli effetti dell’omissione all’evento che si è concretizzato››49
.
Come evidenziato in dottrina, il ruolo del giudice, non può limitarsi in questo caso alla costatazione di un rischio, che sottovalutato o non considerato nella relativa attività di valutazione si sia poi concretizzato in un evento lesivo, secondo un’ottica ex
post; il compito dell’organo giudicante deve estendersi fino all’individuazione della
regola cautelare omessa, che ove attuata avrebbe impedito l’evento, e dunque, ai fini di un rimprovero per colpa nei confronti del datore di lavoro, occorre che il rischio (sottovalutato o non valutato) poi concretizzato fosse per il datore di lavoro prevedibile. La conclusione è in questo caso lampante, cioè nei casi in cui si avveri un rischio, non calcolato nella redazione del DVR, rispetto al quale però non possa affermarsi la prevedibilità da parte del datore di lavoro, verrebbe meno ogni indagine sulla responsabilità dell’ente, mancando qui la commissione di un reato presupposto della persona fisica, che non può essere considerato in colpa rispetto all’evento verificatosi, per difetto dell’elemento soggettivo del reato.
48 Ibidem.
49 Cfr. Cass. Sez. IV, 4/12/2009 n. 8622 estratti della sentenza in http://www.circolodellasicurezza.com,
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Neppure sembra praticabile, ai fini di rintracciare un’autonoma responsabilità dell’ente, la via indicata da una parte della dottrina che fa leva sull’art. 8 del d. lgs. 231/2001 che fissa l’autonomia della responsabilità dell’ente anche quando l’autore del reato non venga identificato o non sia imputabile. In questo senso, alcuni studiosi rintracciano nella dicitura di “autore non identificato” il fondamento della responsabilità propria ed esclusiva della persona giuridica, vista l’impossibilità di rintracciare a causa di un deficit organizzativo l’autore materiale del fatto di reato50. Tra le critiche a tale orientamento, bisogna avvalorare quella che sostiene come, nel caso di lesioni o morte del lavoratore connessa a mancanze in tema di valutazione dei rischi, queste sono sempre attribuibili ( almeno in astratto) ad un soggetto determinato e cioè il datore di lavoro, non potendosi qui sostenere l’impossibile identificazione della persona fisica responsabile. Cosicché l’art. 8 troverebbe applicazione nei casi in cui venga ad essere realizzato un fatto di reato tipico, antigiuridico e colpevole, giacché utilizzando le parole di Pulitanò è ‹‹necessaria l’esistenza di un fatto di reato integro di tutti i suoi elementi››, oggettivi e soggettivi.
Giusta queste affermazioni, si tratta di riconoscere come rispetto ‹‹alle colpe ricollegabili ad una incompleta valutazione dei rischi, allora, non sembrano immaginabili per l’ente zone franche dalla responsabilità penale della persona fisica, a cui poter agganciare un’autonoma rimproverabilità››51
.
50 In questo senso M. Masullo, op. cit. pag. 63 in cui nella nota 116 l’autrice cita diverse posizioni in
dottrina tra cui quella di Paliero favorevole alla valorizzazione dell’art. 8 ai fini dell’affermazione della responsabilità dell’ente, in contrasto a quella di Pulitanò per il quale la previsione dell’art. 8 va letta solo come autonomia della responsabilità dell’ente dalla responsabilità della persona fisica, ma solo dall’obiettiva realizzazione di un reato integro di tutti gli elementi che ne fondano il disvalore.
73 Sezione II
La gestione dell’incertezza scientifica: il principio di precauzione
3. L’intervento penale in contesti di rischio ignoto
Alla crisi palesata dal modello penalistico dinanzi alle esigenze di tutela collettiva della società del rischio, si accompagna la ricerca di una diversa logica di imputazione dell’evento lesivo. Ciò induce il legislatore penale a legittimare in contesti di rischio incerto, l’idea della precauzione come scelta valoriale che si sostituisca a quella della prevenzione.
L’ingresso nel dibattito giuridico del principio di precauzione, trova la propria ragione nelle risposte che questo può dare alle sfide poste dalla modernità: non a caso in via esemplificativa tale principio può essere definito, utilizzando le parole di Castronuovo, come ‹‹criterio di gestione del rischio in situazioni di incertezza scientifica circa possibili effetti dannosi ipoteticamente collegati a determinate attività, prodotti, sostanze››52
.
In questo senso, la produzione normativa europea degli ultimi anni, mira in diversi contesti di rischio a realizzare un elevato livello di tutela. Un sintomo di questa tendenza può essere identificato, nella progressiva estensione del principio di precauzione ad ambiti di tutela sempre più ampi.
L’origine del principio di precauzione è comunitaria e inizialmente ristretta al settore di tutela dell’ambiente. Compare per la prima volta nell’art.174 del Trattato sull’Unione Europea e viene inserito nell’assetto normativo europeo del dopo Lisbona nell’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea collocato in apertura del titolo XX sull’ambiente53. Dalla formulazione del secondo comma dell’art. 191 TFUE, è utile rilevare a fini penalistici, l’accostamento del principio di precauzione al
52 D. Castronuovo, Principio di precauzione e diritto penale, Roma, 2012, pag. 19. 53
Art. 191 par. 2, I parte:‹‹ La politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga"››.
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concetto di azione preventiva. È opinione consolidata in dottrina infatti, che mentre il principio di prevenzione verrebbe in considerazione dinanzi a rischi certi, nomologicamente fondati e dimostrati, il presupposto del principio di precauzione è invece da ricercare, come già detto, nell’incertezza scientifica circa i possibili effetti dannosi di una data attività, che possono essere ragionevolmente ipotizzati.
Un riferimento importante al principio di precauzione si ritrova inoltre nella Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione del Febbraio 2000, dove, si specifica la stretta connessione dello stesso rispetto all’analisi del rischio che si articola nelle tre fasi di valutazione del rischio, gestione, e comunicazione del rischio. Inoltre, nella Comunicazione si riconosce come il principio riguardi le procedure decisionali da adottare in condizioni di incertezza scientifica su possibili pericoli, le quali sono dirette a individuare corrette strategie di gestione del rischio. Secondo la Commissione il principio di precauzione attiene ad un giudizio politico circa quale sia il livello di rischio accettabile per la società54.
Tuttavia, è solo a partire dal 2002 che una definizione del principio di precauzione è prevista nel quadro normativo europeo attraverso l’art. 7 del regolamento n. 178/2002 sulla sicurezza alimentare55.
Al di là del dato normativo, il principio di precauzione ha assunto, già prima di un suo riconoscimento ufficiale negli atti comunitari, una spiccata importanza nell’ambito della giurisprudenza europea alla quale si deve l’estensione del principio de
quo a settori di tutela nuovi rispetto a quello originario dell’ambiente56.
Del principio di precauzione, esistono diverse definizioni (ne sono state censite circa una ventina), a riprova della fortuna che il principio ha riscontrato negli ordinamenti giuridici, e della potenziale duttilità e genericità dello stesso. Le definizioni non risultano tutte perfettamente sovrapponibili, ma comunque sono caratterizzate dalla
54 D. Castronuovo, op. cit. pag.58. 55
L’art. 7 del regolamento n. 178/2002 fornisce la seguente definizione: ‹‹Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d'incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio››.
56 Il principio di precauzione impone dei vincoli ai privati e alle istituzioni valutabili in sede giudiziaria,
lo dimostrano tra le altre sentenze: Monsanto/ Italia, Greenpeace/ France, Austria Superiore/Commissione.
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presenza di alcuni elementi in comune. In particolare, stando alle fonti comunitarie, i presupposti del “metodo precauzionale” possono essere così riassunti: qualora una valutazione scientifica evidenzi che lo svolgimento di una certa condotta sia causa di rischi, il principio di precauzione impone l’adozione delle misure necessarie per annullare o circoscrivere la minaccia in questione, anche se essa non sia integralmente dimostrabile, per l’insufficienza o la contraddittorietà dei dati scientifici.
Occorre qui precisare che, affinché possa rilevare come fondamento di un’azione precauzionale, l’incertezza scientifica non può sostanziarsi in un’assenza di conoscenza totale, ma deve essere il frutto di una completa valutazione scientifica rispetto al fenomeno studiato. È opportuno specificare inoltre come il principio di precauzione, non annoveri tra i suoi presupposti l’attualità del pericolo per il bene giuridico alla cui tutela si guardi. La ragione di ciò sta nel fatto che il substrato fenomenologico che fa da sfondo alla legislazione precauzionale è connotato da un intrinseca incertezza epistemologica, perché non assistita da leggi scientifiche o statistiche dotate di comprovata affidabilità, circa l’esistenza del pericolo stesso per il bene giuridico, con la conseguenza dunque che richiedere l’attualità sarebbe una contraddizione.
Come rilevato da più parti, il principio di precauzione è in primo luogo un criterio “politico”, che può (o deve) orientare l’intervento del legislatore nella regolamentazione di attività rischiose, in contesti caratterizzati da un’acquisizione scientifica ancora in fieri. Lo ‹‹slittamento epistemologico››57 in corso, da una prevenzione ad una precauzione, non manca di produrre effetti su piani diversi rispetto a quello delle scelte politico amministrative. L’eterogeneità sul piano epistemologico tra prevenzione e precauzione, essendo fondata quest’ultima su una nomologia del sospetto (anziché della certezza, della probabilità e verificabilità empirica), si riflette sul ‹‹mondo delle norme››58
, con la conseguenza che anche il diritto penale non viene ad essere dispensato dagli effetti della logica precauzionale, tanto sul piano positivo che su quello applicativo59.
Mutamenti strutturali in tal senso si registrano sullo stesso modello di fatto tipico oggettivo, dove l’inserimento di una nozione di rischio nomologicamente incerto
57
L’espressione è di D. Castronuovo, op. cit. pag. 36.
58 D. Castronuovo, op. cit. pag. 36.
59A. Massaro, Principio di precauzione e diritto penale: nihil novi sub sole?, in
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finirebbe per cambiarne la sostanza, lasciando inalterata solo la struttura formale. Come rilevato in dottrina60, la logica precauzionale finisce per incunearsi a seguito di interventi legislativi o interpretativi nella struttura delle fattispecie incriminatrici, valorizzando la tutela del bene giuridico implicato, prescindendo, però, dalle necessarie garanzie che devono accompagnare l’imposizione della sanzione penale.
Il principio di precauzione assume, dunque, un importante valore nella tutela di beni primari contro minacce ragionevolmente temute, a fronte di valutazioni scientifiche non ancora definitive, legittimando il legislatore all’adozione di regole cautelari, che funzionano come regole cautelative provvisorie fondate in una prospettiva ex ante, in attesa di conferme scientifiche.
Le opzioni normative espressione della logica precauzionale consistono in precetti a struttura variabile, nel senso che oltre ad essere positivizzati secondo l’alternativa secca norme di divieto/norme d’obbligo, è possibile che tali disposizioni vengano articolate in discipline del rischio consentito solo a certe condizioni, come il rispetto di limiti soglia, o procedure di autorizzazione o obblighi di comunicazione del rischio. Tali regole, o procedure, sono formalizzate in disposizioni, provvisti di sanzione, strutturati secondo il modello delle fattispecie di mera condotta – ma anche di evento di danno o di pericolo- alla cui violazione finisce per corrispondere un illecito di mera disobbedienza, piuttosto che quello del pericolo astratto o presunto la cui struttura rinvia pur sempre alla necessaria esistenza di leggi scientifiche o regole di esperienza corroborate61.
Se fino a qualche anno fa, ci si interrogava sui motivi dello scarso interesse della scienza penalistica verso il principio di precauzione, oggi lo stesso sembra essere entrato prepotentemente nell’ambito dei temi oggetto di indagine del mondo penalistico. In particolare, guardando alla dottrina penalistica62, si evidenzia la carica problematica che il principio di precauzione assume allorché interagisca con il diritto penale.
Oltre all’estraneità del principio in parola rispetto alle categorie dogmatiche del diritto penale, si sottolinea anche la generale tendenza dello stesso ad estendere in modo indeterminato l’area delle sanzioni penali, fungendo da ‹‹fattore di espansione del diritto
60
D. Castronuovo, op. cit.
61 Ivi, pagg. 38-40.
62 Per un approfondimento sul principio di precauzione e diritto penale vedi: E. Corn, Il principio di precauzione nel diritto penale, Torino, 2013; D. Castronuovo, op. cit.
77 penale››63
. Come affermato da Castronuovo vi sono delle buone ragioni, secondo il punto di vista del penalista, per ‹‹guardare con sospetto al principio di precauzione››64
. In particolare, tra queste, quelle che muovendo dalle categorie dogmatiche, mostrano l’estraneità del principio di precauzione rispetto al diritto penale classico. Se la precauzione si caratterizza per l’assenza sullo sfondo di una base etiologica che sia nomologicamente fondata circa la certezza del rischio che può derivare da una condotta, rischio che può essere ragionevolmente ipotizzato e non escluso, ne consegue che le categorie dogmatiche del diritto penale classico cioè quelle del pericolo concreto65,