• Non ci sono risultati.

Sonetto caudato di schema metrico ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF fGG. Rima ricca ai vv. 4-5. È senza dubbio tecnico – come conferma il ricorso a simili espedienti anche in altri testi della raccolta, specie in chiusura di componimento – il rapporto di assonanza e consonanza tra le rime D e G (-ElLE, -ELE). Più debole che in altri testi la giustapposizione delle quartine e delle terzine, tutte connesse da elementi ipotattici (v. 5 e; v. 9 e; v. 11 ma).

Il testo, che forma un dittico con il seguente, è una parodia di un genere largamente praticato nella poesia lirica: il voto o la preghiera a un dio perché faccia guarire un amico (o l’amata) da malattia o infortunio. Particolarmente rimarchevole, in tal senso, il parco dosaggio di tessere liriche (delle sue belle membra | t’incresca; della sua natura | dolce e soave; immaculata e pura), tutto relegato alla coda, in un componimento che si segnala, invece, soprattutto per i prelievi paremiografici di stampo plebeo (cfr. i vv. 5-6, 8, 12). Tra le fonti che codificano la tradizione (a dir vero ben poco indagata), in volgare, si possono annoverare RVF, XXXIV e CCXLVI; Bembo, Rime (ed. Dionisotti), LXXV e CXI. Dell’incidente cui il dittico si riferisce non si conservano altre testimonianze, ma dal testo si direbbe che sia occorso per una bravata dello Stradino (cfr. vv. 9-11).

Ben distinguibile il rapporto retorico-sintattico tra fronte-sirima e coda: mentre nel primo nucleo si dà la narrazione dell’antefatto, l’invocazione del primo verso si scioglie in preghiera al dio solo nella coda. Sul piano argomentativo andrà notata come la prima

80

quartina costituisca l’avvio dell’apostrofe al dio; nella seconda si dà conto dell’evento, mentre nelle terzine si allude all’antefatto. S’è già detto, invece, che alla coda si relega la vera e propria preghiera.

1. Febo mio: Febo è anche nume tutelare dei poeti, e perciò l’autore gli si rivolge con il possessivo. crudellaccio: ʻspietatoʼ, la prima attestazione sembra essere quella di Pulci, Morg., XXVI, CXVI, 7 «o Macon crudelaccio e senza fede» (cfr. GDLI, s.v. ʻcrudeleʼ). 2. picchiata: ʻurtoʼ, ʻbottaʼ. 4. mostaccio: cfr. commento a V, 6. 5-6. Cfr. Pulci, Morg., V, LIV, 1-2 «[…] Vedes’tu mai tordo | ch’avessi, come ebb’io, della ramata?». 5. tordo bottaccio: nome toscano di una varietà molto diffusa di tordo (turdus philomelos nella classificazione del Brehm, ma cfr. anche Gherardini, Supplimento, VI, s.v. ‘tordéla’ e ‘tordo’), già ricordato nel celebre bestiario del Pulci, Morg., XIV, LVIII, 1: «e ’l marin tordo e ’l bottaccio e ’l sassello». 6. avuto: ʻricevutoʼ. allor: ʻappenaʼ. della: con funzione strumentale. ramata: strumento di vimini impiegato nell’uccellagione, aveva la forma di mestolo ed era impiegato soprattutto per la caccia notturna (GDLI, s.v.); in rima con pensata anche in Morg., V, LIV qui imitato. 8. salto di Baldaccio: ʻessere gettato dalla finestraʼ, qui fig. per ʻsaltare da una grande altezzaʼ; per il significato cfr. la spiegazione del motto da parte del Nardi, Istoria della città di Firenze (ed. Arbib), I, p. 204: «[…] un cittadino fiorentino vecchio, chiamato Stiatta Bagnesi, infamando di perfidia le loro signorie, aveva usato dire in bottega d’un libraio, in presenza di molti, che se a lui s’appartenesse far giudizio di loro, gli farebbe fare a tutti due il salto di Baldaccio. E di poi quello che tal motto significasse, aveva ritrovato che un certo Baldaccio da Anghiari, già condottiere de’ Fiorentini, era stato da quelli gittato a terra dalle finestre del palagio della signoria»; e cfr. Gherardini, Supplimento, I, s.v. ʻBaldaccioʼ e Biscioni-Moücke, I, pp. 309-310 (da questi probabilmente Luri di Vassano, 351), che identifica il personaggio con Piero Anguillara d’Anghiari e data la vicenda al 6 settembre 1441. 9. per questa cagion: ʻin tal modoʼ 12. giucar di maccatelle: ʻgiocare d’astuziaʼ (GDLI, s.v. ʻmaccatelleʼ 5 ch’è però poco soddisfacente nella stesura della voce) e cfr. Machiavelli, Clizia, a. III, sc. VII: «tienvi su gli occhi, Pirro, che non ci andassi nulla in capperuccia: e’ ci è chi sa giucare di maccatelle». La locuz. deriva probabilmente da un antico gioco (lucchese secondo il GDLI, s.v. 3, non è chiaro su quale fondamento; ma cfr. Crusca, V impr. s.v. II: «fu anche nome di arnese da giuoco o trastullo fanciullesco. Onde si disse ʻIl giuco delle maccatelleʼ il giuoco fatto con simile arnese»), per il quale si rinvia generalmente a Burchiello, XXXII, 3 (ed. Zaccarello): «Perché Phebo le volle saettare | la triumphante volta delle stelle | vagliava sonaglini e maccatelle | e ’ zoccoli apparavano a notare», bisogna tener presente però anche Lasca, Lezione di maestro Niccodemo, ed. Pignatti, p. 236: «[…] Maestro Muccio primieramente imparò da lei [scil. dalla Luna] il gioco delle macchatelle e del fare i fraccuradi». Sulla scorta di questo passo e di un altro di una commedia del Lasca (La Pinzochera, a. V, sc. VI: «certo

81

che voi giucaste di maccatelle, e ne disgrazio mastro Muccio») si è informati di un mastro Muccio, giocatore d’azzardo nella Firenze della metà del Cinquecento; essendo noto che ʻmaccatelleʼ è anche il nome di un piccolo contenitore di legno (GDLI, s.v. 2), mi pare probabile che il gioco in questione fosse quello dei dadi, ove ci si serviva, in certi casi, di un piccolo contenitore affine. Una simile ricostruzione spiegherebbe anche l’uso figurato che di lì ne venne. Analoga la chiosa dell’Arlìa a Borghini, Ruscelleide, p. 68, che glossa maccatelle ʻbussolottiʼ (cfr. GDLI, s.v. 2). Irricevibile qui, dunque, la chiosa di Biscioni- Moücke, I, p. 310: «giuocar di maccatelle, cioè di cose di poco valore, come sono le maccatelle, vivanda ordinaria [per tale significato cfr. GDLI, s.v. 1]» (per questo significato cfr. invece infra LVII, 28). La forma giucare è normale in fiorentino fin dal Trecento, per la tendenza alla chiusura della o protonica in u, particolarmente frequente nelle forme rizoatone di questo verbo (cfr. Manni, Trecento toscano, p. 273 e n.). 13. conquiso: ʻabbattutoʼ, ʻdisfattoʼ, fig. per ʻmortoʼ. 14. In mancanza di una spiegazione più plausibile, accetto la chiosa di Biscioni-Moücke, I, p. 310: «rimase lordo o intriso dal fango», o, parafrasando, ʻsi ridusse, nella pelle, come un porcoʼ (sopra la pelle sarebbe dunque compl. di limitazione), ma non convince del tutto che fé debba avere valore medio; ammissibile invece sul piano semantico (cfr. GDLI, s.v. ʻfareʼ 37). 17. dolce e soave: per quanto abusata, si tratta di dittologia illustre (RVF, LXX, 40; XCI, 4; CCLXXXIV, 8). 19. valor… possa: in riferimento a malattia ʻgravitàʼ (GDLI, s.v. ʻvaloreʼ 7; ʻpossaʼ 3), dittologia sinonimica già attestata in Andrea speziale, I sette dolori del mal franzese (in Calmo, Lettere, ed. Rossi, App. I, p. 378): «Non batte tanto un fabro alla fucina, | né crudel botta scappa di martello, | quant’è il valor, la possa e la ruina | del mal franzese, ch’intona il cervello» (i vv. sono erroneamente attribuiti allo stesso Calmo in GDLI). 20. ne: clitico pronominale di 1a pers. pl. (GDLI, s.v. ʻNe3ʼ), qui è una mera zeppa metrica. ’n un: ʻin unʼ, forma aferetica assai diffusa. di carne e d’ossa: ʻmortaleʼ, locuz. molto diffusa con esempî che dal Boccaccio e dal Sacchetti passando per il Pulci si ritrovano ancora per tutto il Cinquecento (spogli BIBIT, 27 giugno 2017). 23. La locuzione, oltre che il senso più immediato di ‘gradevole’ potrebbe valere anche per ‘citrullo’, come in Za, Studio d’Atene, II, 52 (in Poemetti, ed. Lanza) «O giudice dolciato più che mèle | – dissi, e volsimi inverso messer Nanni – | i’ veggo che voi sète senza fiele!».

[VII = S5]