Si riporta di seguito l’elenco degli interventi sul testo base, eventualmente accompagnati da una giustificazione Si dà anche notizia di più banali trascorsi d
I, XLIV 7 «che voi abbiate cura a questo, intanto».
XXII. 2, 6 «sono da usarsi in un madrigaletto»
Nel codice il verso ha son in luogo di sono, ma è probabilmente guasto: se si ammettessero tutte le sinalefi dell’uso cinquecentesco, infatti, esso risulterebbe ipometro; leggendo invece dialefe dopo usarsi si avrebbe un accento di 5a. La
soluzione più razionale sembra essere di restaurare sono, ricostruendo un normale endecasillabo a maiore. Il Verzone ha mantenuto la lez. del codice.
XXII.2, 7. «dimmi se ‘guari’, ‘mai sempre’ e ‘unquanco’ | sono da usarsi in un madrigaletto;
| e se ’l Petrarca, nei versi ha mai detto | ‘aggrappo’, ‘ciuffo’, ‘carpisco’ e ‘abbranco’». Nella preposizione nei, che l’autore scrive in forma analitica ne i, il primo componente è scritto su un originario che eraso.
XXIV, 8 «ma Lasca finalmente mi nomiate»
Interl., su chiamjate biffato.
XXVII, 1-2 «O padre Varchi, Socrate novello, | o vogliam dir Pittagora secondo»
Nel primo verso, novello segue e sostituisce secondo biffato; come nel successivo secondo segue e sostituisce novello, anch’esso biffato.
XXIX, 11 «ch’elle si piglierebbon colle molle»
Questo verso e la nota «Manca» sono inseriti dal Lasca posteriormente, com’è visibile dall’uso di una penna più sottile e dal modulo ridotto delle lettere (dovuto all’aggiunta al marg. inferiore della carta). Vista la posizione della nota, in basso a destra e in corrispondenza della fine del bifoglio, si potrebbe sospettare anche che essa sia un richiamo, e che segnali la caduta di una carta sciolta nella quale erano riportati i versi mancanti.
LXXII
XXX, 15 «Or, fino all’età vieta»
Preceduto da un altro Hor tre volte biffato.
XXXI, 4 «dove ne fusse bene un miglïone»
Preceduto da bel biffato.
XXXI, 10 «così dalle lor mani è sempre uscito».
Il ms. legge mai.
XXXI, 23 «che mutan condizion mutando stato».
Il ms. legge mtan.
XXXIII, 10 «com’egli intende ben la poesia».
Il ms. riporta questa stratigrafia correttoria: com’ eli > com’ gli (con sovrascrittura di g su e), che si restaura trascrivendo com’ egli.
XXXIV, 2 «non son, secondo te, come il Girone»
Il ms. legge Girole.
XXXIV, 5 «Tu non sei però, Varchi, semideo»
Il ms. legge semido, con o tagliata da un frego e sostituita da eo, posto accanto.
XXXIV, 12 «Leggi Margutte, un po’, del fegatello!»
L’autografo ha Leggi Margutte, un ò del Fegatello? Si accetta la correzione del Verzone <p>ò > po’, ma si veda il comm. ad loc. per alcuni dubbî.
XXXIV, 20 «ma guarda che ’l battaglio non t’infranga»
Il ms. ha solo l’apostrofo, privo di articolo: si interpreta come mero errore meccanico: il Lasca traccia infatti la seguente B in due tratti, il cui primo è identico a una l. Nella trascrizione corsiva si sarà dunque generato un errore di anticipazione della lettera seguente, portando alla caduta dell’articolo.
XXXVII, 1 «Varchi, fu egli moderno oppur antico».
L’autografo legge in verità antico oppur moderno, irricevibile per la rima. La correzione è già nel Verzone (che però ha o pur), ma senza che si segnali l’errore del
LXXIII
ms. Si segnala che il bisillabismo del sintagma fu egli è confermato dal settenario autografo (X, 18 fu egli uomo da nulla?).
XXXVII, 4 «il canto tuo?»
Originariamento: il canto tuo; la mano del Lasca aggiunge il punto interrogativo in interlinea, senza cancellare il punto e virgola.
XXXVIII, 6 «da far crepar di rider le persone»
Il verso è riportato in fondo alla c., preceduto da due apici (>>) apposti anche nell’interlinea in cui va inserito, dopo la sottolineatura del verso che precede l’inserimento.
XXXIX.
Dopo la rubrica Il fine che, come al solito, chiude il componimento, seguono i due vv. iniziali del son. Poi che non può sbattezzar piu Garzonj, | il Varchi ha sbattezzato la Topaia; biffati (evidentemente perché già copiati a c. 43r). L’errore è un’utile prova del fatto che il Lasca sta organizzando una raccolta.
XL, 9 «e dice: – Ahi quanti passi perdi indarno»
L’autografo legge perde (forse per attrazione del precedente dice). L’emendazione posta a testo è già, non dichiarata, nell’edizione Verzone (se non si tratta di fortuito errore di lettura, con scambio di e con i, come in altri casi).
XLI, 3 «sì che soffi a sua posta, forte o piano».
Si segue il Verzone correggendo l’originario a sua poste: sarebbe pure ammissibile l’accordo con il pron. poss. pl. indistinto sua, caratteristico del fiorentino argenteo e particolarmente diffuso con sostantivi avvertiti come neutri (cfr. CC24, 15 «le sua membra leggiadre»; sull’argomento cfr. la dettagliata analisi in Manni, Ricerche, pp. 131-135); ma qui è proprio la forma plurale poste a non trovare giustificazione.
XLI, 4 «ché nuocer non ci può molto né poco».
Molto è preceduto da poco biffato.
XLII, 10 «gustar (com’io), di quel divino e santo»
LXXIV
XLIII, 1-4 «Sempre lodato e ringraziato sia | Giove, Saturno, Vener e Amore, | la cui mercé,
non più quella d’errore, | ma segue il Varchi la diritta via».
I versi sono biffati nell’autografo, insieme alla rubrica Al Medesimo. Sotto questi 4 vv. si leggono due varianti evolutive del v. 4 rimaste allo stadio di tentativo e facenti capo a due emistichi diversi: ma hor seguite (pure questo biffato) > Varchi, Voi. Segue al testo la c. 49, bianca e aggiunta posteriormente, certamente per ricopiare il testo in una nuova veste e corretta. Per una più puntuale ricostruzione cfr. la scheda descrittiva del ms.
XLIII, 14 «ch’all’avvenante»
Nel ms. si corregge avvet- > avven- in corso di copia.
XLIII: rubrica il fine
L’autore scrive Il l fine.
XLIV: rubrica In lode del medesimo
L’originaria rubrica Al Medesimo è stata cambiata correggendo Al > del e facendola precedere da In lode.
XLIV, 2 «e grassi beccafichi sieno stati»
Sieno è preceduto da fieno, biffato.
XLIV, 13 «fuor di lui vorre’ i manzi addosso avere»
L’art. i è unito in un’unica catena grafica con il precedente vorre’. Tuttavia il Lasca ha sottolineato la lettera (vorrei), probabilmente per indicare, diacriticamente, che si tratta di art. det. masch. pl. da non confondere con l’ultima parte desinenziale del verbo. Il Verzone ha invece lezione deteriore innanzi: difficile decidere se si tratti di una cattiva lettura o di una emendazione non dichiarata.
XLVI, rubrica «Canzone a ballo nella mortedell’Ambraino».
In Canzone l’ultima sillaba è aggiunta interlineare, forse d’altra mano.
XLVI, 10-11 e sgg.
Dopo Pianga, qui e nelle altre strofe (esclusa l’ultima), il Lasca segnala con l’uso quantitativamente variabile del punto fermo l’inserimento del ritornello. Si integra a testo.
LXXV
XLVII, 4 «o vòto o troppo pien di fantasia?»
L’interro verso è inserito in interlinea dopo la trascrizione.
XLVIII, 3 «per far, graffiando e mordendo, aspra pugna»
La porzione in corsivo è trascritta in interl. per insufficienza del margine.
L, 1 «Tu parrai tosto, Alfonso, una gallina»
Il ms. legge Alfinso.
L, 5 «da qualche fante o sudicia sgualdrina»
Il ms. legge sguarldrina.
L, 16 «se affatto ci vuoi far lieti e contenti»
In affatto, le ultime tre lettere (in cors.) sono inserite in interl.
LII, 17 «un uom che non sei uom né animale».
La cong. né è trascritta in interl. su ma biffato.
LIII, 1 «Attendi, intendi, Lasca, il mio parlare».
L’autografo legge Anttendi: probabilmente errore di anticipazione per il seguente intendi.
LIV, rubrica «In nome di m. Goro della Pieve».
Il testo non è scritto in nome di Goro della Pieve, ma a lui indirizzato (cfr. ad es. i vv. 1-3 «Troppo debolle e basso e vil soggetto | è messer Goro, a voi, scriver d’un tale | che non è uomo e non è animale»; 5-6 «Come v’è mai caduto nel concetto | dir ben di lui, che sempre dice male?»; 9 «Avete voi bisogno di soccorso?»). L’errore è generato probabilmente da un corto circuito mnemonico con il precedente (LIII), scritto «in nome altrui», come da rubrica.
LIV, 1 «Troppo debole e basso e vil soggetto»
Correggo con un po’ di incertezza la scrizione debolle. L’abbondanza di parole con consonante geminata indurrebbero a credere che si tratti di un errore d’autore. Resta qualche sospetto che a determinare il raddoppiamento sia la posizione di protonia sintattica che l’ultima sillaba riceve dalla sua collocazione prosodica: analogamente si potrebbe confrontare il caso di mallattia in Matteo Franco, Lettere, ed. Frosini, XIV, 17-18 e p. 180 (con l’ulteriore supporto della forma mallatia in un autografo di
LXXVI
Lorenzo). Tuttavia non sembrano sopravvivere altri casi nella lingua del Lasca che possano giustificare questa forma.
LV, 11 «che non è il sollïone o Quaresima»
La lez. del codice è «che non è il sollione, o la Quaresima», ma l’articolo qui posto in corsivo è un’aggiunta interlineare d’altra mano (alla mano che interviene è probabilmente da attribuire anche la rubrica a c. 51v). Nella prosodia laschiana sollïone è voce sempre quadrisillabica ed è frequente il ricorso a dialefe quando nel secondo emistichio sia presente una congiunzione: si è scelto dunque di conservare la lezione originaria, che sembra pure confermata dall’apposizione di una virgola dopo sollïone nell’autografo.
LVII, 28 «e udir parmi le tue maccatelle»
In tue la u è aggiunta in interl., con un piccolo richiamo circonflesso sotto le due lettere, probabilmente dalla mano che settecentesca che ha rivisto il codice.
LVIII, 19 «d’alto cadendo hai fatto gire al basso»
In coincidenza con l’inizio della carta, l’autore ha scritto prima hai fatto gire, subito biffato da un lungo frego orizzontale che percorre tutta la riga, per trascrivere subito sotto i versi nella forma corretta.
LIX, 9 «con argomenti, sciloppi e dïete»
Con qualche incertezza accolgo la correzione del Verzone alla lez. tràdita dall’autografo scilappi. Non trovo infatti attestazioni che possano confermare un simile caso di dissimilazione.
LX, 3 «Piangi Fiorenza bella, piangi quello | tuo figlio Alfonso, già pazzo maggiore; | e, di
lagrime pieno e di dolore, | affliggiti Arno, mesto e meschinello».
L’autografo legge piena, ma l’agg. è necessariamente da riferire ad Arno. La correzione è già del Verzone.
LXI, 10. «faccin festa gioiosi gli Aramei».
Il ms. legge faccina. Si accoglie la correzione del Verzone faccin. Sottilizzando si potrebbe pensare anche di correggere faccino e interpretare gioiosi come bisillabo (attestato per es. nel Laudario di Santa Maria della Scala). Tuttavia da un’analisi degli usi laschiani l’agg. gioioso e le sue varie forme è sempre computato come
LXXVII
trisillabo. La forma faccina sarà dunque un errore di anticipazione determinato dal successivo festa.
LXIII.
La scrittura del testo è eseguita con modulo più ridotto del solito, evidentemente perché intenzione dell’autore era di far entrare l’intero componimento in una sola facciata. Di modulo più grande del normale invece la rubrica Il fine delle lode d’Alfonso de’ Pazzi e il richiamo A Michelagnol Vivaldi (che anticipa il contenuto della serie di componimenti successiva: esso è ripreso infatti nella rubrica di LXIV). Dalla disposizione della scrittura risulta assolutamente evidentemente che il testo LXIII fu trascritto in un momento successivo alla scrittura della rubrica e del richiamo, per dare una diversa chiusura rispetto a quella originariamente progettata per la sezione dedicata al Pazzi.
LXV, 8. «di mandare i poeti al badalone».
Il codice legge Poti, con una e aggiunta in interlinea e con un segno di richiamo sotto il rigo da attribuirsi a una mano diversa da quella del Lasca (il Sommaia?).
Con qualche dubbio si abbandona la forma badolone, che ha il conforto del solo Firenzuola (Rime, ed. 1549 e di qui nelle successive stampe; cfr. anche Fatini, Per un’edizione critica del Firenzuola, p. 172 che lo considera errore): in assenza di altre testimonianze, le numerose occorrenze che si registrano nella raccolta autografa del Lasca nella forma badalone e la frequenza dello scambio a-o (cfr. anche qui giù, LXVII, 2) consigliano di correggere.
LXVII, 2. «che vi si dà il pan bianco a piccia a piccia».
Il ms. legge à piccia, ò piccia.
LXXIV, 7. «per gran vergogna abbiam rosso la guancia»
La sezione in corsivo nel ms. è aggiunta in interl. per insufficienza del margine.
LXXIV, 11. «che non scerne le vespe dalle pecchie»
Che non su un originario che eraso (il nuovo pron. rel. sfora sul margine sinistro rispetto all’impaginazione dei versi, per far spazio alla negazione originariamente caduta per lapsus). Il ms. legge no, ma l’interl. presenta macchie d’inchiostro che potrebbero nascondere un compendio.
LXXVIII
La parola lupino è preceduta da quo, biffato: forse l’autore intendeva scrivere quattrino seguendo un antigrafo che riportava tale lezione (ma può trattarsi anche di errore di memorizzazione della pericope subito corretto).
LXXV, 8. «solca, di merci prezïose carca».
Il Lasca scrive per lapsus calami cara. Una mano diversa, probabilmente quella del Sommaia, ha inserito la seconda c in interlinea.
LXXVI, 3 «che ’l dì dei morti, o giorno d’Ognissanti».
Il ms. legge girno. La prima o della parola è introdotta in interl., si direbbe dalla solita mano non laschiana che interviene sporadicamente sul codice.
LXXVII.2, 13. «hai tristamente sì deserto e fiacco».
Fiacco è preceduto da guasto, biffato.
LXXVII.2, 23 «tu non intendi fiato, fiato, fiato».
Il secondo fiato è trascritto per lapsus calami «faiato».
LXXVII.2, 34 «Io ti giuro e prometto, | se già prima il cervel non mi si sganghera, | tornarti
di Rucello una pozzanghera».
L’autografo legge tornati (lapsus calami).
LXXVIII, 3. «io dico a voi, maestro ser Lapino».
In io la prima lettera è sbiadita per il logoramento della carta.
LXXIX, 9. «Poi che volete, fuor d’ogni ragione, | abbracciare e seguir la poesia | che vi fa
uccellar dalle persone».
Il Lasca scrive più volte anziché volete, con lezione sintatticamente incoerente (l’avverbio sarebbe infatti retto da abbraciare). Si accoglie la lez. volete del Lucch. 1513 (di lì passato all’ed. Moücke e nella verzoniana, che però non registra in apparato l’errore dell’autografo) postulando che l’errore dell’autore sia determinato da una correzione estemporanea del suo antigrafo, nel quale avrà letto volte (da volete per lapsus calami) correggendo sbrigativamente a orecchio l’ipometria che la lez. della sua fonte determinava.
LXXIX
Il ms. legge fouor con u ripassata.
LXXXI, 10. «tanto e tanto l’invidia gli assassina».
Il ms. legge affassina (errore meccanico causato dalla somiglianza tra f e la variante morfologica dritta della s).
LXXXII, 17. «scrivendo in greco o nello stil romano».
Il ms. legge nello stil R Romano con uno spazio evidentemente colmato solo in un secondo momento tra la sezione radicale della preposizione articolata e l’aggettivo. Tra l’altro stil è trascritto su una parola già erasa (e non più riconoscibile). Il Lucch 1513 ha la variante nel sermon, forse perduta nell’antigrafo del Lasca e colmata poi ope ingenii.
LXXXIV, 20. «lo vuol far vivo mangiar dai pidocchi».
La forma di i che si trova nell’autografo non ha sufficiente giustificazione linguistica (lascia perplessi anche l’uso del genitivo per indicare l’agente) né il conforto di altre attestazioni nella lingua dell’autore, per cui si restituisce a testo dai, interpretando la lez., pur con qualche incertezza, come un errore di anticipazione generato dalla scriptio analitica della preposizione. D’altra parte il verso torna simile in CIIf, 4, proprio con la preposizione dai: «io ti so dir, buffon da scoreggiate, | Febo farà mangiarti dai pidocchi». Per un approfondimento, ma che interessa i secoli precedenti, cfr. Breschi, Di, d’i, di’, dî ‘dei’.
LXXXVII, 10. «così tu fussi galante uomo ancora».
La porzione in corsivo è riscritta su un originario hauessi, poi eraso e sostituito.
LXXXVII, 15. «dove, morendo, un’ora | non stavi in vita […]»
Morendo è riscritto su parola erasa non più riconoscibile.
LXXXVIII, 9. «Quanta allegrezza arà la terza spera!».
Il Lasca aveva scritto in un primo momento allegrezzia e haria, cancellando poi le i in entrambe le parole con un piccolo frego obliquo e ponendo l’accento sul verbo. Quest’ultimo, in particolare, è certamente aggiunto con lo stesso inchiostro della scrittura del codice. Le correzioni, che non sembrano immediate, sono forse state compiute subito dopo la copia del testo, dopo una rapida rilettura.
LXXX
XC, 8. «non sapendo all’usanza compitare».
Il ms. legge compitore.
XCII, 2. «e infino al consol n’è tristo e turbato».
Il ms. legge turbato e tristo, ma sull’interl., in corrispondenza dei due aggettivi, si trovano rispettivamente i numeri 2 e 1, per indicare l’inversione delle due parole, come fa fede anche la rima.
XCIII, 10. «Buonanni, a dirti il ver, le tue parole | non piacciono, e non valgono una frulla».
Il ms. legge piacciano (lo scambio a/o è lapsus calami frequente e dovuto alla velocità della scrittura).
XCIII, 13. «già più di trentotto anni hai visto il sole».
Il ms. legge Aanni. È errore frequente nel Lasca la ripetizione della lettera iniziale dopo aver trascritto la parola con maiuscola.
XCIII, 27. «per onor della patria e dei Buonanni | e di te stesso, porresti in obblio | le rime e
i versi in cui tanto t’affanni».
Mantengo la forma obblio dell’autografo.
XCIII, 30. «e duolsi santo Luca e san Giovanni»
Il testo base legge Luce per lapsus calami. Il cod. autografo BMLF, Antinori 57, c. 52v ha la lezione corretta.
XCIII, 31. «che ‘travasa’, ‘dismala’, ‘lome’ e ‘lutte’ | son nomi da far grifo al Ceffautte».
Il cod. legge trovasa, ma si tratta probabilmente di un comune scambio a/o dovuto alla velocità della scrittura. L’autografo BMLF, Antinori 57, c. 52v ha la lez. da noi posta a testo.
XCIII, 32. «son nomi da far grifo al Ceffautte».
L’autografo legge in verità Ceffauutte. A regola la prima u potrebbe essere una v epentetica, ma non trovando alcuna attestazione di questa forma preferisco correggere e interpretando la lezione come lapsus calami determinato dalla prossimità di altri raddoppiamenti nella stessa parola (-ff-, -tt-). Si noti anche il ms. Antinori 57, c. 52v ha pure Ceffautte, come anche una poesia del Pazzi (CCCLXXXXII nel ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Pal. Capp. 134, c. 392v da cui si cita): «Il fa sol re mi fa il cieff’autte».
LXXXI
XCV, 1. «Il Trissino, uomo già che pei suoi merti».
L’edizione Verzone legge meriti, metricamente irricevibile, come già riconosciuto da Romei. Poiché l’autografo ha la lez. corretta, è probabile che si tratti di un errore di stampa, sopravvissuto alla revisione abbastanza attenta dell’ed. testimoniata dall’Errata.
XCVII, 3. «si leva e toglie e rompe il privilegio».
Con qualche dubbio si interviene sulla forma rompre dell’autografo. Non è stato possibile rintracciare attestazioni sicure e in numero sufficiente di questa forma. Dalla consultazione diretta del ms. Urb. Lat. 1270, c. 26v, risulta che l’unico caso di rompre in Leonardo, Libro di pittura dell’ed. Farago, (Leiden-New York- København-Köln, Brill, 1992, p. 278) è un errore di trascrizione.
XCIX, 2. «che mai facesti per tanti e tanti anni».
Il ms. legge tanto (lapsus calami).
CI, 20. «dicendo: – Io, che dichiaro e insegno greco».
La lez. a testo è aggiunta in interl. sopra spongo, biffatto.
CI, 37 «e vedrà s’io so fare | altro poi che lucignoli o pennecchi».
L’autografo legge luciglioli, ma la lez. non ha sufficiente giustificazione fonetica per essere messa a testo, né se ne trova traccia nei lessici. D’altra parte a XCIII, 13, in contesto quasi identico, il Lasca scrive correttamente lucignoli. Il lapsus calami sarà giustificato da una confusione fortuita del nesso -gn- / -gl-.
CI, 39. «dite che s’apparecchi, | (ch’io non fo di lui stima) | o voglia in prosa o in rima».
Nell’autografo fo (ma il Lasca scrive fò, con accento) è riscritto su fui, con correzione immediata chiudendo la u e aggiungendo l’accento, ma dimenticando di cancellare la i.
CIIa, 27. «fatti da i tuoi scolar sotterrar vivo, | ché, s’egli intende Ulivo | o Berretton questa
tua frenesia, | ti porteran di peso in pazzeria».
L’autografo ha seglj. Il Verzone dà a testo se gli, che sarebbe da considerarsi un pronome clitico oggetto riferito a frenesia, femminile e dunque per nulla perspicuo. Si è scelto più semplicemente di sciogliere la grafia in s’egli, da considerarsi un pronome prolettico sogg. che reggerebbe intende.
LXXXII
CIIb, 7. «come si può nell’Alchimia vedere».
L’autografo legge Alchima, ma è l’unica attestazione laschiana di questa forma, né si trovano altre occorrenze in autori coevi (cfr. comm. ad loc.).
CIIb, 43 «Lanciain mio, quel ch’io ti scrivo e dico, | fa come buono amico | che giovar
sempre all’altro ha desidèro: | mandalo tosto nell’altro emispero».
L’autografo legge mandolo, con desinenza verbale non giustificabile altrimenti che come scambio o < a dovuto a lapsus calami.
CIIc, 17. «Ma voi, che sète golpe | e conoscete appunto | la zuppa dal panunto».
Nell’autografo accanto ad appunto l’autore aveva scritto, per errore di anticipazione, la Zupp, subito biffato, per riportare correttamente il testo al verso successivo.
CIIc, 58 «Or voi cui Febo piace | e che le Muse e ’l Monte avete caro; | voi che la poesia
toscana amate, | divoti il ciel pregate | che qua lo faccia viver sempremai | senza tormenti e