• Non ci sono risultati.

Sonettessa di schema metrico ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF fGG gHH hII iJJ jKK kLL lMM mNN nDD dOO oPP pQQ qRR rSS sTT tUU. Notevole, ma apparentemente involontaria – o per meglio dire, senza un suo valore strutturale –, la ripresa della rima D nell’undicesima coda (vv. 46-48), che essendo una rima facile (infinito verbale) potrebbe indicare semplicemente incuria del poeta. L’intensificazione del legame rimico attraverso i rapporti di consonanza e assonanza nella zona immediatamente prossima lascia però credere che a tale refrain rimico (se così si può chiamare) l’autore cerchi di dare evidenza; solo a partire da questa zona, infatti, tali rapporti si addensano: si registrano infatti assonanza tonica e consonanza nelle rime O e P (-ATa, -ATo), consonanza nelle rime Q e R (-iNi, -aNo), assonanza imperfetta tra la rima S e la rima T (-OiO, -OstO) e assonanza atona tra le rime S

95

e U (-oIO, -aIO). E si badi che simili procedimenti hanno una loro vitalità nella tradizione comica: tra le più antiche e importanti attestazioni si possono nominare la prima risposta di Forese a Dante (rime A e B: -osse, -osso) o Dante, Senuccio la tua poca personuzza (su due sole rime, -uzza, -uzzo). Meno scrupolosa, invece, la distribuzione di questi valori fonici nei vv. precedenti. Probabilmente involontaria l’assonanza tonica tra le rime A e B (-Ica, -Io). Assuona la rima D con la F (-ErE, -EstE). Ma andrà segnalata una gemmazione semantica della prima rima G (veste > vestito) sulla prima rima F; sicura visto il contesto: «…ma la faccia e la veste» : «…al viso e al vestito». Va rilevata, poi, la nutrita serie di rime ricche (amica : formica, vv. 5, 8; schiena : piena, vv. 28, 30; rispetto : sospetto, vv. 44, 45; Strata : Cosagrata, vv. 49, 50; Rinaldini : paladini, vv. 56. 57) e di qualche rima inclusiva (Carlomano : mano, vv. 58, 60), derivativa (vestito : travestito, vv. 22, 23), equivoca (nulla pron. : da nulla avverbiale, vv. 16, 18), identica (piacere : im piacere, vv. 46, 48: per il Lasca vale forse però come rima equivoca, cfr. la Nota al testo).

La sonettessa ha la forma di un dialogo in versi, tipologia variamente attestata nella tradizione comica (a ritroso si risale almeno fino all’Angiolieri dei sonetti XVI, XXI, XLII ed. Lanza), tra i maggiori esempî della quale andranno menzionati i sonetti burchielleschi LXXI, LXXV, LXXIX (ed. Zaccarello). Forse tra le prove burlesche meglio riuscite del Lasca – del quale va oltretutto ricordato il rilevante engagement nella scrittura e nel dibattitto attorno alla commedia nel Cinquecento –, il testo si segnala per l’impegno metrico (cfr. il cappello supra), per l’estensione e per la ricerca di un punto di equilibrio tra poesia e scrittura drammatica, accentuata dall’assenza assoluta di marche diegetiche (come avviene invece nei sonetti burchielleschi citati). Particolarmente notevole, a tal proposito, l’abilità nel riprodurre, per così dire, didascalie sceniche (v. 9 tu ridi?; v. 15 Ma che guardi messere?; v. 16 tu ridi pur; v. 65 io vi ricordo che noi siam d’agosto) o indicazioni fisiche relative agli interlocutori (vv. 12, 24-32, 39-41) per mezzo delle parole dei personaggi. Pure alla caratterizzazione di caratteri da commedia rimanda la psicologia del «cavalier Nano», tronfio (v. 14 perch’io son cavaliere) e superbo (vv. 45-46 I’ ho poco sospetto | di te o d’altri), pauroso e bigotto (cfr. i vv. 5-8), e il gusto per le pointes, sparse soprattutto nelle battute del Mazzuoli. Ma teatrale è anche la conclusione, con l’interlocutore dello Stradino che, saputo con chi ha a che fare, depone subito l’orgoglio e vuol correre a vedere il famigerato Armadiaccio, non tenendo conto della calura. Per questo testo si tenga presente anche il commento di Giuseppe Crimi in Nanerie, pp. 67-70.

Rubrica: Cavalier Nano: Crimi (Nanerie, p. 67n) ha cautamente proposto di identificare questo personaggio con Giovanni Altoviti, ricordato dal Varchi per essere stato «chiamato il Nano perché di piccola statura, ma d’animo terribile e astutissimo» (Storia fiorentina, in Opere, 1859, vol. I, X, XXXIII). Tuttavia è al momento imprudente accogliere questa ipotesi:

96

da quel che oggi si può sapere, l’Altoviti sarebbe morto in prigione nel 1530 (Passerini, Generalogia e storia della famiglia Altoviti, p. 160), a una data troppo alta per questo testo; per la poesia del Lasca non si può infatti, allo stato attuale delle conoscenze, retrocedere più indietro della fine degli anni ’30: si potrebbe forse ovviare pensando che il testo voglia mettere in scena uno dei tanti racconti che lo Stradino propinava ai suoi amici, ma sarebbe purtroppo pura speculazione, anche perché un nomignolo come quello in questione non parrebbe tanto originale da non poter essere stato affibbiato ad altri personaggi. Si tenga poi conto del fatto che Giovanni Altoviti era proverbialmente noto negli anni ’40 come «il nano degli Altoviti» (cfr. Annibal Caro, Lettere familiari, ed. Greco, I, lett. 235, a Mattio Franzesi a Roma, 1 dicembre 1544, pp. 321-322: «Certo sì, che la grandezza vostra si disagia ad abbassarsi per un mio pari, pure ricordatevi, che’l gran Migliore faceva motto al nano degli Altoviti, e che voi, per cosa di manco stima, che non sono io, vi siete alcuna vota chianto fin in terra»). 1. Bambolin mio: ʻBimbo mioʼ, usato ironicamente per la piccola statura dell’interlocutore. Probabile il ricordo di Franco, LII, 5, in Franco-Pulci, Libro dei sonetti, ed. Decaria-Zaccarello «Vien’ qua, bambolin mio, e che ti fanno?». che dio vi benedica: augurio che, con quel che segue, vale come formula di saluto, cfr. ad es. Lasca, Il Frate (ed. Grazzini), a. II, sc. I: «CATERINA: Va’, spacciati, trovalo tosto: e sappia dire. MARGHERITA: Lasciate pur fare a me, padrona mia, che Dio vi benedica. CATERINA: Orsù, io voglio tornarmi in casa, e aspetterotti. Vedi, torna tosto a riferirmi», o analogamente Lasca, La Strega, a. I, sc. III: «Dio vi dia il buon giorno, padrone: io ho portato ogni cosa». 2. secondo il disio: ʻsoddisfacendo i vostri desiderîʼ. 3. ratio: ʻerrabondoʼ (GDLI, s.v.), cfr. Bientina, La Fortuna (ed. Cataudella-Montanile), 440 «[…] io on ne vo però ratio». 5. Roma santa: perché sede del papato. d’ogni bene amica: l’amplificazione dell’attributo può forse servire a ritrarre il bigottismo un po’ superstizioso del personaggio che fa voto per un motivo insulso. 6. sodisfare: ʻadempiereʼ, ʻassolvereʼ (la forma scempia è dell’antico toscano secondo il GDLI). boto: ʻvotoʼ, ‘promessa solenne alla divinità per ottenere una grazia’ con betacismo (cfr. supra, comm. a I, XXX 4). 7. sendo: cfr. comm. a I, XLIII 2. 10. la margine: più che ʻferitaʼ (come GDLI, s.v. 14 e di lì Crimi) intenderei qui ʻcicatriceʼ (cfr. Benvenuto da Imola, Romuleo, I, p. 168: «E annoverati li fatti cavallereschi con magnifica orazione, discoperse lo petto suo notable delle cicatrici, cioè fedite e margini, evidenti e chiare, ricevute nelle battaglie», dove la dittologia ha funzione di glossa), e con tale significato è registrata anche nel TLIO, s.v. 1; normale con questo significato la forma femm. 11. feroce e bestiale: dittologia sinonimica. 13. licenza di portar spada e pugnale: un bando del 28 maggio 1539 aveva imposto ai cittadini il divieto di portare armi entro le mura fiorentine e in un raggio di tre miglia da esse, eccezion fatta per «familiari et servitori dello Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Duca di Fiorenza» e per «li Soldati stipendiarij di Sua Eccellenza» o per coloro che avrebbero avuto un permesso speciale (cfr.

97

Cantini, Legislazione toscana, I, pp. 183-185). 15. messere: appellativo di cortesia attribuito anticamente a giudici, notai e cavalieri, cfr. G.M. Cecchi, Gli incantesimi, a. III, sc. IV «[non si dà] di messere se non a’ dottori e a cavalieri e a’ calonaci» e Francesco Sassetti, Notizie, p. XXXIII «In alcuni luoghi de’ suoi ricordi il nominato Paolo […] scrive ʻmesser Manenteʼ: il quale ʻmessereʼ in quelli tempi solo si dava a quelli che avevano grado d’un cavaliere» (cit. in GDLI, s.v. ʻMessereʼ 1). Molto probabilmente qui l’impiego ha una sfumatura ironica, in reazione alla boria dell’interlocutore. Si tenga anche presente, però, che a Firenze (a differenza che nel resto d’Italia), proprio nell’età del Lasca, l’uso cominciava ad essere esteso come generica forma di cortesia (di qui l’ironia sul protagonista dello Stufaiolo del Doni, V 7: «Io ho già guadagnato il messere dalla S.V. Pian piano andrò a signore»), cfr. Varchi, Opere, I, p. 193 «Ciascuno si chiama a Firenze per il suo nome proprio, o pel suo soprannome, e s’usa comunemente, se non v’è distinzione di grado o di molta età, dire tu, e non voi a uno solo, e solo a’ cavalieri, a’ dottori ed a’ canonici si dà del messere, come a’ medici del maestro, a’ monaci del don cioè donno, ed a’ frati del padre; è ben vero, che da poiché cominciarono a esser le corti in Firenze, prima quella di Giulio cardinal de’ Medici, e poi quella di Cortona, la quale più licenziosamente viveva che la prima, i costumi sono non so se ingentiliti o corrotti» (il passo è citato anche in

Plaisance, Festa, teatro e politica, p.

143n)

. Per tutta la questione cfr. anche Migliorini, Saggi linguistici, p. 195n., Trovato, Il primo Cinquecento, p. 280. 16. Tu ridi pur: identica movenza di sapore teatrale in Matteo Franco, XLIII, 9, in Franco-Pulci, Libro dei sonetti, ed. Decaria Zaccarello «Tu ridi pure, orsù, la pace è fatta». L’avverbio pur qui vale ʻancoraʼ. veddesi mai più nulla: forse ʻnon sai far altro?ʼ (la locuz. non sembra nota ai vocabolarî), cfr. Lasca, La Strega (ed. Plaisance), a. III, sc. I: «Eh, eh, eh, lavaceci, tambelloni; di che ridete voi? Veddesi mai più nulla? Farfanicchio, passa là, che noi andiamo a sciolvere, che oggimai n’è otta». Si noti l’allungamento della consonante analogico al tipo con antico perfetto in -UI (Rohlfs 293 e 583). La forma con tema in -e- è più rara, e forse demotica (attestata nel Sacchetti e nel Piov. Arl., ed. Folena, 76, p. 118 «veddelo»): a Firenze le prime attestazioni sono però già tardo trecentesche, posteriori comunque di almeno un secolo al tipo viddi (dati dal CORPUS OVI, consultato il 4 luglio 2017). Nel Cinquecento la forma si ritrova anche nel Varchi (Pirotti, Benedetto Varchi, p. 129) e nel Doni, Marmi, ed. Girotto-Rizzarelli, pp. 30-31. 17. che: con funzione causale. il Carafulla: ʻun mattoʼ: Antonio Carafulla, cappucciaio fiorentino divenuto proverbiale per le sue pazzie e buffonerie. Su di lui cfr. la menzione del Nardi (Istorie, II, pp. 30-31): «Disse adunque papa Leone che, fra tante centinaia di cittadini, non ne aveva trovato se non uno sommamente savio (e quegli era stato Piero Soderini) e uno notabilmente matto (e questi era stato un maestro Antonio cappucciaio chiamato il Carafulla, e reputato in Fiorenza comunemente buffone, o pazzo) i quali soli lasciando da parte i propri loro interessi, gli avevano raccomandato istantaneamente la città di Fiorenza, sua patria»; per

98

un quadro d’insieme cfr. soprattutto il ricchissimo repertorio offerto dalla Ageno, Un personaggio proverbiale; Woodhouse, Carafulleria (che ricorda anche il passo del Nardi); Minio-Paulello, La fusta dei matti; Bragantini, Altre schede per Carafulla. Per il Lasca cfr. almeno la canzone in morte dello Stradino (qui XX, 21), in cui il fondatore dell’Accademia degli Umidi s’immagina assurto al cielo in una sorta di trinità dei buffoni (vv. 21-22: «e col buon Carafulla, | col Bientina, ride e si trastulla»). Vale la pena dire qualcosa sulla professione di grammatico e di etimologo che a volte gli si attribuisce. Essendo i primi a far menzione di questa sua attività i commenti burleschi (cfr. ad es. Grappa, Commento nella canzone del Firenzuola, in Ludi esegetici III, ed. Pignatti, p. 208 «il Carafulla etimologico»), non ci può essere dubbio sul valore irridente (verso i grammatici) che vuol avere questa notizia, e vale a dimostrarlo anche un passo del Varchi (Hercolano, ed. Sorella, p. 696) che mette sullo stesso piano le etimologie del Carafulla con quelle dei lessicografi (e il paragone regge proprio perché si tratta di cose diverse): «[…] basta che delle etimologie antiche, o volete grece o volete latine, ne sono molte forse meno vere e più degne di riso che le moderne toscane di maestro Antonio Carafulla, il quale mai non fu dimandato di nessuna, che egli, così pazzo come era tenuto, non rispondesse incontanente. […] Dimandato […] perché così si chiamasse la girandola, rispose subitamente: ‘Perché ella gira e arde e dondola […]». Compare anche tra gli interlocutori dei Marmi del Doni (ed. Girotto- Rizzarelli, pp. 23-23-29). 18. uomo da nulla: ʻdi nessun valoreʼ (Veronica Franco, Rime, ed. Bianchi, XXIII, 31: «Ma saria forse un espresso avvilirmi, | far soggetto capace del mio sdegno | chi non merta in pensier pur mai venirmi: | un uom da nulla, e non sol vile, e indegno | che da seder si mova a lui pensando | qualunque ancor che pigro e rozzo ingegno»), ma probabilmente anche ʻscioccoʼ: Bronzino, Capitolo del Dappoco, 314-315 («e par lor ch’un huom non sia da nulla, | che sta contento alle sue cose sole») e Bruno, Candelaio, a. II, sc. V («Ecco ti spontoneggio un'altra volta: or che potrai far tu? che pensi far adesso, don Nicola? chi è uomo da nulla più di te?»). 19. Profeta fu: per estens. ʻpersona di straordinario acume e portentoso intuitoʼ (cfr. anche GDLI, s.v. 3), naturalmente usato qui in senso ironico, ma si tenga presente che con lo stigma dei cittadini verso i «folli» conviveva un certo grado di ammirazione che si ritrova anche nei varî aneddoti sul Carafulla. 20. La pointe sfrutta la formula ricorrente del linguaggio lirico (e filosofico) non pare/non è cosa celeste ma terrena (tra i molti esempî si pensi a Lorenzo, Canzoniere, ed. Orvieto, VII, 9-10: «Costei cosa celeste, non terrena, | data è agli uomini, superno e sol dono») per affermare la bizzarria dell’aspetto del Carafulla, e dunque del suo interlocutore, incommensurabile al mondo divino e umano. 22. un altro voi: ʻun vostro sosiaʼ. al viso e al vestito: ʻnell’aspetto esterioreʼ, dittologia; si noti la variazione sinonimica sul v. 19 «la faccia e la veste». 23. un Ecco travestito: Crimi propone la chiosa ʻbuffone mascheratoʼ, ma sembra più probabile che la battuta alluda all’aspetto consunto dell’interlocutore (cfr. infatti

99

Lasca, S152, 20: «[…] voi che parete un’arpia | anzi la fame uscita di tinello | anzi l’ambasciador della moria, | anzi Lazzaro uscito dell’avello, | […] né vi giova il minuto | né ’l cavol che mangiate o ’l pan bollito, | che voi sembrate un eco travestito») e dunque equivalga a formule come ʻla fame in personaʼ: lo confermerebbe anche un verso del Pistoia «Ognun mi dice: – Tu sei magro e secco; | el pare un monstruoso babbuino – | Chi – santo Onofrio, – e chi: – san Bernardino. | Ogni manco che fusse parria Ecco» (si cita da Rime, ed. Cappelli-Ferrari, p. 69, vv. 1-4 intervenendo sulla punteggiatura). Normale per l’epoca la forma maschile e con raddoppiamento consonantico. 24. la barba di romito: cfr. nota a IV, 6 (dove sembianze di «romito» sono attribuite allo Stradino). Qui si aggiunge il dato della barba proverbialmente folta di questi monaci, per la quale Crimi rinvia pertinentemente anche a S42 (qui LII), 4, «labbra di mula e barba di romito», riferito ad Alfonso de’ Pazzi. 25. la zazzera d’Orfeo: con ‘zazzera’ si designavano originariamente i capelli lunghi dietro la testa. Per quanto siano note rappresentazioni di Orfeo con una chioma folta non è immediatamente perspicuo donde l’autore ricavi questo dato culturale. Che un tempo lo Stradino usasse questa acconciatura è ricordato nei Marmi del Doni: «se voi foste stato armato e con la zazzera, come voi sète ritratto in casa» (ed. Girotto-Rizzarelli, p. 55). Questo tipo di pettinatura era fuori moda, almeno nel centro Italia, verso la metà del Cinquecento: si veda a tal proposito quanto scrive il Casa nel suo Galateo, ed. Barbarisi, pp. 54-55: «perciò che, come aviene a chi ha il viso forte ricagnato, che altro non è a dire, che haverlo contro l’usanza, secondo la quale la natura gli fa ne’ più, che tutta la gente si rivolge a guatar pur lui, così interviene a coloro che vanno vestiti non secondo l'usanza de’ più ma secondo l'appetito loro con belle zazzere lunghe o che la barba hanno raccorciata o rasa o che portano le scuffie o i berrettoni grandi alla Tedesca, perciò che ciascuno si volge a mirarli et fassi loro cerchio, come a coloro, i quali pare che habbino preso a vincere la pugna incontro a tutta la contrada, ove essi vivono». Probabilmente, dunque, il richiamo ironico a Orfeo è un’iperbole per indicare una mitologica vetustà che ha comunque del venerando. gli occhi di rana: pertinenti i rinvii di Crimi a Burchiello (ed. Zaccarello), CCXVII, 5: «mostrommi quel cogli occhi di duo botte» e Pistoia, Sonetti faceti (ed. Pèrcopo), CXXXII, 9-10: «che occhi! Occhi non già, potte di volpe, | alcun dicon che son di dua ranocchi». 26. Befana: potrebbe anche indicare il fantoccio di cenci tradizionalmente fabbricato ed esposto la notte dell’epifania (cfr. GDLI, s.v. 4), ma sembra più appropriato pensare alla figura grottesca per secoli spauracchio dell’immaginario infantile (questo significato è ben attestato già nel Cinquecento, cfr. GDLI, s.v. 5), vista la breve rassegna di creature esotiche o fantastiche che segue immediatamente. 29. gatto mammone: tipo di scimmia (GDLI, s.v. 1 e TLIO, s.v. ʻGattoʼ 1.3), cfr. anche Lasca, Me23, 10 («A costei fu donato | un vago e pellegrino | gattomammon, bertuccia o babbuino») e la lettera all’Amelonghi pubblicata in Biscioni- Moücke, II, p. 350: «[…] non stetti mai con nessuno né per famiglio, né per copista, né per

100

gattomammone». sirena: dopo il sec. XII la rappresentazione propriamente equorea di queste creature mitologiche comincia a imporsi nell’immaginario comune, ma con due code anziché una (così infatti le descrive il Sacchetti, Della proprietà degli animali, in Sermoni evangelici ed altri scritti inediti e rari, ed. Gigli, p. 257: «Sirena è uno animale ovvero pesce che da mezzo in su ha forma di donzella e dal mezzo l’ingiù è come un pesce con due code rivolte in su»), e certamente in tal modo erano popolarmente note nell’età del Lasca, come dimostra Caro, Lettere familiari, ed. Greco, III, p. 48: «La forma de la sirena appresso gli antichi non era quella che ora volgarmente si tien per sirena. E le mezze figure umane con le code de’ pesci in vece di gambe significavano appo lor tritoni e ninfe e cotali altri dei del mare». 31. arpia: acuta la chiosa di Crimi: «probabile gioco di parole tra arpia/arpa». 33. saria: per questa forma di origine siciliana cfr. comm. a I, II 4. 34. dichiarasse: ʻesponesse con la dovuta precisioneʼ. appunto: ʻesattamenteʼ (TLIO, s.v. 1). 36-37. Parodia di un modulo petrarchesco: RVF, CCCXLVII, 4 «e d’altro ornata che di perle o d’ostro» (il rinvio è già di Crimi). 37-38. Eufemismo: è ovvio che non sarebbe stato necessario molto tempo per accorgersi dell’abisso che separava le fattezze dello Stradino da quelle del mitico giovane tanto bello da finire annegato, cadendo nello specchio d’acqua in cui aveva ammirato il proprio riflesso (Ov., Met., III 407-509). 37. s’io ti miro fiso: ʻse ti osservo attentamenteʼ: tessera sintagmatica di ascendenza lirica (numerosi gli esempî fin dallo stilnovo, passando per Dante e soprattutto per il Boccaccio che ne fa sperpero: spogli BIBIT 11 luglio 2017), qui sfruttata con effetto comico. 39. veggio: per questo tipo e la forma concorrente non palatalizzata cfr. il commento a III, 3. 40. Per un’altra, analoga, descrizione fisica dello Stradino, cfr. III, 10-14. torto: deformato (quando impiegato per la descrizione del volto, questo aggettivo indica spesso una deformità sopravvenuta alla malattia o alle fatiche, cfr. GDLI, s.v. 7). abbozzato: ʻmal formatoʼ (GDLI, s.v. 2), con lo stesso significato in G.M. Cecchi, Il Servigiale, a. III, sc. IV, p. 50: «[…] son così abbozzato e tanto | saturnin ch’i’ non so che cosa sia amare». Per il GDLI è l’unica occorrenza del lemma con questo significato: essendo la commedia del Cecchi databile, come da frontespizio (Recitata in Firenze il Carnovale de l’anno 1555) al 1556 – giacché l’indicazione cronica deve essere intesa more florentino – quella del Lasca risulta essere la prima attestazione nota (ante 1549). membri: sineddoche per indicare l’intero aspetto fisico; e si noti la forma masch., più prosastica. strani e sconci: dittologia (ʻorribiliʼ) per la quale è opportuno il richiamo di Crimi a Lasca, Cene (ed. Bruscagli), I, V 44: «di che col marito prima ebbe di sconce e di strane parole». 42. della schiatta de’ Baronci: famiglia fiorentina la bruttezza dei membri della quale era da secoli proverbiale (Boccaccio, Dec., VI, V 5: «essendo di persona piccolo e isformato, con viso piatto e ricagnato che a qualunque de’ Baronci più trasformato l’ebbe sarebbe stato sozzo»). 42. sonci: forma verbale con enclisi pronominale. 43. v’imprometto: ʻvi assicuroʼ, cfr. Piov. Arl., ed. Folena 111, p. 167 «e

101

promettovi, monsignore, che io sono il più contento uomo di questo mondo e possomi chiamare il più filice prete della terra mia, perché io mi sto contento al dovere». 44. m’areste avuto: si noti la costruzione del periodo ipotetico con cong. pass. nella protasi e condiz. pass. nell’apodosi. Per il tipo avere con dileguo della labiodentale nel fut. e condiz. cfr. qui comm. a I, XV 5. Bertuccione: cfr. comm. a V, 12 (erronea qui la spiegazione di Crimi, che, per il contesto, crede trattarsi di un gigante). 45. sospetto: ʻtimoreʼ. 46. se t’è im piacere: formula equivalente qui a ʻse non ti dispiaceʼ: la rima tra il sintagma ʻessere in piacereʼ e sapere è una traccia mnemonica di Par., XXV, 58-60: «Li altri due punti, che non per sapere | son dimandati, ma perch’ ei rapporti | quanto questa virtù t’è in piacere». Cfr. anche Cir. Calv., ed. Parretti, II, LII 7 «Io prego te, signor, se t’è in piacere | Che in qualche parte io lo possi vedere». 48. al vostro piacere: «ʻEssere al piacere d’alcunoʼ vale ʻEssere pronto a servirloʼ» (Crusca, IV impressione, s.v. ʻpiacereʼ III), qui è formula di cortesia, cfr. Bientina, La Fortuna, (ed. Cataudella-Montanile), 304 «La milizia è la mia arte,