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Sonettessa di schema metrico ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF fGG (è il primo dei testi che impiega questo schema largamente fruito nella raccolta, cfr. ad es. VI, VII, XI, XIII ecc.). Assonanti le rime A ed E, in assonanza atona A e G, che sono pure consonanti (-oTe-, - uTe); ma lo sfruttamento tecnico della consonanza è più in generale notevole in tutto il componimento (A, C, F e G tutte caratterizzate dal fonema -t- dopo vocale tonica).

Testo d’invio a Giovanni Mazzuoli («Padre Stradino») con funzione deprecativa e parenetica. Da una parte si lamenta (vv. 1-4) l’ammissione di Alfonso de’ Pazzi all’Accademia Fiorentina (7 settembre 1543), dall’altra (vv. 5-14) si incita il destinatario, per la sua influenza presso la corte medicea, a intervenire per riportare l’istituzione alla sua originaria vocazione e dunque a ristabilire il suo prestigio, minato (vv. 18-23) da lotte intestine dettate dalle ambizioni dei nuovi membri. L’ammissione accademica del Pazzi e l’individuazione del destinatario del testo nello Stradino permettono di delimitare con sicurezza i termini della composizione del testo al settembre 1543-giugno 1549 (morte dello Stradino). Già Plaisance (Culture et politique, p. 134n), ha però circoscritto acutamente l’anno al 1547. Qui si propone di stringere ulteriormente alla prima metà d’agosto di quell’anno, vale a dire ai giorni successivi alla riforma che sancirà l’epurazione del Lasca e di altri Umidi dal consesso (4 agosto), data l’allusione alla morte («basisce», «sotterrato») dell’Accademia – ma più propriamente, al gruppo degli Umidi e al loro progetto. Il Pazzi, che manterrà la sua nomina accademica anche dopo la riforma, pronuncerà una lezione sul sonetto petrarchesco Orso al vostro destrier si può ben porre l’11 agosto e sarà probabilmente per questo che la polemica generica del Lasca si scaglierà direttamente contro questo letterato: l’anno prima (cfr. Masi, Pazzi, Alfonso, in DBI, 82, 2015, che ritiene però databile il testo ai giorni dell’ammissione del Pazzi) questi era stato infatti tra gli elezionarî promotori della candidatura al consolato di Giovan Battista Gelli (si spiegherebbe così l’accusa di «fare mercanzia del consolato» v. 20), strettissimo sodale del Giambullari, tra gli incaricati della riforma e console proprio tra il marzo e l’agosto del 1547.

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1-3. Tutto il periodo ha ovviamente carattere antifrastico e ironico. 1. puote: forma più antica della 3a pers. sing. ind. pres. ancora viva nella lingua scritta del Lasca (anche in prosa,

cfr. Teatro, ed. Grazzini, p. 43: «non puote uscir dond’egli è senza me»): in questa raccolta si registra una sola altra occorrenza (I, X 4), ma altri testi editi dal Verzone ne dimostrano un impiego largo. Notevole che il Bembo lo considerasse un arcaismo della poesia (Prose, III, XXVIII, p. 232: «Levaron in puote i toscani prosatori, che la intera voce è, tutta la sezzaia sillaba e può ne fecero, più al verso lasciadolane che serbandola a sé, il qual verso nondimeno usò parimente e l’una e l’altra»). 2. cose di fuoco, di ghiaccio e di vento: per un’analoga costruzione cfr. supra, I, XXXVI 7-8: «Or, chi brama d’udire interamente | la bella storia che segue il mio canto, | stiagli fitto attraverso nella mente | di venirmi a ’scoltar nell’altro canto, | dove cose di fuoco e di saette, | di tremuoti e di vento, saran dette»; XXI, 66-67: «d’acqua, di vento, di fuoco e di diaccio | cose vi son […]». [cose] di fuoco: cose che desteranno grande meraviglia (GDLI, s.v. ‘fuoco’ 36), cfr. Berni, Orlando innamorato, VI, LXXII 6-8 «Avendo a dir io, voi a sentire | cose fiere e crudel, cose di foco | meglio è che tutti ci posiamo un poco»; Della Casa, Capitolo della Stizza, 4-6 «Ed io per me, se non ch’io temo un poco | di costor, che ragionano in sul saldo, | crederei dir di voi cose di foco»; Aretino, Dialogo, II, p. 274 (ed. Aquilecchia): «Il re che la combatteva faceva cose di fuoco ne le scaramucce». [cose] di ghiaccio: la locuzione non è attestata, ma si tratta probabilmente di associazione parodica verso il linguaggio petrarchesco (dove fuoco e ghiaccio sono frequentemente associati per esprimere sentimenti contrastanti, e potrebbe dunque valere anche, qui, ‘cose da far rabbrividire’). [cose] di vento: ‘cose vane’; cfr. Berni, Rime, ed. Romei, LIV, 79-81: «Hanno gli altri volumi assai parole, | questo è pien tutto e di fatti e di cose | e d'altro che di vento empir ci vuole»; Varchi, Hercolano, p. 76: «Quando alcuno vuol mostrare a chi che sia di conoscere che quelle cose le quali egli s’ingegna di fargli credere sono ciance, bugie e bagatelle, usa dirgli: tu m’infinocchi o non pensare d’infinocchiarmi; […] e talhora si dice: tu mi vuoi empier di vento o infrascare»; la locuzione, modellata su espressioni come ‘pascere/pascersi di vento’ (GDLI s.v. ‘vento’ 24), chiude una climax che capovolge antifrasticamente il primo elemento (cose di fuoco ha di norma anche impiego positivo). 3. Alfonso pazzissimo: Alfonso de’ Pazzi, detto l’Etrusco (1509-1555): l’aggettivo funge da criptonimo della famiglia de’ Pazzi e qui ha probabilmente valore denigratorio, ma non si dimentichi che anche poeti più vicini all’Etrusco se ne servirono affettuosamente (così è chiamato, p. es., nella dedicatoria, datata 20 settembre 1557, di un manoscritto di sue rime copiato da Girolamo Amelonghi e donato a Cosimo I: cfr. Serie dei testi di lingua, II, p. 246: «Felice adunque Varchi, poi che sei immortalato, impestellato, e insavorato per la musa di Alfonso, Pazzissimo, poetissimo, e ghiribizzosissimo […]»). drento: forma metatetica argentea (Manni, Ricerche, pp. 166- 167), tipica del fiorentino demotico, che il Lasca sfrutta spesso in rima (cfr. qui VIII, 22;

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XX, 50; XXI, 62); più raramente si incontra a interno di verso (cfr. ad es. ed. Verzone, O109, V 5; C25, 9; CC4, 30). 4. che la musica vuol senza le note: espressione con significato tecnico, che allude all’improvvisazione poetica e musicale, come ha già rilevato acutamente Masi, Politica, arte e reiligione nella poesia dell’Etrusco, p. 322n: «Si tratta non di un’invenzione burlesca, come si potrebbe pensare, ma di un sostegno dichiarato dall’Etrusco in più componimenti alla musica improvvisata su arie-tipo, propria della tradizione antica, contrapposta alla nuova notazione polifonica». Sullo stesso argomento si sofferma Aldo Castellani, Nuovi canti, p. 81 segnalando la testimonianza della raccolta di testi pazziani che l’Amelonghi aveva messo insieme per Cosimo nel 1557 (la citazione è tratta dal Magl. VII 271, p. 92): «Voi […] foste il primiero che apprender mi feste con tanta facilità la dolce musica senza note». 5-6. queste… son le carote… che vi son fitte dietro a tradimento: l’espressione coniuga due significati, uno proverbiale e l’altro evidentemente osceno, della locuzione ‘piantare, cacciare, ficcare carote’ (GDLI, s.v. ‘Carote’ 2 e 4): nel primo caso vale ‘abbindolare’ (particolarmente eloquente Mattio Franzesi, Capitolo sopra le carote, a m. Carlo Capponi, in Il secondo libro dell’opere burlesche, 1555, c. 41r: «chiama piantar carote il popolaccio | quel che diciam mostrar nero per bianco», ma cfr, anche Aretino, Marescalco, ed. D’Onghia, a. I, sc. II, 48 «né mi cacciarete carote, non, per Dio!»), nel secondo è più precisamente richiamato il significato letterale e traslato di ‘fottere’. Cfr. anche l’espressione cacciare i porri di dietro attestata in Filippo de’ Nerli (lettera a Niccolò Machiavelli, da Firenze, 6 settembre 1525: «et fatelo con tal destrezza, che non si bandisca qua […], perché sendoci qualche oppinione di tramutare gravezza, o porre qualhe arbitrio, vi potrebbe in su questa fama essere fitto qualche porro di dietro […]». in Machiavelli, Tutte le opere, ed. Martelli, lett., 288, p. 1221) e, soprattutto, nel Berni, Rime, ed. Romei, XVI, 24 «che ti par di questi almi allievi tuoi | che t’ha cacciato un porro dietro via?». 5. queste: riprende anaforicamente il periodo dei vv. 1-2. Padre Stradin: Giovanni Mazzuoli da Strada. 7. basisce: ‘muore’, fig. per ‘si disgrega’ (GDLI, s.v. ‘basire’ 2 e soprattutto LEI, s.v. ‘*BASĪRE’, I.1.a dove l’allegazione del Lasca ha però impropriamente ‘(fig.) finire’). Cfr. il luogo parallelo del Lamento dell’Accademia degli Umidi (O4, VIII 2) in cui l’Accademia, tramite prosopopea, si rivolge al Lasca in questi termini: «E tu, Lasca, che fai o che t’aspetti? | Vuoi tu tanto indugiar ch’io sia basita?». 8. ne state a bocca chiusa: ‘tacete, inebetito’, cfr. il medesimo comportamento di Ferraù di fronte ai rimproveri di Argalia (Orl. Fur., I, XXX 3): «Né tempo avendo a pensar altra scusa, | e conoscendo ben che 'l ver gli disse, | restò senza risposta a bocca chiusa». a man vòte: senza alcun guadagno (GDLI, s.v. ‘mano’, 46 locuz. ‘a mani vuote, con le mani vuote’). 9. Consagrata: uno dei molti soprannomi dello Stradino, su cui cfr. supra comm. a Iep, [7]. 10. gli scribi iniqui e ’ farisei: gli scribi erano nell’antica tradizione ebraica i funzionarî depositarî della legge, nei Vangeli spesso associati ai farisei (setta politico-religiosa anch’essa caratterizzata da

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un’osservanza rigorosa della legge) con intento spregiativo, per alludere a una religione meramente formale (cfr. ad es. Matth. 23, 13: «Vae autem vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia clauditis regnum caelorum ante homines!»). Figurativamente, qui, il Lasca allude al nuovo gruppo dominante dell’Accademia Fiorentina (paragonata al Tempio profanato), la cui pedanteria sarebbe analoga al vacuo formalismo di quelle sette giudaiche. La stessa metafora è in O4, IX 7, ma il paragone è comune anche alla poesia quattrocentesca fiorentina (p. es. Feo Belcari: «Gli scribi sacerdoti e farisei, | vedendo il popol detro a me venire, | faran concilio con gli altri giudei | e cercheranno di farmi morire»; Pulci, IV, 20 «O cosa iniqua e sozza | a ripensar che Christo in voi s’incialdi | nimici pharisei, suo can’ ribaldi» in Pulci-Franco, Libro dei sonetti, ed. Decaria-Zaccarello) che alla letteratura comica cinquecentesca (Aretino, Dialogo, II, p. 220, in riferimento alle truppe imperiali al tempo del Sacco: «Gli scribi e i farisei apparsero a la croce di Motemari […], e, dando il sole ne l’armi loro, il lume bestiale che ne usciva faceva tremare i merloni, corsi su per le mura, con altro spavento che non fa balenare nei tuoni»). 11. l(a): riprende anaforicamente l’Accademia (v. 7). stranamente: ‘penosamente’ (GDLI, 5, ad voc.) o forse ʻorribilmenteʼ (GDLI, s.v. ʻStranoʼ 22). profanata: ‘svilita nella sua dignità’; prosegue sulla metafora della profanazione del Tempio. Il verbo denominale (dal lat. tardo PROFANARE) sembra essere entrato nell’uso poetico soltanto alla fine del Quattrocento (il GDLI, s.v. ‘profanare’ ha come prima attestazione un passo delle liriche del Savonarola); nel Cinquecento gode di larga diffusione e si ritrova anche nell’Ariosto (Orl. Fur., XVI, XXVI 4: «le belle case e i profanati tempî»). 12. gridate: anafora (cfr. v. 9). mei: la riduzione del dittongo nel possessivo è un tratto demotico quattrocentesco (ne fa ampio uso Francesco di Matteo Castellani, Quaternuccio e giornale B), ma nel Lasca sembra giustificarsi più semplicemente con l’autorizzazione della rima, come avviene anche in autori fiorentini del Trecento come il Sacchetti (spogli CORPUS OVI, s.v. ‘mei’). 13. doventata: ‘diventata’, la forma è dovuta all’assimilazione della i protonica davanti a consonante bilabiale. 14. la burla e ’l passatempo: ‘lo zimbello’, dittologia sinonimica. È il topos antico della fabula vulgi, cfr. ad es. Lam., 3, 14 «factus sum in derisu omni populo meo, canticum eorum totum die». Nella tradizione volgare basta il rinvio al Petrarca (RVF, I, 9-10 «Ma ben veggio or sì come al popol tutto | favola fui gran tempo […]»), per la tradizione lirica, e all’Angiolieri (ed. Lanza, LXIV, 9-11 «e possa [l’omo] star gioioso tra la gente | e non sia per alcun mostrato a dito, | né fatto di lui beffe spessamente»), per la tradizione comica. burla: iberismo penetrato alla fine del Quattrocento dalla corte di Napoli e di lì diffusosi in altre regioni (LEI, s.v. ‘BURRA’, 2.a. e relativa bibliografia): tra le prime attestazioni della poesia burlesca si segnalano gli Strambotti alla villanesca dell’Aretino, stampati nel 1544 (XXXVI, 8: «ma non burla, che passo battaglia»). passatempo: calco cinquecentesco dal francese quattrocentesco passe-temps, discretamente diffuso nella letteratura faceta del secolo (GDLI,

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ad voc.che offre un buon numero di riscontri del Caro, del Firenzuola, dell’Aretino): particolarmente significativo l’allegazione di Orl. Inn., XIV, LXVII 5-6: (nella toscanizzazione del Berni): «Ma quella compagnia brava ed ardita | l’avea per passatempo e per piacere». plebei: in rima anche in alcuni testi attribuiti dalla tradizione al Burchiello, ma espunti dalla recente edizione Zaccarello: si veda particolarmente il son. CCCVIII (Qui non bisogna or più banchi d’Ebrei) dell’ed. Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentinialla burchiellesca, Londra [ma Livorno, Masi], 1757, p. 141, vicino a questo testo del Lasca per l’uso satirico di immagini bibliche. 17. trentasei candellieri e un secchione: già Masi, Politica, arte e religione, p. 331n ha rilevato che si tratta di una citazione dell’incipit di un’ottava del Pazzi (Magl. VII 361, c. 70v, pubblicato dallo stesso Masi a p. 351 del suo intervento: il testo si legge anche in Il terzo libro, 1723, p. 375). 19- 20. Stesso concetto e analoghe parole ricorrono nel Lamento dell’Accademia degli Umidi (O4), V 7-8 «e l’avarizia seguendo empia e ria | fanno del consolato mercanzia»), ove pure ambizione e avarizia sono i principali vizî rimproverati agli avversarî (VI 5-8 «Pur gl’invidiosi, ambizïosi cori | e l’avarizia, ohimè, degli Aramei | han tanto fatto alfin che, di quei priva | morta non son né son restata viva»), ma cfr. qui anche XX, 62-65 «e senza alcun contrasto | faranno gli Aramei sicuro guasto | dell’Accademia, ov’io fui già beato, | poppandosi a vicenda il consolato». 20. si fa mercanzia: la locuz. è ampiamente usata nella poesia burlesca del Cinquecento: Berni, Rime, ed. Romei, XXXVIII, 12: «e fanno mercanzia del vostro male»; N. Franco, Priapea, 158, 13-14: «ed oggi i padri fanno mercanzia | de la verginità de le figliuole». consolato: la principale carica, di durata semestrale, dell’Accademia Fiorentina; se è giusta la datazione che si è proposta nell’introduzione al testo, in questo periodo il console sarebbe stato il Giambullari (eletto in marzo) o Selvaggio Ghettini (eletto in agosto) Si noti che l’elezione del Ghettini sembra essere stata contrastata, subentrando a Giovan Battista Strozzi, primo eletto, ma dimissionario (e per questo espulso): per tutto cfr. Plaisance, Culture et politique, p. 191-192 e n. 22. gioveni: tipico del fiorentino duecentesco è lo sviluppo -en- postonico > -an- (Castellani, Saggi, I 475), ma a partire dal Trecento il nesso -an- ha uno sviluppo ulteriore > -en- che diviene concorrente (gli spogli nel CORPUS OVI attestano questa forma solo a partire dal 1336: data di consultazione 25 maggio 2017). lo spasso e la salute: ‘sollievo’, endiadi. spasso: qui si intende come ‘conforto’; cfr. GDLI, s.v. 4: Bellincioni, Rime (ed. Fanfani) II, p. 151: «Fu bene a lui il morire un dolce spasso, | ché, mentre visse al mondo ch’ognun preme, | prima che sazio, del ben far fu lasso»; Berni, Rime, ed. Romei, L, 36-41: «Come di grossa nave, | per lo scoglio schivar, torce il timone, | con tutto il corpo appoggiato, un padrone, | così quel gran teschione | piegar, tirar bisogna ad ogni sasso, | chi d’aver gambe e collo ha qualche spasso». salute: «Luogo dove si godono sicurezza,

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tranquillità, prosperità» (GDLI, s.v. 4). 23. O invidia, nimica di virtute!: citazione di RVF, CLXXII, 1.

[III = S1]

Al medesimo

Perch’io sia, Stradin mio, da voi lontano,