1.4 Questioni teoriche
1.4.2 Don‟t Fight the Fed model
Dopo questa prima parte dedicata alle critiche del Fed model ed al perché della sua regolarità, passiamo adesso a considerare la letteratura in difesa del modello; in particolare, come accennato precedentemente abbiamo deciso di concentrarci sugli articoli di Thomas (2005) e Thomas e Zhang (2007, 2008), i quali ci permettono di offrire un punto di vista, se non opposto, quantomeno alternativo alla discussione circa le problematiche inerenti il Fed model.
In prima istanza Thomas (2005) definisce il Fed model un modello “ex-ante”, nel senso che si riferisce alle sole aspettative – esso infatti si basa sui forward
earning yield, ossia le stime di consenso degli utili operativi previsti nei prossimi
12 mesi – ed è quindi agnostico a come le variazioni dell‟inflazione attesa impattano sui prezzi azionari. In altre parole, se l‟obiezione è che le azioni costituiscono uno strumento efficace contro l‟inflazione, il che implica un P/E
ratio (e di conseguenza il suo inverso, l‟earning yield) relativamente costante,
Thomas per contro, afferma che questo non è sufficiente per rifiutare (o accettare) il modello, il quale non impone condizioni restrittive sui movimenti dei prezzi al variare dell‟inflazione – bensì, tiene conto anche di variazioni degli
utili attesi al mutare delle aspettative inflazionistiche-. In sostanza, Thomas vuole spiegare che se è ragionevole aspettarsi prezzi azionari immuni ad aumenti (riduzioni) del tasso di inflazione, ciò non è altrettanto vero per gli expected
earnings yields. Tale concetto viene ripreso nel successivo articolo di Thomas
(2007), nel quale l‟autore afferma che gli earnings yields18, dovrebbero essere
maggiori in presenza di alta inflazione per effetto di holding gains computati nel calcolo degli utili operativi19. L‟espressione holding gains (losses) sta ad indicare gli aumenti (riduzioni) nel costo di sostituzione degli assets durante un dato periodo, quindi essi maturano in favore dei proprietari di attività e passività semplicemente per il fatto che tali attività e passività sono detenute nel corso del tempo, senza alcuna loro trasformazione. Ad esempio, il calcolo del costo delle merci vendute viene effettuato utilizzando il costo storico adottando criteri di valutazione del magazzino o il metodo FIFO (first in, first out) o il LIFO (last in,
first out). In un contesto inflattivo, la differenza fra il costo storico e quello di
vendita aumenta, generando una sorta di profitto da inflazione. Un tasso di inflazione positivo determinerà quindi una rivalutazione degli assets a beneficio degli utili portati a bilancio, e quindi a più alti earning yield. Unica eccezione, secondo Thomas, è rappresentata dalla categoria land che non viene rivalutata su base costante, tuttavia la maggior parte di questi beni non sono stati comprati dalle imprese ma risultano essere in affitto, quindi a livello di mercato l‟effetto diventa trascurabile.
In sintesi, in contrapposizione a quanto affermato precedentemente da Asness (2003), ossia E/P ratio immuni a variazioni del tasso di inflazione, i risultati di
18
Thomas (2007) definisce earning yields di assets reali come il rapporto tra l‟utile nominale del periodo successivo e il prezzo corrente.
19 Le ipotesi alla base dell‟analisi di Thomas (2006) sono: due scenari con livelli di inflazione pari
rispettivamente a 0% e 2%; due politiche di distribuzione dei dividendi, rispettivamente 50% e 100% degli utili da bilancio; i cash flows si manifestano alla fine di ogni periodo e tutti gli assets sono di proprietà delle aziende, finanziati al 100% con azioni. Tutti gli assets generano cash flows privi di rischio corrispondenti ad un tasso reale del 3%, uguale al tasso risk free reale (ossia tutti gli assets hanno un present value pari a zero); il tasso di rendimento nominale generato da tutti gli assets è di 3% e 5.06% rispettivamnte con inflazione del 0% e 2%. Non ci sono tasse. Le classi di assets sono: obbligazioni a tasso fisso, magazzino (per uno e due periodi), impianti (meno gli ammortamenti) e land (ossia la proprietà su beni immobili, che non include fabbricati ed attrezzature – ossia, alla pari di un vero e proprio fattore di produzione).
Thomas (2007) mostrano che essi sono maggiori nel caso di inflazione positiva, fintantoché gli holding gain sono inclusi nel calcolo degli utili operativi.
Nel successivo articolo Thomas e Zhang (2008) si concentrano sugli effetti dell‟inflation illusion, ma al contrario di Asness (2003) e Campbell e Vuolteenaho (2004), considerano la possibilità che gli investitori siano razionali, mettendo in dubbio i risultati dei precedenti articoli e cercando di vagliare la debolezza delle argomentazioni alla base della Modigliani-Cohn hypothesis. Secondo gli autori, la stima di tassi di crescita degli utili costanti da parte degli investitori non costituisce un errore, piuttosto risultano coerenti con l‟ipotesi di un mercato le cui imprese seguono “a full payout policy”. A tal fine, Thomas e Zhang (2008) spiegano che il tasso di crescita rilevante ai fini degli earnings non sia quello ipotizzato da Asness (2003) - ossia quello che può essere sostenuto in perpetuo sulla base dell‟attuale politica dei dividendi -, bensì, il tasso che può essere mantenuto sulla base di una politica di distribuzione con un payout uguale ad uno. L‟idea di Thomas e Zhang (2008) è che gli holding gains riportati ad utili - per effetto di un aumento dell‟inflazione - aumentino la propensione dell‟azienda a remunerare il capitale di rischio, di fatto pagando maggiori dividendi, ma diminuendo le possibilità di reinvestire la ricchezza creata e stabilizzando la crescita attesa. Inoltre, continuano gli autori, tale effetto - , basso e stabile – è ancora più vero per economie mature; dove, il valore attuale delle opportunità di crescita dei progetti di investimento (al netto di riduzioni degli earning di progetti in esercizio), sebbene possa aumentare in determinati periodi o settori, risulta attestarsi su livelli mediamente bassi e costanti.
Infine Thomas e Zhang (2008) indagano la relazione esistente tra stime circa il tasso di crescita degli utili e le aspettative di inflazione, ed il modo in cui ciò si riflette sugli errori di previsione degli analisti. Se quest‟ultimi risultano essere
inflation illusioned, ossia prevedono tassi nominali di crescita degli utili costanti
– anziché tassi reali costanti –, allora gli errori di previsione (il tasso di crescita realizzato meno quello previsto) dovranno essere positivamente correlati
ottimistiche quando l‟inflazione realizzata, quella osservata nel periodo precedente, è alta, e viceversa, ossia saranno più fiduciose, quando si è realizzato un declino generale dei prezzi. In altre parole, se nel corso del tempo si assiste ad una riduzione del tasso di inflazione , allora gli errori di previsione degli analisti (soggetti a inflation illusion) dovrebbero mostrare segni negativi e valori sempre maggiori in valore assoluto. Tuttavia, l‟analisi svolta da Thomas e Zhang (2008), contraddice questa ipotesi; gli autori affermano piuttosto che i tassi reali di crescita sono dipendenti dall‟inflazione, ossia un aumento dell‟inflazione attesa ha un impatto negativo sui flussi di cassa reali e sulla valutazione dei titoli azionari. A tal proposito, nel precedente articolo, Thomas e Zhang (2007) replicano l‟analisi econometrica svolta da Campbell e Vuolteenaho (2004) e verificano come questa risulti sensibile alle variabili impiegate20 ed al data sample oggetto di valutazione; i coefficienti nella specificazione adottata da Thomas e Zhang risultano opposti ai precedenti: in particolare si ha che l‟inflazione risulta negativamente correlata con le aspettative oggettive del tasso reale di crescita degli utili e negativamente con il mispricing, il cui impatto diminuisce consistentemente.
Ricapitolando quanto espresso finora da Thomas e Zhang possiamo affermare che:
gli earning yields si muovono con il tasso l‟inflazione per effetto di
holding gains (losses) computati nel calcolo degli utili operativi (ossia
quelli dichiarati da bilancio);
è razionale prevedere tassi nominali di crescita degli utili che non variano con l‟inflazione, in quanto essa risulta negativamente correlata con il tasso reale di crescita degli earnings.
Affrontiamo infine, allo stesso modo di Asness, la questione del risk premium. Thomas (2005) e Thomas e Zhang (2008) asseriscono che la condizione di
20 In particolare utilizzano i 10-year bond rate in sostituzione dell‟indice PPI (Producer Price Index)
come proxy per le aspettative di inflazione, ed i forward earning yield in sostituzione dei trailing
uguaglianza tra i due yields ( earning e bond), ossia la relazione espressa dal Fed model tra E/P ratio e tassi di rendimento dei titoli di stato a lungo termine –come proxy per il risk free - risulti possibile sotto una specifica condizione. Che espressa in termini del modello di Gordon risulta essere:
( )
ossia l‟uguaglianza tra premio per il rischio azionario e tasso di crescita nominale degli utili. Dato che – ricordando essere definito con payout uguale ad uno – è supposto essere un valore costante e piccolo, allora ne deriva che le stesse condizioni dovranno valere per RP; ossia, esso dovrà risultare da un lato relativamente basso e, dall‟altro, moderatamente stabile. Secondo questo ragionamento allora è vero anche il contrario: entrambi, RP e , potrebbero muoversi su livelli eccezionalmente alti, purché in valore assoluto la differenza eguagli sempre zero. Tuttavia, Thomas e Zhang (2009) ritengono che quest‟ultima ipotesi non sia plausibile; gli autori affermano che non esiste ragione al perché il tesso di crescita degli utili possa variare di pari passo con RP, anche alla luce del fatto che entrambi non sono influenzati dal contesto inflattivo. È ragionevole pensare, concludono gli autori, che la riduzione dello scarto tra rendimento azionario e il tasso di rendimento privo di rischio, ossia il valore del premio per il rischio, sia la principale motivazione alla base dell‟esistenza del Fed model.