Musica, tecnica e metafisica Alcune questioni heideggeriane ‘dentro’ la filosofia del limite di Eugenio Trías
2) I due cammini della tecnica: la riflessione su Heidegger come via per la rinascita del pensiero metafisico
Il capitolo di Lógica del límite che si è scelto di assumere come oggetto di studio prende avvio con la costatazione dell’atteggiamento rinunciatario della filosofia nei confronti della metafisica a partire dallo sconvolgente annuncio nietzschiano della morte di Dio. Dinanzi a tale smacco, i filosofi si sono orientati su due vie di studio principali: la prima è quella che si rivolge al pensiero pre-metafisico, con l’intento di scoprire itinerari inediti, non ancora percorsi e non contaminati dalla speculazione metafisica; l’altra, gli aspetti psicologici e acustici del mio processo creativo» (Ivi, Part.2, p. 1). Il pensiero filosofico di Heidegger è dunque ‘trasposto’ in forma musicale, come può ben esemplificare il quarto movimento, Dread (‘l’angoscia’ del Dasein) concetto sul quale il filosofo tedesco si è soffermato nel §40 di Essere e tempo. Il compositore ha espresso musicalmente tale idea filosofica che esprime l’inquietudine dell’esser-ci dinanzi alle possibilità del mondo, a quel ‘nulla e in nessun luogo’ che è la massima indeterminatezza, ed è, essenzialmente, angoscia derivante dalla presa di coscienza della nostra finitudine, del nostro essere-per-la- morte. Attraverso la ripetizione della stessa nota, la cui durata, però, cambia, incalzando verso il corpo centrale della frase, per ritornare, poi, a rallentare dopo aver raggiunto tale momento di climax, Tung-Lun Lin ha voluto mettere in musica la reazione di un corpo che trema dinanzi ad una esperienza angosciante e terrorizzante. Si può vedere, a tal proposito, l’esempio riportato dallo stesso compositore, nel quale le battute suonate dal fagotto mostrano quanto appena descritto:
155 invece, s’interroga sulla materia stessa del pensiero, indagandone gli aspetti linguistici e la relazione con la parola. Prima di procedere, è necessario però, per Trías, rispondere alla domanda: cosa è la metafisica?
L’interrogativo trova risposta nella radice etimologica del termine stesso. La metafisica, prescindendo dalle distinte condizioni storiche e accidentali che hanno, di volta in volta, contribuito alla particolare determinazione di tale termine, è «pensiero che si situa fuori, che si produce fuori»13, oltre il mondo fisico, ετά τα φυ ά, oltre la φύ ς,
al di là dello spazio tangibile. Da tale zona ‘esterna’ a ciò che nasce o sorge, essa persegue lo scopo di fondare e creare il mondo, donandogli forma e conferendogli una finalità verso la quale esso possa orientarsi. In questo senso la metafisica si configura, per Trías, come pensiero previsore, nella cui esteriorità rispetto alla natura trova istituzione il vero
lógos, inteso come pensiero che dà ragione a ciò che, per sua natura, è privo di ragione.
La definizione della metafisica richiama, come nota il filosofo spagnolo, l’accezione del termine greco τέχνη. Questo, infatti, indica un’azione orientata verso un τέ ος prevedibile, in virtù del quale i vari momenti che portano alla realizzazione compiuta della finalità auspicata, trovano la loro ragion d’essere in quanto mezzi predisposti al raggiungimento dell’obiettivo preposto. Il pensiero si configura, quindi, come pensiero ‘causale’, avente come scopo la realizzazione di un prodotto concreto e utile, oppure il miglioramento, il perseguimento o la modifica di un qualsivoglia processo naturale14.
Qual è, dunque, la relazione tra la tecnica e la metafisica? Secondo Trías, la prima non è che il ‘braccio esecutivo’ della seconda, l’azione produttiva che quest’ultima, in quanto πα εία e πο τεία del pensiero, rende possibile addestrandolo e orientandolo fino a trasformare tecnicamente e razionalmente il mondo. Ma il fatto che oggigiorno il pensiero postmoderno si emancipi dalla metafisica, dato il loro rapporto, come incide sulla tecnica? Dopo la morte di Dio in quanto soggetto metafisico garante dell’ordine e delle strutture del reale, spetta alla volontà del superuomo dirigere e governare un mondo in cui il sistema metafisico si è rivelato superfluo. È lo Übermensch che produce, controlla e regola nel regime dell’immanenza in quanto «soggetto della tecnica emancipata»15, che
crea e ricrea il kósmos secondo le sue volontà e i suoi bisogni, trasformandolo nel prodotto di questi. Come cambia, di conseguenza, la relazione con la tecnica secondo Trías? Liberarsi della metafisica significherebbe, forse, emanciparsi anche dalla tecnica e dalla sua pretesa di dominio assoluto? È possibile ricercare altre vie che conducano il pensiero su un percorso diverso da quello tracciato dal predominio del binomio metafisica-tecnica?
Qui si inserisce il dialogo con Heidegger. La risposta alla domanda posta pare essere negativa, afferma il filosofo spagnolo, se si prende come riferimento ciò che Heidegger intende per Gestell in La questione della tecnica16, l’im-posizione che riunisce tutti i modi
che pro-vocano l’uomo a ‘disvelare’ il reale, ovvero a portare a presenza il non-presente, a rendere manifesto il celato. Il reale, nella modalità dell’impiego – divenuto, a partire dalla modernità, onnicomprensivo – si rivela come ‘fondo’, concetto (sul quale a breve ritorneremo) che indica la «svelatezza nella quale si mostra l’ente come ciò che è impiegato»17, come riserva, risorsa, deposito di energie utilizzabili e accumulabili. Nel
Gestell, che corrisponde a ciò che il filosofo tedesco intende per essenza della tecnica,
Trías riconosce il momento apicale del predominio del binomio metafisica-tecnica, che comporta la concezione di tutto ciò che è nel mondo proprio e solo a partire dall’essenza della tecnica stessa, che, così, dà ragione in modo totalizzante a tutto ciò che esiste e
13 Id., Lógica del límite, op. cit., p. 217. 14 Cfr. Ivi, p. 218.
15 Ivi, p. 220.
16 M. Heidegger, La questione della tecnica in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia Editore,
Milano, 1991.
156 determina tutto ciò che nasce e sorge a partire dall’esteriorità di un pensiero e di un dire di tipo tecnico18.
È proprio nella filosofia heideggeriana, però, che Trías rinviene anche un altro dato fondamentale, dal quale il pensatore spagnolo parte non solo per la sua analisi descrittiva, ma anche per affermare la sua proposta di pensiero Si tratta, in particolare, del modo in cui Heidegger presenta il concetto di τέχνη nella già citata conferenza sulla tecnica. La parola τέχνη, difatti, possiede due distinte accezioni, ciascuna delle quali apre a un particolare modo del poiéin e a uno specifico cammino di pensiero.
Il primo significato, sicuramente il più ‘immediato’ tra i due, è quello di ‘tecnica’, che fa capo al paradigma galileiano-newtoniano o leibniziano e che raggiunge nel concetto heideggeriano di Gestell il momento di massima espressione. Il filosofo spagnolo sottolinea come, in tal modo, il mondo viene concepito come Bestand, come fondo sempre accessibile per l’uomo, il quale, signore assoluto, si appropria di questa riserva disponibile a suo piacimento, gestibile sulla base esclusiva dei suoi bisogni e della sua volontà. Scrive Heidegger a tal proposito:
(…) l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che è così messo allo scoperto viene trasformato, il trasformato immagazzinato, e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. (…) Ciò che così ha luogo è dovunque richiesto di restare a posto nel suo posto, e in modo siffatto da poter essere esso stesso impiegato per un ulteriore impiego. Ciò che è così impiegato ha una sua posizione. La indicheremo con il termine Bestand, ‘fondo’19.
Tuttavia, come Trías ricorda con la dovuta attenzione, il filosofo tedesco rammenta anche che nell’antica Grecia il termine τέχνη indicava non solo il ‘fare’ artigianale e la relativa abilità, ma anche un poiéin di tipo artistico e poetico. Se, dunque, il primo cammino, quello della ‘tecnica’, apre la strada ad un tipo di ragione strumentale e sistematica, l’altro, percorso dal secondo Heidegger attraverso le riflessioni sulla parola poetica dell’essere, conduce ad un cammino estetico-ontologico che trova nell’arte la sua essenza.
Quest’ultima via verrebbe comunemente vista, secondo il pensatore spagnolo, come l’alternativa al predominio del binomio metafisica-tecnica, coincidente con l’abbandono del pensiero metafisico e con il rifiuto del dominio assoluto della tecnica. Ammettendo indiscutibilmente che il cammino delle arti faccia riferimento ad un poiéin differente da quello della tecnica, e ricordando «l’unità di destino»20 che vige tra tecnica e metafisica,
ci possiamo chiedere, però, assieme a Trías, se sia corretto affermare che la via artistica e poetica conduca all’allontanamento della metafisica, costituendo un percorso differente.
L’incipit della seconda parte del capitolo di Lógica del límite che si è scelto di seguire, vede il filosofo spagnolo porre, a tal proposito, alcuni interrogativi:
È, dunque, possibile aprire un’orientazione al pensare che non sia già fatalmente predisposta e disegnata da questo incamminarsi tecnico del logos? È possibile aprire una breccia filosofica in un’altra direzione? O non vi è possibilità alcuna? Questi sono i drammatici interrogativi che determinano la nostra situazione, la situazione storica del nostro pensare e del nostro filosofare21.
Ecco, quindi, l’esigenza di pensiero che muove la proposta filosofica di Trías, il cui progetto egli stesso reputa necessario, alla luce della tendenza generale della deriva decostruttivista e debilitante che negli ultimi tempi ha coinvolto il pensiero metafisico,
18 E. Trías, Lógica del límite, op. cit., p. 219.
19 M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 12. 20 E. Trías, Lógica del límite, op. cit., p. 219.
157 circondato da disinteresse e scoraggiamento22. In questo senso la filosofia di Trías
costituisce la pars costruens del pensiero occidentale, la denuncia contro il «nihilismo imperfetto»23.
Dinanzi al terribile e dissacrante annuncio della morte di Dio, alla fine delle ‘grandi narrazioni’, alla scoperta di un pensiero scopertosi ‘debole’ per fronteggiare le incertezze di un mondo sconvolto dal predominio delle scienze, dai cambiamenti della società di consumo e dei mezzi di comunicazione, all’instaurarsi di nuovi equilibri (o alla mancanza totale di un centro) che sconvolgono i precedenti, alla filosofia scopertasi ‘impotente’, Trías tenta di dare forza al pensiero metafisico. E non per un atto nostalgico nei confronti di un passato ‘sistematico’, ma perché, pur nella piena coscienza della precarietà della costruzione del suo pensiero «esposto ai venti della storia»24, il pensatore spagnolo vuole
ridare dignità, rigore e profondità alla filosofia perché, come scrisse ne La razón
fronteriza: «La vera filosofia è metafisica o, semplicemente, non è propriamente
filosofia»25.
3) ‘Preludio’ alla filosofia del limite
Come intendere, nello specifico della prospettiva di Trías, la metafisica? Utilizziamo nuovamente le sue parole, dal linguaggio chiaro e puntuale, che fanno nuovamente riferimento alla filosofia heideggeriana e al cammino da essa aperto verso il mondo dell’arte, testimoniato, come si è visto, dalla seconda accezione del termine greco τέχνη.
Heidegger (…) dà via libera e ampliamento a quell’ombra che è l’ombra della metafisica e che, di conseguenza, è consustanziale ad essa. Il pensiero heideggeriano, in questo senso, non fa che determinare l’altro lato dello stesso, la faccia nascosta e sottratta alla vista del Bestand (fondo) e della Gestell (scheletro, sistema), cioè l’ombra di un pensare metafisico-tecnico che, orientandosi nelle zone in ombra, finisce con l’esaurire l’ambito stesso del pensare metafisico26.
Analizziamo, adesso, questa citazione, evidenziandone due punti fondamentali. Il primo fa riferimento alle ‘zone d’ombra’ della metafisica, ad essa appartenenti. È ciò che Hölderlin ha chiamato ‘aorgico’ in contrapposizione all’organico, intendendo con questo termine ‘l’incomprensibile’, il ‘non percepibile’, ‘l’illimitato’27, che Trías associa alle
fiamme splendenti e indomabili del dionisiaco nietzschiano. Ebbene, secondo il filosofo spagnolo, l’artista crea immerso nella polarità tra aorgico e organico, apollineo e dionisiaco, ragione e irragionevolezza, tecnica e follia. Il suo poiéin non ha origine solo dal freddo calcolo della razionalità, ma è anche fuoco che divampa in maniera incontrollabile, che sorge dalle viscere di una creatività indomabile, dall’ispirazione sconvolgente il suo intero essere, che si fa portavoce di un concetto più profondo. Difatti, i secondi termini di questi abbinamenti (l’aorgico, il dionisiaco, l’irragionevolezza, la follia) rappresentano il ‘lato dimenticato’ dalla metafisica, non qualcosa ad essa esterno o addirittura antitetico, ma consustanziale ad essa. Ricordiamo la definizione del concetto di metafisica: il dionisiaco, l’aorgico e ciò che tali concetti rappresentano, sono istanze pensate a livello metalogico e metalinguistico, ετά τα φυ ά, fuori dalla natura, dal mondo, dal linguaggio e dotate di un proprio lógos. Ecco, allora, la prima conclusione di Trías: essi non rappresentano un ‘cammino alternativo’ a quello metafisico, ma ‘le sue
22 Cfr. Id., El hilo de la verdad, op. cit., p. 93. 23 Ivi, p. 94.
24 Id., La razón fronteriza, Ediciones Destino, Barcelona, 1999, p. 185 nota 50. 25 Ivi, p. 247.
26 Id., Lógica del límite, op. cit., p. 223
158 zone d’ombra’, quel lato oscuro e indomabile al quale è giunto il momento di conferire dignità e valore.
Il secondo punto prende, invece, in considerazione l’ultima parte della citazione secondo la quale anche l’ambito artistico, considerato come ‘completamento’ di quello tecnico, si rivelerebbe insufficiente nel momento di scongiurare la rinuncia alla metafisica. Questa parrebbe costretta, come Trías sottolinea, ad oscillare tra due alternative inconciliabili, espresse dai concetti antitetici sopra esposti, sintetizzabili con l’opposizione tra il razionale e l’irrazionale, il tecnico-scientifico e l’estetico-geniale. La ‘colpa’ della filosofia non sta, per Trías, nel privilegiare uno dei due poli, quanto piuttosto nella dimenticanza di un concetto fondamentale, perno dal quale egli partirà per elaborare la sua proposta di pensiero, centro di gravità che consentirà non solo di evitare ‘l’abbandono’ della metafisica, ma di tornare a farla splendere come faro del pensiero: la nozione di limite. Il recupero di questo concetto lasciato, come il pensatore di Barcellona riconosce28, al margine delle speculazioni filosofiche – e che egli, dalla periferia del
pensiero, condurrà a punto archimedeo della sua filosofia – consente di uscire da quella che egli denomina un’autentica ‘schizofrenia’ tra un lógos tecnico-scientifico-razionale ed uno artistico-irrazionale, pervenendo ad un lógos che sia, piuttosto, mediatore tra i due.
Per fornire, in tal sede, un ‘Preludio’ a questo pensiero di Trías, scegliamo di illustrare la ‘teoria dei tre cerchi’, che consente di comprenderne i punti salienti (oltre i quali vi sono, ovviamente, una complessità e una profondità che coinvolgono tutti i campi del sapere e, portando alla ridefinizione dei concetti filosofici tradizionali, richiederebbero pertanto ulteriori approfondimenti).
La nozione di ‘cerchio’ va intesa sia nel suo significato topologico (‘cerchiare’ come tracciare una linea di separazione tra dentro e fuori, al di qua e al di là), che in quello militare-geopolitico (‘cerchiare’ come ‘assediare’ o ‘fare pressione’). Il pensatore di Barcellona individua tre cerchi, che, nella loro unione, costituiscono la realtà. Uno è il ‘cerchio dell’apparire’, luogo dell’esistente, della storicità e della ragione, di ciò che accade (a livello fisico, linguistico, razionale o passionale) e di cui si può fare esperienza. In esso si trova ciò che è conoscibile e analizzabile scientificamente29, e di cui il pensiero tecnico-
scientifico tenta di appropriarsi30. Questo primo cerchio si trova sempre rimesso al
‘cerchio limitrofe’ (secondo cerchio), in cui l’uomo si costituisce come ‘soggetto di frontiera’, abitando in tale regione di mediazione tra il primo e il terzo cerchio (dalla cui intersezione il secondo ha origine): il terzo è denominato ‘ermetico’. È, quest’ultimo, il luogo chiuso all’esperienza diretta (al quale l’uomo può avere un parziale accesso solo grazie alla mediazione simbolica) e che costituisce irrimediabilmente il campo del mistero, del non esperibile, l’orizzonte ultimo di senso che si sottrae a qualsiasi dimostrazione scientifica e alla possibilità di essere espresso con il linguaggio verbale.
Seguendo la riflessione compiuta da Alberto Sucasas nel testo La música pensada, possiamo dire che, con la ‘teoria dei tre cerchi’ Trías rifiuta la dualità ontologica che tradizionalmente ha contrassegnato la metafisica classica, nella quale il mundus sensibilis viene contrapposto al mundus intelligibilis. La duplicità, in questo caso, non riguarda due mondi contrapposti (i cerchi, infatti, fanno tutti parte dello stesso e unico mondo) ma i cerchi stessi, e viene completata con l’aggiunta del cerchio limitrofe31.
Tornando al discorso della tecnica, quindi, alla stessa maniera, non si tratta di scegliere tra le opzioni antitetiche espresse dai due cammini aperti dalla riflessione sulla τέχνη così come descritti da Heidegger, ovvero tra il razionale e l’irrazionale, il tecnico-
28 Cfr. E. Trías, El hilo de la verdad, op. cit., p. 94.
29 Cfr. A. Sucasas, La música pensada, Biblioteca Nueva, Madrid, 2013, pp. 23-24. 30 Cfr. E. Trías, Lógica del límite, op. cit., p. 224.
159 scientifico e l’artistico, quanto piuttosto considerare un cammino non ancora percorso, ‘tra’ essi, che ha come fondamento la nozione di limite.
Il limite, dunque, esprime la correlazione tra termini tra loro incommensurabili, tra la ragione e le sue ombre, la certezza e l’incognito, la razionalità e la passione, il buio e la luce. Per chiarire il concetto attraverso l’efficacia della metafora, Trías fa riferimento al
limes, lo spazio nel quale l’esercito romano si accampava, la zona di confine tra l’impero
civilizzato e conosciuto e il mondo ignoto, selvaggio e ostile dei barbari, che i soldati non solo si impegnavano a difendere con le armi, ma coltivavano e abitavano32. Dunque,
occorre pensare al limite non in forma negativa, come limite ‘di’ qualcosa, in quanto sinonimo di ostacolo e impedimento, ma rifarsi, piuttosto, al concetto limes, interpretandolo, cioè, in termini ontologici e topologici: l’uomo, infatti, è un essere che vive il limite e vive nel limite, abita in esso in quanto realtà ambigua dall’essenza ‘gianica’, perché mediatrice tra la ragione e ciò che la eccede. Come si è accennato, l’accesso a tale luogo dell’incognito e dell’indicibile è consentito per via analogica, indiretta e metaforica attraverso il simbolo, la cui essenza consiste nell’essere ‘presenza’ che rimanda a qualcosa di ‘altro’ da sé, consentendo l’esposizione in forma mediata di idee o sentimenti inesprimibili.
L’importanza del simbolo e del pensiero simbolico nella filosofia di Trías consente di ritornare sull’argomento musicale. L’arte dei suoni, assieme all’architettura (le due ‘arti del numero’, come le chiama Trías33), è da lui denominata ‘arte limitrofe’. Le relazioni
matematiche sulle quali essa si fonda, infatti, le consentono di risvegliare, attraverso le forme oggettive delle convenzioni formali e numeriche, quelle soggettive e impalpabili dei sentimenti, di modo che essa non è solo ‘pura forma’ né tantomeno semplice espressione di sentimenti, quanto piuttosto l’unione tra le due34. Il potere simbolico delle relazioni
matematiche, capace di risvegliare emozioni e passioni, consente, allora, di esperire l’indicibile, rimettendoci a ciò che eccede i limiti della ragione, spingendoci oltre i confini che essa ha. Dunque, è proprio l’essenza simbolica delle relazioni matematiche sulle quali si fonda l’arte dei suoni a costituire la discriminante che consente di individuare la peculiarità della musica in quanto arte di frontiera. La musica comunica coi suoi ascoltatori proprio attraverso il simbolo, senza svelare il mistero che si cela oltre esso, ma esponendolo per mezzo delle relazioni matematiche che costituiscono le fondamenta dell’edificio sonoro e consentono la comunicabilità del messaggio dell’arte, un messaggio non di tipo linguistico, ma simbolico e metaforico. L’arte dei suoni, allora, è arte di frontiera perché vive nel limite e, attraverso l’oggettività delle regole numeriche e matematiche, rimanda all’indicibile, all’inesprimibile e all’incomunicabile (cioè a quello che precedentemente si è chiamato ‘cerchio ermetico’).
Proviamo, quindi, a fare un passo in avanti e ad unire il discorso della tecnica a quello della musica, attraverso la guida del primo dei due capolavori di Trías interamente dedicato all’argomento musicale: Il canto delle sirene. Chissà se la bellezza di questa opera monumentale risiede nel pathos che traspare chiaramente dalle righe scritte dal filosofo (in quelle che lui stesso, al finale dell’opera, ha confessato essere, in fondo, delle ‘lettere d’amore’ per l’arte dei suoni)! Un’arte raccontata attraverso ventitré saggi che, dedicati ognuno ad un compositore, raccontano circa cinque secoli di storia della musica. Scrive Trías nel Prologo a Il canto delle sirene: «Per ogni singolo compositore, il mio intento è stato quello di coglierne la proposta musicale. La singola voce. La stessa che, da quando ho avuto l’età per riconoscerla, ha saputo suscitare in me una commozione che si è di volta in volta rinnovata». Il risultato, dunque, è un intreccio indissolubile e