• Non ci sono risultati.

Rainer Maria Rilke: la distruzione del Canto

Nel documento Heidegger e i linguaggi. Eredità e dialoghi (pagine 187-190)

La poetica heideggeriana della relazionalità

1) Rainer Maria Rilke: la distruzione del Canto

Il saggio di Heidegger su Rilke del 1946, Perché i poeti?, scritto in occasione del ventesimo anniversario della morte del poeta, colloca Rilke tra i poeti che hanno scritto in un’era di compimento della metafisica. La poetica di Rilke «è all’ombra di una metafisica nietzscheana addolcita»2, scrive Heidegger, e questo comporta che la sua linea di condotta

nella lettura di Rilke sarà simile alle interpretazioni del ‘suo’ Nietzsche, perseguendo un duplice obiettivo: da un lato, Heidegger mostra come Rilke aderisca ad un certo numero di temi metafisici tradizionali – comprendere l’essere come volontà (nel suo pensare all’esistenza come qualcosa di gettato nel rischio), come intrinsecamente connesso alla rappresentazione conscia (sia razionale che legata al cuore), e non riuscire a pensare la ‘radura’ della Presenza. Dall’altro lato, Heidegger mostrerà come questa posizione metafisica alla ‘fine’ della metafisica risulti essere più di una semplice chiusura, ma un’apertura verso un pensiero dell’esistenza al di là del dualismo presenza/assenza della stessa metafisica. Quest’altra modalità dell’esistenza è la relazionalità, qualcosa che Rilke tende ad esprimere malgrado sé stesso.

L’interpretazione di Rilke è relativa all’oggettivazione delle cose del mondo. Le cose esistono in relazione con le altre cose; questa rete compone il mondo (o ciò a cui Rilke si riferisce con il termine Aperto). La coscienza umana, aiutata dalla tecnologia, oggettiva queste cose in oggetti che si ergono in opposizione al soggetto. L’oggettivo si espande a ricoprire il mondo intero (l’introduzione di Heidegger si sofferma sulla concezione di Hölderlin circa la povertà di questo mondo, accostandola alla mezzanotte del mondo3). La

poesia di Rilke, ad ogni modo, annuncia un capovolgimento di questa esistenza oggettivata attraverso il linguaggio poetico o, possiamo dire, il Canto. Mentre Heidegger prende le distanze dalla postura metafisica di Rilke, tuttavia tacitamente approva il suo programma e utilizza la lettura di Rilke come un forum per pensare attraverso questo tipo di trasformazione rilkiana.

Lo sviluppo heideggeriano della poetica di Rilke inizia dalla concezione rilkiana dell’esistenza come qualcosa che è stato arrischiato (das Wagnis) dalla Natura «es wagt

uns» dice Rilke4. L’esistere come arrischiati è esistere in un modo particolare. Gli

arrischiati non sono protetti da o in possesso di un altro; sono invece esposti al pericolo. Ma ciò che è messo a rischio è come se non fosse solo e semplicemente abbandonato a questo pericolo. Il giocatore d’azzardo che fa una scommessa non ha già perso il denaro, ma pensa ci sia qualcosa da vincere. Ciò che esiste cerca sé stesso esattamente in questa terra di mezzo del gioco e del rischio.

Trovarsi nel mezzo in questo modo è una condizione ontologica, che implica una particolare relazione con l’essere. Per aiutarci a riconoscere la natura di questa relazione, Heidegger schiera una costellazione di termini connessi etimologicamente. L’arrischiato (das Gewagte) è in bilico (die Wage, nel tedesco medievale sta a significare qualcosa come ‘pericolo’). Ciò che è sospeso nel peso (wiegt) dell’equilibrio sulla bilancia. Ciò che va pesato in questo modo è di un certo peso (das Gewicht), non solo fisicamente, ma anche nel senso di un peso della questione o di un argomento decisivo, una materia di serio riguardo, importanza (Wichtigkeit) o difficoltà (Schwierigkeit)5. Heidegger segue Rilke nel

2 M. Heidegger, Perché i poeti? in Sentieri interrotti, tr. it, di P. Chiodi, Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 264

(GA 5, p. 286).

3 Ivi, pp. 247 sgg. (GA 5, pp. 270 sgg.).

4 Ivi, pp. 255 sgg. (GA 5, pp. 277 sgg.). La mia idea è di cercare alcuni temi ricorrenti nelle interpretazionie

heideggeriane del periodo post-bellico circa la poesia; per cui citerò i poemi come appaiono nello stesso lavoro di Heidegger.

5 Heidegger connette il peso di una materia con ciò che inclina le bilance e le mette in movimento

(Bewegung), facendo derivare il termine per l’equilibrio (die Wage) da wägen, wegen, creare una via (Weg). Questa idea sarà presa in considerazione nel lavoro di Trakl, in seguito.

185 pensare questa gravità come ad una relazione di connessione tra le cose: «essa è fondamento in quanto ‘tiene insieme’ l’una cosa all’altra, tutto raccogliendo nel gioco del rischio»6. Ciò che esiste è tenuto insieme tramite la forza attrattiva della gravità, una forza

che fornisce un medium tra le cose, permettendo la loro co-presenza e la loro mutua connessione (motivo per cui viene descritto come il ‘tenere insieme’). L’attrazione della gravità (der Zug) trasporta tutto all’interno di una relazione (der Bezug) ‘con’ gli altri e Heidegger insiste nel dire che la ‘relazione’ non deve essere compresa come «l’autoriferimento rappresentativo dell’io umano all’oggetto»7. Non ci sono né auto-

riferimenti soggettivi, né oggetti, quando si pensa dalla prospettiva della gravità, del rischio e della relazione.

É nelle loro concezioni del campo relazionale che Heidegger e Rilke differiscono. Rilke rinomina questo campo di relazione ‘l’Aperto’, ovvero il luogo di un’esistenza che vuole essere libera da tutte le barriere e le restrizioni, che vuole tendere oltre queste, là dove le cose possono esistere infinitamente, il che significa per Rilke contemporaneamente esistere in piena presenza ed in perfetta appartenenza al mondo (la figura che Rilke utilizza per questa appartenenza pura è quella dell’Angelo). L’interpretazione di Heidegger sembra raggiungere l’apice della violenza interpretativa quando scrive: «ciò che Rilke intende per Aperto è proprio il chiuso»8, e questo sta a significare più di un semplice gioco

di parole. Ciò a cui Rilke si riferisce con ‘Aperto’ è proprio ciò a cui Heidegger pensa in termini di chiuso o celato, dal momento che per Heidegger ciò che giace oltre il limite della rivelazione e dell’apparire è il celato. L’Aperto di Rilke corrisponde al celato di Heidegger, e cioè ciò che non possiamo mai raggiungere in quanto esseri finiti. Heidegger è vincolato al pensiero che l’esistenza sia davvero finita, limitata e all’idea che ogni incontro o relazione richieda qualcosa come un limite, dove l’uno può toccare l’altro senza però perdere l’integrità del sè. L’identità è esattamente questa relazione con l’alterità, cosa che non può essere ammessa nella visione di Rilke della pura appartenenza.

Allo stesso modo, Heidegger e Rilke si differenziano nelle loro visioni dell’oggettivazione del mondo e della tecnologia. Rilke guarderebbe alla concezione heideggeriana di un nascondimento/celamento essenziale come ad un limite per l’umano. L’umano viene allontanato dall’Aperto proprio dalla rappresentazione umana, che oggettiva il mondo e crea un respingente impermeabile tra l’umano e l’Aperto, attraverso anche l’aiuto e il diffondersi esacerbato dall’odierna tecnologia.

Heidegger sottolinea come «l’autoimposizione dell’oggettivazione tecnica sia la costante negazione della morte, attraverso cui la morte stessa diventa qualcosa di negativo»9.

Questo dualismo tra positivo e negativo, presente e assente, è in concomitanza col regno dell’oggettività, dove l’oggetto è interamente ciò che è in sé stesso e quindi al contempo pienamente presente nel suo posto e assente da ogni altro. Heidegger, invece, guarda alla morte né come positiva, né come negativa, ma come a qualcosa ‘tra’ questi estremi. La morte è qualcosa che noi non possediamo pienamente e di cui però non abbiamo completa mancanza; viviamo nel mondo della nostra morte. Siamo in relazione con la morte (è l’intuizione di Essere e tempo), mai mancanti o in pieno possesso di essa. La metafisica dualista dell’oggettivazione è l’obiettivo della poesia di Rilke, il luogo dove egli tenta di effettuare una trasformazione. Ma egli non rinnega il dualismo presenza/assenza in favore di un pensiero della relazionalità, ad esempio l’esistenza di tutto ciò che risiede nella terra di mezzo tra presenza e assenza. Rilke, infatti, cerca di ‘affermare’ l’‘intera relazione’ guardando alla morte come «la faccia della vita a noi opposta e per noi non illuminata»10 e

proponendo di leggere la parola ‘morte’ senza senso di negazione. Là dove la tecnologia

6 Ivi, p. 260 (GA 5, p 282) 7 Ivi, p. 260 (GA 5, p. 283). 8 Ivi, p. 262 (GA 5, p. 284). 9 Ivi, p. 279 (GA 5, p. 303). 10 Citato in ibid. (GA 5, p. 302).

186 vuole fare della morte qualcosa di negativo da cui fuggire, Rilke ne vuole fare qualcosa di positivo da affermare. Nulla, in ogni caso, che sia al di là tanto dalla presenza quanto dall’assenza, tanto dall’affermazione quanto dalla negazione. Per Rilke, l’umano è capace di mettere in atto una trasformazione, nel mondo tecnologico, attraverso il linguaggio poetico. Secondo la lettura heideggeriana di Rilke, gli uomini sono gli unici che non solo sono messi a rischio nell’esistenza, ma sono anche in grado di volere questo rischio e di essere più arrischianti della stessa natura, cioè dell’essere stesso. Sono molto più a rischio ‘ per un soffio’11. Questo stesso soffio è quello del discorso, del linguaggio. L’essere eccede sé

stesso, esso «si oltrepassa semplicemente (il puro e semplice trascendens)»12. L’essere

oltrepassa sé stesso nel linguaggio: «l’essere, in quanto è se stesso, misura la propria regione che è ritagliata (témnein, tempus) mediante il suo attuarsi nella parola. Il linguaggio è il recinto (templum), cioè la casa dell’essere»13. Come spiega Heidegger, «se

andiamo alla fontana, se attraversiamo un bosco, attraversiamo già sempre la parola ‘fontana’, la parola ‘bosco’, anche se non pronunciamo queste parole non ci riferiamo a nulla di linguistico»14. Il linguaggio è il medium tramite il quale ci muoviamo e le cose ci

appaiono.

Se il linguaggio è visto come un oltrepassamento dell’essere o come medium oltre esso, allora i più arrischianti sono quelli che ‘dicono’ e parlano di più. Dicono di più parlando in un modo differente rispetto al linguaggio del commercio quotidiano. Il linguaggio quotidiano usa il linguaggio come un mezzo, uno strumento per trasmettere informazioni, subordinandolo al suo scopo. «Quando ci rapportiamo all’ente, rappresentandocelo e producendolo, ci rapportiamo ad esso anche dicendo; ma il dire funge qui semplicemente da via e da mezzo»15. Al posto di questo, Heidegger propone un linguaggio che non sia più

determinato da finalità esterne e che «persegue ciò che è da dirsi esclusivamente per dirlo»16. Questo è quello che in Rilke corrisponde al ruolo del canto. Il canto non

rappresenta qualcosa d’altro; è la cosa stessa. Il canto non è un modo per controllare il mondo, di manipolarlo attraverso strumenti (il linguaggio). Invece, il canto è un modo di ricevere il mondo (cosa che Hedegger equipara alla creazione, schöpfen) e che fa sì che le cose appaiano. Per i poeti e i cantori, «il loro cantare si sottrae a ogni imposizione deliberate di sé»17. Heidegger in questo va ben oltre, parlando di una ‘infrangersi’ delle

parole nel canto, in un cantare «la cui risonanza non sia l’eco di qualcosa di finalmente raggiunto, ma di qualcosa che si sia già infranto nel suono stesso, affinché sia presente soltanto il cantato»18. Rifiutando il controllo dell’auto-affermazione (cedendo le ‘cure’ del

controllo, si diventa senza cura, sine cura, sicuri): il canto ci coinvolge nelle cose che ci circondano, ed in questo modo ci predispone anche al gioco con il mondo. Partecipiamo all’apparire del mondo. Le parole che muoviamo nel mondo sono parole cantate, non semplicemente significati e riferimenti. Cantare significa «rientrare nella regione dell’ente stesso. Questa regione, essendo l’essenza del linguaggio, è l’essere stesso. Cantare il canto significa: esser-presente nell’essere-presente stesso; significa: esserci»19.

L’interpretazione heideggeriana di Rilke, allora, consegna un tipo di linguaggio poetico, il canto, come qualcosa di distinto dal linguaggio proposizionale, e mostra come questo canto ci dona un ruolo facilitato alla presenza di ciò che esiste. Attraverso il canto riusciamo a vedere il mondo non come indipendente da noi, come oggettivamente distante

11 Ivi, pp. 273 sgg. (GA 5, pp. 302 sgg.).

12 Ivi, p. 286 (GA 5, p. 310). Heidegger scrive ‘trascendens schlechthin’, una revisione della celebre

affermazione di Essere e tempo.

13 Ivi, p. 287 (GA 5, p. 310). 14 Ibid.. 15 Ivi, p.292 (GA 5, pp. 315 sgg.). 16 Ibid. 17 Ibid. 18 Ivi, pp. 293-94 (GA 5, p. 317). 19 Ivi, p. 293 (GA 5, p. 316).

187 da noi (‘contro’ di noi), senza relazione, ma come qualcosa di cui partecipiamo, senza tuttavia appartenergli mai completamente, come invece propone Rilke. L’oggettivazione tecnologica non è mai del tutto superata. Rilke fallisce l’obiettivo, secondo Heidegger, perché non comprende la reale relazione tra questi due aspetti e propone invece una visione legata ad un’appartenenza infinita, attraverso la figura dell’angelo. L’interpretazione successiva che Heidegger darà della poesia, quindi, cercherà di articolare proprio questa finitudine della non-appartenenza, intendendola come condizione di ogni incontro e di ogni relazione

Nel documento Heidegger e i linguaggi. Eredità e dialoghi (pagine 187-190)