L’origine de ‘L’origine dell’opera d’arte’
6) La conferenza del
Perciò, piuttosto che essere attente all’enigma dell’Arte, queste due versioni della conferenza del 1935 si rivelano essere volontaristiche proclamazioni dell’Esserci tedesco. Comunque, coloro che conoscono (o conoscevano) solamente L’Origine dell’opera d’arte
sulla base della terza versione senza dubbio possono dire che la proclamazione volontaristica di un popolo non è così scontata nella terza versione. E hanno ragione. Benché l’interrogazione è rivendicata come un punto centrale in tutti i testi che ho
menzionato, iniziando con L’Auto-affermazione dell’Università tedesca, è ovvio dal tono di
questi testi che l’Auto-affermazione prevale sul domandare. Non è così nel 1936. Questo cambio di tono nella versione finale merita la nostra considerazione.
A dire il vero, il ‘popolo’ è ancora un tema presente, così come i suoi dei, e la ‘grandezza’ è ancora menzionata come fondativa dello Stato. Altrettanto: la decisione è ancora un tema centrale. Ma tutti questi punti focali sembrano perdere la ‘durezza’ che avevano nelle precedenti versioni. O almeno la loro durezza sembra essere diluita da un tono che è più meditativo che assertivo o proclamatorio, e certamente non prometeico. In aggiunta, la
circolarità enfatizzata dalle prime versioni era in ultima analisi uno strumento per
mostrare il carattere circolare del Dasein, come un essere esistente in vista di se stesso, e in vista del suo divenire ciò che già è. Al contrario, la circolarità nel 1936 perde questa connotazione volontaristica e sembra adesso significare che l’Essere non è gli enti, né è al di fuori di essi: e gli esseri umani sono chiamati da questa differenza. In aggiunta, il precedente disprezzo per la quotidianità e la sua banalità è quasi scomparso. È altamente significativo che le prime tre parti della versione finale siano dedicate alla questione: cosa è una cosa nel suo carattere cosale? Nella cornice dell’ontologia fondamentale, prestare attenzione all’essere delle cose chiaramente non poteva essere una questione centrale per il compito del pensiero. Le cose non meritavano una interrogazione, dal momento che il loro essere non aveva alcunché di enigmatico. Era definito o dalla presenza-sotto-mano o dalla utilizzabilità. Queste risposte facili non sono più menzionate. Invece adesso è dichiarato:
la cosa, nella sua modestia, si sottrae al pensiero nel modo più ostinato. Oppure proprio questo rifiutarsi della mera cosa, questa in sé riposante e non costretta compattezza della mera cosa, dovrà appartenere all’essenza della cosa? Ma allora ciò che di più strano e segreto la cosa porta con sé, non dovrà costituire l’obiettivo ultimo di un pensiero che cerchi di pensare la cosa? In tal caso, però, ci si deve guardare con cura dal ricorrere a forzamenti per aprirsi la via verso il carattere di cosa della cosa24.
In altre parole, la quotidianità non è più il ‘familiare, troppo familiare’ che la risolutezza ha da evitare e superare. Adesso essa è ‘estranea’ più che familiare. Allo stesso modo, lo strumento, precedentemente definito una volta per tutte dalla sua utilizzabilità, adesso si rivela essere un testimone, proprio nella sua affidabilità, della verità più profonda, l’interazione di disvelamento e velamento. Ovviamente, se il semplice carattere delle cose e degli utensili merita adesso una meditazione, non ha più molto senso disprezzare la quotidianità e la sua techne come qualcosa di poco valore.
Possiamo anche osservare un notevole cambiamento nella seconda/terza parte della versione finale. Precedentemente, l’aletheia era connessa con il Ci che un popolo è destinato ad essere, così che l’Esserci di un popolo era il luogo della verità. Questo, adesso, sparisce. L’Esserci non è più il luogo della verità. Il disvelamento è adesso inteso come una radura tra gli enti, una radura a cui gli esseri umani appartengono e a cui sono esposti, piuttosto che istituirla. Conseguentemente, la risolutezza subisce un profondo cambiamento di significato: perde il suo iniziale richiamo alla volontà, alle sue decisioni, al suo progetto di essere un Sé. Adesso diventa un dischiudersi o esporsi al riserbo che è nel
24 M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, tr. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia,
94 cuore della radura. Per lo stesso motivo, la verità stessa non è più una questione di decisione umana tra l’Essere e il non-Essere, o tra il disvelamento e la mera apparenza. E se non è più nell’ambito della decisione umana, è perché è proprio la distinzione tra occultamento e inganno o mera apparenza che adesso è diventata non più dicibile. «Il nascondimento può essere un rifiuto o semplicemente una simulazione. Noi non abbiamo mai la certezza assoluta se si tratta di uno o dell’altro. Il nascondimento nasconde e simula se stesso»25. A dire il vero, la parola decisione rimane in uso. Ma la decisione adesso
appartiene all’Essere, non più all’Esserci.
Infine, nella versione finale, l’ultima sezione tratta della creazione, ma in un tono da cui l’ispirazione prometeica è scomparsa. Ciò che è visto come più essenziale nell’opera, nella misura in cui è stata creata, ciò che è valutato come più straordinario in essa, non è più la sua capacità di anticipare con un salto ciò che un popolo vuole essere e di affiggere nel registro della grandezza quello che dovrebbe essere il suo livello e il suo grado. Molto più modestamente, ciò che è più essenziale in essa, poiché creata, è questo: «che una tale opera è, anziché non essere». La cosa più essenziale, adesso è «il ‘che’ dell’essere stata fatta»26. In
altre parole, il venire alla presenza sembra adesso erodere il precedente privilegio del progettarsi nel futuro.
Come era prima per il creatore, c’è ancora un esser-protesi che mette in opera, c’è la lotta del mondo e della terra, ma il creatore non è più un combattente. Creare, dice Heidegger, è «ricevere e prendere in prestito insieme la relazione con il Disvelamento». E questi verbi non sono in alcun modo prometeici.
[tr. it. di Livio Marcello Passalacqua]
25 Ivi, p. 39. 26 Ivi, p. 49.
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