La poetica heideggeriana della relazionalità
2) George Trakl: il linguaggio della dipartenza
Leggendo Trakl, Heidegger trova un poeta che sottolinea proprio la finitudine umana, senza collegarla ad un pensiero della presenza e dell’infinito, come nel caso di Rilke. La finitudine è inseparabile dalla relazionalità, nella misura in cui il limite del finito è sempre un’apertura ad un’alterità. L’essere finito è esposto ad un mondo che lo colpisce (da cui è affetto). Trakl traccia tutto questo nella sua poesia attraverso la figura del viandante. L’essere finito è colpito (affetto) dal mondo a cui è esposto e quindi sradicato, messo in moto, mai confinato in un solo posto. Esso è sempre essenzialmente collegato a ciò che è al di là e traccia così un mondo di relazioni. Questo viandare è la stessa finitudine umana; e quindi non è accidentale che nei poemi di Trakl compaia la figura del limite o della soglia, figure che indicano un luogo d’incontro e trasformazione. La lettura che Heidegger dà di Trakl (nel saggio del 1950, Il linguaggio e in quello del 1952, Il linguaggio nella poesia) descrive le trasformazioni dell’essere umano in cammino nel mondo. L’essere umano, concepito in maniera esposta e relazionale, entra in un mondo di cose ‘raggianti’. La poesia di Trakl fornisce ad Heidegger l’opportunità di discutere quale sia il linguaggio adeguato per dire questo mondo.
Ne Il linguaggio della poesia, Heidegger propone con Trakl il motivo del viandante che viaggia in un bosco, nell’azzurro del crepuscolo (l’azzurro per Trakl è il colore della transizione). Mentre si trova nel bosco, il viandante coglie i segni di un animale, e in questo tramonto «il viso dell’animale si irrigidisce e si trasforma nel volto della fiera»20.
Heidegger parte da qui per sottolineare la differenza tra l’animale, così come è inteso nella tradizione metafisica e la ‘fiera azzurra’ della poesia di Trakl. L’animale ‘razionale’ pensato dai filosofi, ha un aspetto di animalità che esclude ogni elemento intellettivo. Le funzioni animali, meramente sensibili, vengono opposte alla razionalità umana, sovrasensibile. L’animalità della fiera azzurra, invece, sottolinea Heidegger, non può essere definita (e addomesticata) attraverso categorie che si escludono reciprocamente, come quelle dell’animale e del razionale. Per Heidegger, la fiera azzurra ha abbandonato sia l’animalità dell’animale rationale che le precedenti figure essenziali dell’umano. E le ha abbandonate perché non viene definita da ciò che la contiene, ma da ciò a cui è esposta, ciò che incontra sul limite: «la fiera azzurra è un animale la cui animalità non consiste evidentemente nella bestialità, bensì in un memorante (pensante) guardare»21, che incontra lo sguardo del
viandante. Anziché determinare l’animalità tramite una opposizione esclusiva, l’animalità è determinata attraverso uno sguardo che guarda i suoi stessi limiti, è determinato da ciò che si trova al di là dei suoi stessi confini, tanto che questa animalità irrazionale dell’animale rationale viene trasfigurata e diventa ‘memorante/pensante’. Poiché questa animalità è determinata dall’esposizione, in essa non vi è nulla di fisso. «Una tale animalità è ancora così lontana che appena è dato intravvederla. Perciò è ancora in uno stato di indeterminatezza»22.
20 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo, Mursia, Milano, 1990, p. 51 (Ga, 12,
p. 40).
21 Ibid. (GA 12, p. 41). 22 Ibid. .
188 L’umano stesso viene trasformato in questa trasformazione dell’animale. La liberazione dell’animale dall’animale rationale, sconvolge la definizione di essere umano. Come Heidegger intende mostrarci, ogni circoscrizione o definizione di qualcosa è allo stesso tempo l’esposizione di una superficie. L’animale, l’essere vivente, l’umano, sono così definiti tramite ciò che si trova oltre loro stessi. Essi sono innanzitutto creature di relazione. Vengono colpiti (affetti) da ciò che giace oltre i loro limiti, ma non sono separati da ciò che li oltrepassa, bensì interfacciati con esso. Questo stare sul limite non è un atteggiamento fisso e fissato (per dirla con un’espressione del Nietzsche di Umano, troppo
umano, l’umano è l’animale non ancora fissato, stabilito [fest gestellt]23). Essere colpiti
(affetti) da ciò che sta oltre cambia anche ciò che si trova all’interno. Il limite non è né ciò che è confinato, né ciò che viene sorpassato, è anzi ciò che è instabile e disteso in tensione tra questi poli. Essere al limite è essere indotti al movimento, essere in cammino. E soltanto quando qualcuno è aperto al mondo in questo modo, quando è colpito e colpisce il mondo, da ciò che sta oltre il proprio limite, allora può aver luogo ogni sorta di incontro (e questo è uno dei punti più critici di Heidegger nei confronti di Rilke). In questo scenario di incontro al limite della foresta, la fiera azzurra e l’umano sono definiti attraverso ciò che li oltrepassa, sono entrambi questo finito, e questo li rende entrambi mortali, così che Heidegger non esita nel definire la fiera azzurra uno dei ‘mortali’ (die Sterblichen). Abbandonando le figure dell’umano che finora sono state essenziali, l’umano e l’animale giungono insieme in una comunità di mortali: «’fiera azzurra’ è il nome che indica i mortali che, memori dello straniero, vorrebbero con lui raggiungere – col loro camminare – il luogo d’origine della loro essenza umana»24. La mortalità è materia di determinazione che
si realizza attraverso l’esposizione all’altro, un’occorrenza del limite come punto di contatto e di relazione tra il proprio e ciò che sta oltre (lo straniero). I mortali giungono al limite attraverso il cammino ed è soltanto attraverso questi sentieri esposti al tramonto che si trova il luogo originario dell’essenza umana.
L’esistenza mortale, vissuta al limite, spinge ciascuno alla relazione col mondo, un mondo che accoglie ciascuno attraverso la luminosità delle cose. Il saggio di Heidegger Il
linguaggio segue un viandante che è da capo in cammino, ma questa volta arrivando al
confine di un bosco si ritrova sulla soglia di una casa. Qui, sulla soglia, il viandante è accolto in un mondo risplendente di cose:
Silenzioso entra il viandante; il dolore ha pietrificato la soglia; là risplende in pura luce
sopra la tavola pane e vino25.
Con l’arrivo del viandante sulla soglia, le cose possono ricevere uno spazio di apparizione. Qui non imponiamo ulteriormente noi stessi su di esse per piegarle al nostro intendere, né siamo intrappolati dentro noi stessi, in un muro che esse non possono raggiungere. Sostando sul limite, giunge una relazione trasformativa. Heidegger la spiega come ‘lo strappo della dif-ferenza’ [Der Riß des Unter-Schiedes]: il limite o la soglia tra le cose e ciò che sta oltre esse, che allo stesso tempo separa e introduce nella relazione, che permette il puro splendere dell’apparire. Abbandonare l’identità incapsulata del soggetto metafisico implica l’abbandono anche dell’oggettività metafisica, altrimenti non ci sarebbe differenza. Le cose non sono più confinate ed intrappolate in sé stesse come oggetti. Anzi, splendono in una luminosità splendente. E queste cose non sono più oggetti opposti al soggetto in uno spazio vuoto. Come abbiamo visto, questa terra di mezzo è essenziale perché le cose siano definite attraverso l’esposizione e ciò che sta oltre esse. Questo ‘tra’
23 Citato in ibid..
24 Ivi, p. 52 (GA 12, p. 42).. 25 Citato ivi, p. 31 (GA 12, p. 15).
189 non è più un’assenza legata a oggetti semplicemente presenti. Invece, è uno spazio accogliente in cui entriamo proprio in mezzo alle cose. Così, immerse nel mondo, le cose rispendono. Come cose mondane, risplendono oltre sé stesse.
La cosa splendente non è più confinata oggettivamente, è divenuta un essere in relazione. In quanto entità contestuali, qualcosa di essenziale per le cose rimane al di là di esse. Le cose non sono solo ciò che sono, appartengono al loro luogo e sono implicate nel mondo (danno origine al mondo, dirà Heidegger). Per questa ragione, non si possono identificare semplicemente come meramente alla mano, enti semplicemente presenti o come meramente disponibili per il nostro giudizio ed una susseguente assegnazione di valore. Senza questo non servono nemmeno come mezzo per i propositi del soggetto. Il loro risplendere è il risplendere di questa libertà dalla subordinazione e dalla oggettivazione. Risplendere è solo questo fenomeno di superficie e di limite, di cose che sono essenzialmente definite attraverso l’esposizione e attraverso ciò che sta oltre esse stesse, che esse irradiano o ‘fanno risplendere’ in questo essere al di là. Noi non incontriamo nient’altro che la superficie delle cose. Il risplendere è la fenomenalità della superficie e del limite. Il pane e il vino splendono così brillanti sul tavolo perché sono completamente superficie. Non c’è nulla dietro, sotto o dentro le cose che esse vogliono preservare dall’arrivo del viandante sulla soglia (tutto sta arrivando). Le cose sul tavolo emergono
offrendo sé stesse al viandante.
Il linguaggio della poesia di Trakl non è una descrizione di questo mondo, ma l’evocazione di esso e la partecipazione ad esso. Proprio come l’infrangersi del canto nella poesia di Rilke ci garantisce l’ingresso nel mondo, così il linguaggio poetico ci trasporta per Trakl in questo mondo di relazioni. Con il viandandare nel mondo e con le cose che esondano rispetto alle loro collocazioni oggettive, il linguaggio poetico di Trakl può solo parlare in quanto è in cammino. Nell’argomentare contro la comprensione tradizionale del linguaggio (come un mezzo d’espressione, come un’attività umana, e come rappresenta- zione), Heidegger presenta il linguaggio poetico come possibilità di corrispondenza intima a questa radiosa presenza delle cose.
Nel saggio Il linguaggio, il linguaggio poetico è visto come un nominare, come il pane sul tavolo nominato da: e non si tratta di una mera applicazione di termini ad oggetti già semplicemente presenti alla mano. Le cose sul tavolo non sono solo oggetti, ma sono risplendenti al di là di se stesse, per giungere a noi. Nominare è un chiamare (rufen) che prende parte alla stessa tensione liminale dell’essere in cammino che abbiamo osservato nei viandanti nella poetica di Trakl. Provvisoriamente, possiamo dire che il chiamare chiama a ciò che è assente e che deve venire ad essere presente. Ma si nota immediatamente che se ciò che chiamiamo fosse interamente assente, non ci sarebbe alcuna possibilità di chiamarlo, non ci sarebbe neanche il minimo impulso a farlo. Allo stesso modo, se fosse completamente presente prima di noi, non ci sarebbe motivo di chiamarlo. Ciò che viene chiamato non è né presente, né assente; è questo che il chiamare significa per Heidegger. Il chiamare «porta vicino quello che ancora non era stato chiamato»26. Il chiamare invita ciò che viene chiamato ad essere in questo modo, qualcosa
che non è né così presente da non aver bisogno di chiamata, né così assente da andare oltre la possibilità di chiamata; quindi qualcosa che sta tra le due dimensioni. «Questo chiamare a sé è l’appello della lontananza, nella quale ciò che è chiamato permane ancora come l’assente»27. Una chiamata di questo tipo non reifica la cosa in un oggetto. Chiama ciò che è
chiamato in modo che esso possa venire nel frammezzo della differenza, che, come si è visto, è uno strappo della differenza che insieme separa e mette in relazione.
Ne Il linguaggio nella poesia, Heidegger descrive questo linguaggio e la sua corrispondenza in termini di ambiguità. Il linguaggio di questa poesia, dice Heidegger, ci
26 Ivi, p. 34 (GA 12, p. 18). 27 Ibid..
190 parla di una transizione e deve portarci più in là rispetto a delle affermazioni semplici, localizzabili, legate ad auto-evidenti presenze. Perciò erra troppo. Il linguaggio poetico non può essere univoco; anzi ha una «molteplicità di significati»28. Questa non è una mera
ambiguità, ma una «ambiguità ambigua» [zweideutigen Zweideutigkeit]29. Questa
ambiguità ambigua non non consiste di significati multipli per lo stesso termine, là dove una parola può significare allo stesso tempo una cosa o un’altra. Questo tipo di visione pensa l’ambiguità come ad una oscillazione tra due o più termini presenti e significanti. L’oscura ambiguità, invece, non può essere pensata come una alterazione indecisa tra significati presenti. La seconda ambiguità rende i due opposti significati instabili, o, piuttosto, non fa derivare l’ambiguità dai significati già presenti, ma si localizza nello spazio ‘tra’ questi significati, in un posto che non è né l’uno, né l’altro. Durante la sua lettura di Trakl, Heidegger presenta un mondo in cammino, un mondo finito fatto di di incontri e approcci. L’umano, le cose e il linguaggio sono tutti posti in movimento e spogliati di ogni pretesa di presenza. Questo essere in cammino è l’unica appartenenza che noi possiamo conoscere.