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2a Due casi di fallimento o disinteresse politico: le famiglie de Bombello e Vetulo.

IL COMUNE CONSOLARE (1099-1190)

II. 2a Due casi di fallimento o disinteresse politico: le famiglie de Bombello e Vetulo.

Se naturalmente la continuità nell’esercizio del governo per un lungo periodo meriterà una riflessione più approfondita, non si possono comunque ignorare quelle due famiglie che – come si è detto – partecipano soltanto per un tempo ristretto alla politica cittadina della prima metà del secolo XII418. In particolare risulta interessante il caso di Guglielmo de Bonobello, che abbiamo visto

416 Essi sono Buonvassallo de Tetoica, Oberto di Caschifellone (1133); Elia, Ingo Galletta, Rinaldo Gauxonus,

Guglielmo Lusio (1134); Buonvassallo de Bonhomine, Marchese Guaraco (1135); Guglielmo Garrio (1136); Guglielmo Barca, Guglielmo Bruxedus, Buonvicino de Campo, Buonvassallo de Gisulpho (1137); Filippo de

Lamberto (1138).

417 Si tratta delle famiglie Bellamutus, Buferio, Caffaro, Capra, de Bonobello, de Castro, de Guidone, de Mari, de

Mauro, de Odone, de Volta, di Carmadino, Embriaco, Fornari, Gontardo, Pedicula, Pevere, Piccamiglio, Porco,

Roza, Ruffo, Sardena, Spinola, Vetulo.

essere stato tra i consoli del comune del 1124 e che ritroviamo nell’elenco dei consoli dei placiti in carica nel 1130. Dopo questi incarichi, soltanto in un’altra occasione si ha notizia di un coinvolgimento di Guglielmo nella politica genovese: accade nel 1146, quando un Willelmus de

Bombello figura tra i Genovesi che giurano un trattato di alleanza con il conte di Barcellona,

Raimondo Berengario IV419. Con quest’ultima menzione sembra esaurirsi quella che potremmo

definire “carriera” di Guglielmo nel governo cittadino, senza che si apra uno spazio per la partecipazione di qualche suo discendente alle magistrature comunali.

Eppure, per tutta la seconda metà del secolo XII, la famiglia de Bombello palesa una vitalità economica tale da far pensare a una posizione certamente non marginale nella società genovese. È infatti probabilmente figlio del console Guglielmo quel Guidotto che, nel 1160, riceve in

accomendacio da diversi privati investitori (tutti appartenenti a famiglie di governo) la consistente

somma di 150 lire, e la impegna nel viaggio commerciale di una galea di proprietà di un altro esponente di spicco del gruppo dirigente cittadino, Rubaldo Bisaccia420. Ancora negli anni Novanta

sappiamo che due individui identificati con il cognome de Bombello sono impegnati nel commercio marittimo e nei traffici monetari. Nel marzo 1192, Guglielmo contrae un cambio marittimo su Palermo con Guglielmo Guercio Ostaliboi, che è in affari pure con Giacomo de Bombello421,

anch’esso personaggio economicamente parecchio attivo in quel torno di anni, non soltanto sul fronte commerciale, ma anche su quello immobiliare422.

Fortune economiche dunque, che non sembrano andare di pari passo con quelle politiche, ma sono comunque caratterizzate da dinamismo e disponibilità cospicue, tanto da improntare in maniera profonda anche la stessa identità di alcuni membri della famiglia: è verosimilmente

419 I Libri Iurium cit., I/6, doc. 934. Questo Guglielmo potrebbe essere lo stesso console nel 1124 e 1130, oppure – se si

volesse credere a una qualche corrispondenza fissa che regoli le ricorrenze onomastiche attraverso le generazioni – un suo omonimo nipote.

Sempre un Guglielmo de Bombello è testimone, assieme ad altri personaggi che sappiamo essere impegnati nel governo comunale durante gli anni Trenta (Marchese di Caffaro, Buonvassallo de Odone, Buonsignore Mallone) di un accordo tra un consorzio di cittadini e il monastero di Santo Stefano, per la costruzione di due mulini lungo il corso del Bisagno: Codice diplomatico del monastero di Santo Stefano cit., I, doc. 110.

420 Il Cartolare di Giovanni Scriba cit., I, doc. 673, pp. 363-364; gli investitori sono Guglielmo Burone, Simone Doria e

Guglielmo Della Volta, che impegnano ognuno la somma di 50 lire. Una sommaria ricostruzione della biografia di Rubaldo Bisaccia è reperibile in Kreuger, Navi e proprietà navale cit., pp. 44-46.

421 Lo stesso giorno della stipulazione del contratto di cambio marittimo, Giacomo contrae infatti società con

Guglielmo Guercio, per un valore totale di 150 lire, divise con la consueta proporzione di 2/3 per il socio stanziale e 1/3 per quello viaggiatore: Guglielmo Cassinese cit., II, docc. 1653-1654, pp. 218-219.

422 Oltre al denaro in società con Guglielmo Guercio, Giacomo porta in Sicilia anche 150 lire di proprietà di Ansuisio di

San Genesio, un mercante la cui attività risulta ben documentata, tra gli ultimi anni del secolo XII e gli inizi del successivo, dai protocolli di alcuni notai cittadini (si vedano per esempio Guglielmo Cassinese cit., I, docc. 425-427, pp. 169-170, doc. 430, p. 171, doc. 434, p. 173, doc. 899, p. 358; op. cit., II, doc. 1676, p. 226; A. S. G., Notai

Antichi, cart. 5, c. 7 r. – not. Raimondo Medico; cart. 3 parte II, cc. 130 r., 131 r., 134 r. – not. Guglielmo di Sori).

Ancora nel 1201, Giacomo de Bombello, assieme ai soci Giovanni Boleto e Ingo Castagna, contrae un cambio marittimo su Montpellier e Barcellona per un valore di 70 lire: Giovanni di Guiberto cit., I, doc. 228, p. 118 (analoghe testimonianze dell’attività commerciale di Giacomo si hanno in op. cit., I, doc. 1034, p. 481; op. cit., II, doc. 1829, pp. 355 - 356). Due anni più tardi, lo stesso Giacomo acquista da Ugolino Cavarunco una casa in città, per il prezzo di 160 lire: op. cit., I, doc. 992, pp. 459-460.

appartenente al livello generazionale del padre dei mercanti Giacomo e Guglielmo, infatti, anche quel Giovanni de Bonbello, già defunto nel gennaio 1203, presentato in un atto del notaio Lanfranco con la qualifica di bancherius, che non lascia ambiguità circa l’effettiva importanza dei traffici monetari per l’economia famigliare423. Proprio la constatazione inequivocabile di tale importanza

offre la possibilità di concludere questa rapida analisi della partecipazione dei de Bombello alla politica cittadina e della loro collocazione sociale con una osservazione che – per quanto sia in apparenza banale e valida soltanto per un esiguo numero di famiglie – rappresenta un punto di forte consapevolezza, meritevole di essere tenuto sempre in primo piano. È in sostanza evidente come una particolare vivacità economica, intesa come cospicua disponibilità di denaro sia per attività commerciali sia per investimenti immobiliari, non comporti automaticamente una particolare visibilità politica, ma vada considerata come elemento a sé stante, senza dubbio in grado di condizionare la collocazione sociale di una famiglia, ma non necessariamente connessa con una presenza attiva nelle istituzioni comunali.

Assai diverso da quello dei de Bombello sembra invece essere il caso della famiglia Vetulo, che con i consoli Rubaldo e Lanfranco partecipa al governo comunale per ben tre volte tra gli anni 1124 e 1133424. Se infatti la figura del console Guglielmo de Bombello ci è conosciuta soltanto per via

della sua partecipazione attiva alla politica cittadina, senza che altre fonti (specialmente quelle di produzione ecclesiastica) riportino notizie riguardanti qualcuno che – perlomeno in virtù di un’identità cognominale – possa essere ritenuto suo parente, il cognome Vetulo ricorre invece per quattro volte negli anni Trenta e Quaranta del secolo XII, proprio a ridosso del periodo dei consolati di Rubaldo e Lanfranco.

È con tutta probabilità databile ai primi anni Trenta l’elenco dei «vassalli civitatis» fatto compilare dall’arcivescovo Siro, nel contesto di un vigoroso tentativo di riaffermazione dei diritti patrimoniali della propria curia. Tra i nomi di coloro che sono soggetti all’autorità del presule perché in possesso di beni di proprietà arcivescovile figurano quelli dei «filii Lanfranci Vetuli» che, assieme allo zio materno Stranlandus, amministrano «pro feudo» un manso presso Sampierdarena, sullo sbocco a mare della val Polcevera425: è verosimile che si tratti dei figli dello stesso Lanfranco

console nel 1133, che sarebbero dunque identificabili come appartenenti a un gruppo elitario di cittadini (addirittura definiti nobiles nel lessico vescovile), legati al presule da vincoli personali che l’entourage episcopale – probabilmente forzando una situazione che si avverte molto meno chiara di quanto riportato dal Registro – presenta come vassallatici426.

423 Lanfranco (1202-1226) cit., I, doc. 64, p. 32.

424 Rubaldo Vetulo è console del comune nel 1124 e nel 1130, Lanfranco nel 1133: Olivieri, Serie dei consoli cit. 425 Il Registro cit., pp. 23 sgg.

426 Nobiltà e vassallaggio sono accettati come caratteri peculiari del gruppo consolare genovese in R. Pavoni,

Il rapporto tra i Vetulo e le strutture ecclesiastiche cittadine non è comunque limitato a questo singolo episodio. Sempre nello stesso torno di anni infatti, nel gennaio 1136, Lanfranco e suo fratello Guglielmo, assieme a un consorzio di altri due individui, prendono accordi con il monastero di Santo Stefano per la costruzione e la gestione comune di due mulini lungo il corso del Bisagno427.

La vicenda si inserisce senza dubbio in quel movimento di polarizzazione di un buon numero di esponenti dell’élite politica urbana attorno al monastero dedicato al Protomartire: in questo senso Lanfranco e Guglielmo Vetulo sono pienamente assimilabili a quel gruppo di individui vicini che entrano in relazione con il monastero e partecipano al governo della città.

Sebbene non si possieda alcuna notizia – più o meno attendibile – sulle ascendenze dei Vetulo, essi sembrano comunque in possesso di quei tratti (legami con il vescovo e con Santo Stefano) che accomunano molte delle famiglie di governo genovesi nella prima metà del secolo XII, in un periodo cioè per il quale la disponibilità di fonti quasi esclusivamente di produzione o conservazione ecclesiastica indirizza per necessità verso l’assunzione di punti di vista obbligati. Al pari di queste altre famiglie, anche i Vetulo sono dunque inseribili tra i componenti di quel gruppo che, attraverso la partecipazione alla politica comunale, il legame patrimoniale con il vescovo, la vicinanza all’abbazia di Santo Stefano e alla sua politica di sfruttamento economico delle acque del Bisagno, delinea in maniera piuttosto marcata una sorta di identità collettiva.

Tuttavia, la presenza della famiglia nelle istituzioni del governo comunale, così come l’attestazione dei rapporti con la curia vescovile e con il monastero, risultano essere alquanto estemporanee, limitate a un arco di tempo verosimilmente non molto più lungo di una dozzina di anni, dal 1124 – anno del consolato di Rubaldo Vetulo – all’accordo con Santo Stefano, datato 1136. Benché la disponibilità di documentazione relativa alla prima metà del secolo XII risenta della mancanza del fondamentale apporto degli atti notarili, non si può comunque fare a meno di notare come tre partecipazioni al consolato in soli dodici anni presuppongano una posizione di prestigio sociale che poco ha a che vedere con l’estemporaneità. In buona sostanza, la presenza dei Vetulo nel governo della città negli anni Venti e Trenta del secolo XII risulta pienamente in accordo con l’immagine offerta dalle notizie dei rapporti economici con il mondo ecclesiastico: quella di una famiglia caratterizzata da una struttura già articolata – più figli di Lanfranco inseriti tra i vassalli dell’arcivescovo, due fratelli tra i consortes di Santo Stefano –, e soprattutto da una posizione economica e sociale consolidata che prescinde (per quanto sappiamo) da un coinvolgimento nelle attività mercantili e marittime.

Le fonti ci restituiscono, insomma, una famiglia apparentemente in perfetta linea con l’idea – sostenuta dalla storiografia anche in tempi non lontanissimi – di un «ceto cittadino legato alla Curia

da vincoli vassallatici», per il quale «i proventi ricavati dal beneficio vescovile avevano svolto un ruolo primario nel processo di accumulo capitalistico durante le fasi iniziali dello sviluppo economico», in modo da permettere, con l’avanzare del secolo XII, una «moltiplicazione delle fonti di reddito e delle attività imprenditoriali e finanziarie»428. Tuttavia, proprio quest’ultimo aspetto, nel

caso dei Vetulo, lascia spazio a qualche dubbio riguardo l’effettivo valore universale dell’equazione fra legami clientelari con le strutture ecclesiastiche, arricchimento attraverso i traffici marittimi e partecipazione al governo cittadino.

Ciò che colpisce maggiormente, infatti, è l’assenza, dopo il 1136, di qualsiasi notizia che riguardi la famiglia: non più un esponente inserito nelle istituzioni comunali, non più l’attestazione di un qualche rapporto con la Chiesa locale, neppure una presenza in qualità di attori o testimoni di un negozio giuridico documentato da una scrittura notarile. Persino la gestione dei due mulini costruiti nel 1136 assieme a Santo Stefano e a un consorzio di privati rimane nell’ombra e non lascia traccia nel pur ricco complesso documentario conservato dal monastero429. I Vetulo, insomma,

sembrano esaurirsi economicamente e politicamente nel giro di pochi anni, per cause che non siamo in grado di valutare, neppure su basi ipotetiche.

Qualsiasi siano le ragioni del “fallimento”, l’unica serie di considerazioni possibili riguarda non tanto il singolo caso famigliare, quanto il generale modo di pensare la mobilità sociale e la stabilità economica e politica delle élite di governo nella Genova della prima metà del secolo XII. Sebbene il caso dei Vetulo, per le peculiarità che presenta, possa portare all’esagerazione di un processo che rimane comunque fluido e aperto a contraddizioni non sempre da noi rilevabili, esso impone comunque di riconoscere l’esistenza di situazioni di instabilità che, se non inficiano l’immagine di un generale movimento di crescita economica, contribuiscono a diversificare un quadro talvolta troppo monocromatico.

428 Si cita da Pavoni, Aristocrazia e ceti dirigenti cit., pp. 345-346. L’immagine di un “ceto dirigente” di origine

“vassallatica”, votato alle imprese commerciali già dal tardo secolo XI e sempre meno interessato al possesso fondiario, è affermata – con la forza di un’idea effettivamente innovativa – da Roberto Sabatino Lopez, nel suo ultimo lavoro italiano prima dell’emigrazione forzata, datato 1938: Lopez, Storia delle colonie genovesi cit., pp. 26 sgg.

429 I membri del consorzio del 1136 – definiti da Marchio iudex, estensore del documento, con l’ambiguo termine di

amelinki – sono, oltre ai fratelli Lanfranco e Guglielmo Vetulo, Bonmatus, figlio di Guglielmo Niello, Ugo de Fredolando e suo nipote. Soltanto coloro che, sulla base della semplice omonimia, possiamo identificare come

discendenti di quest’ultimo Ugo sono menzionati nei decenni successivi come interlocutori di Santo Stefano per questioni legate al possesso di quote di mulini costruiti lungo il corso del Bisagno: Codice diplomatico del