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Due immaginari collettivi sul quartiere di Piazza Vittorio

Appendice 2. Il mercato rionale

2.2 Due immaginari collettivi sul quartiere di Piazza Vittorio

L’immagine del quartiere di piazza Vittorio, e il suo significato (per immigrati e italiani), si caratterizza essenzialmente per una duplice e spesso contrapposta presentazione della relazione tra immigrazione ed Esquilino. Da una parte, alcuni italiani sostengono che gli immigrati sono la causa principale del degrado del quartiere, poiché alimentano mercato nero, criminalità e povertà. Di fronte alla crescita della popolazione immigrata, questi residenti accusano l’amministrazione comunale di scarso controllo e lassismo, di rinuncia alla difesa «dell’identità italiana e cattolica dell’area» e indifferenza rispetto alle loro esigenze e proteste. All’opposto, altri residenti, italiani e stranieri, non si sentono spaesati nella nuova realtà ed anzi vedono nell’incontro con l’immigrato la possibilità di ampliare la loro conoscenza delle “culture altre”. Il confronto con queste “culture” costituirebbe un momento di cambiamento positivo e di arricchimento culturale.

Questi due gruppi si possono collocare in linea di massima in opposti schieramenti politici: gli appartenenti al primo sostengono gli argomenti e la posizione assunta dai partiti di destra rispetto all’immigrazione; mentre, gli appartenenti al secondo gruppo sembrano essersi schierati a favore dell’amministrazione Veltroni. Vi è quindi una stretta correlazione tra la percezione e definizione della realtà del Rione, lo specifico

orientamento politico e le pratiche dei luoghi. Tale orientamento si riflette poi nelle pratiche degli spazi e dei luoghi del quartiere (come la partecipazione a specifiche manifestazioni o eventi pubblici).

La stessa definizione della realtà attraverso specifiche parole rivela il retroterra culturale e la collocazione politica dei soggetti. Coloro che accusavano il Comune di aver abbandonato il quartiere e i vecchi residenti a vantaggio dei gruppi di immigrati asiatici, pensano al quartiere come a una “Chinatown”, un ghetto cinese. Quei residenti che non riconoscono più come proprio il quartiere, sentono di aver perso il potere di ordinarne la realtà secondo i propri valori e significati culturali tradizionali (e monoculturali). La presenza di fenomeni di microcriminalità alimenta una sensazione di caos, di perdita dell’ordine sociale fondato sulle regole; ciò determina un senso di insicurezza ed il quartiere è nell’immaginario collettivo malfamato e abbandonato all’illegalità: a Piazza Vittorio si vive nel “Bronx”.

In questa operazione di definizione della realtà, quando si vuole sottolineare il disagio sociale e le contraddizioni del contesto, si fa sempre uso di termini che evocano immagini stereotipate di altre realtà, distanti da quella italiana: il conflitto è rappresentato parlando di “Bronx”, la povertà e il caos sono la “casbah” o il “suk”, il ghetto è “Chinatown”. Si tratta di termini coniati per altri contesti sociali, distanti socialmente e culturalmente, oltre che geograficamente; sono i luoghi di partenza degli immigrati. Queste definizioni possono essere rilette in base al concetto di “orientalismo” di Said, inteso come discorso sull’Oriente elaborato non in base a una considerazione delle varie realtà storico-culturali che abitavano lo spazio geograficamente identificato come “Oriente”, ma su rappresentazioni costruite in base a logiche e modalità occidentali e funzionali al rafforzamento dell’identità occidentale. Anche in questo caso si può dire che questi termini appartengono a strategie di discorso attraverso le quali è possibile creare una distinzione «ontologica» ed «epistemologica» (2004, p. 12) e aggiungerei anche “spaziale” tra i soggetti che abitano e frequentano il quartiere di Piazza Vittorio e tra quest’ultimo e gli altri luoghi della città. Viene in sostanza localizzata una visione e definizione dell’Altro che serve ai detentori dell’orientamento culturale dominante per esercitare a proprio vantaggio la propria influenza su soggetti culturali diversi e sulle relazioni con essi. Ciò si fonda su una distinzione tra “noi” e l’“altro”, su una contrapposizione che consente ai residenti

italiani del quartiere di definire e rinforzare la loro identità, allo stesso modo in cui «la cultura europea ha acquisito maggior forza e senso di identità contrapponendosi all’Oriente» (Said E.W. 2004, p. 13). L’immigrato è ridotto a oggetto nella coscienza in base a stereotipi e pregiudizi culturali e gli italiani creano per contrasto la loro stessa identità. Non è tanto importante il dato reale, ossia chi sono effettivamente gli immigrati, quanto la loro definizione per il “noi italiano”. L’idea di immigrato e la sua localizzazione, attraverso i termini citati nel testo, fanno parte di un discorso interiorizzato che per l’italiano è il riferimento utile alla gestione dei suoi rapporti con lo straniero e la realtà stessa e, dunque, per il suo posizionamento nella città multietnica. È il consenso intorno a questo universo discorsivo che garantisce il suo mantenimento e, a partire dalle rappresentazioni apprese (diffuse dalle istituzioni) e dall’insieme di significati «cristallizzati e stratificati» (Said E.W. 2004, p. 201), è possibile creare nuove rappresentazioni dell’immigrato in rapporto ai cambiamenti sociali senza mettere in dubbio la propria identità di italiano.

Questa strategia evocativa, in sostanza, consente di cogliere immaginativamente e stereotipicamente la situazione sociale del quartiere, replicando l’immagine di altri contesti costruita da discorsi che hanno senso solo per coloro che hanno quell’orientamento culturale per il quale questi discorsi sono stati prodotti (Said E.W. 2004; Mellino M. 2005). La capacità di tali rappresentazioni è quella di definire efficacemente agli occhi di chi le adotta la realtà e orientarne le pratiche. Questa efficacia, non solo legittima la definizione della realtà, ma anche l’immagine stereotipa dell’Altro, vicino e lontano, consentendo a chi vi fa ricorso di preservare il proprio mondo culturale.

Un’altra parte della cittadinanza romana, invece, vede nell’Esquilino una possibilità concreta di convivenza pacifica tra portatori di culture diverse. Un’immagine “sponsorizzata”, solitamente, da studiosi, da operatori sociali e da «curiosi», che per descrivere il quartiere utilizzano metafore come «laboratorio» o «osservatorio privilegiato per lo studio delle relazioni multietniche» (Casacchia O., Natale L. 2003, p. 623). In questo caso, il Rione e Piazza Vittorio rappresentano i luoghi attraverso i quali sembra possibile prevedere il futuro della città, le sue dinamiche sociologiche e culturali, che caratterizzate dall’incontro tra immigrati e autoctoni.

Il quartiere sembra allora esistere nell’immaginario collettivo esclusivamente in quanto simbolo della multietnicità a Roma e come crogiuolo di incontri culturali ed etnici (dal gusto “esotico”), oppure di scontri sintomatici del disagio sociale portato dagli immigrati. Così, F. Vando nella sua analisi del Rione Esquilino45 propone tre categorie di persone tra gli abitanti italiani del quartiere: i «conservatori», che vedono nell’altro da sé un pericolo per la loro identità culturale che li spinge al rifiuto; gli «impauriti», ossia quei residenti italiani che «vacillano di fronte al cambiamento», che sentono «minacciata» la loro «incolumità personale»; infine, gli «etnochic», che nell’immigrato vedono riflesso l’esotico, un oggetto di consumo con cui non sono in una relazione reciproca nella quale la diversità pone degli interrogativi sulla propria cultura (Vando F. 2007a, pp. 80-83).

Queste distinzioni categoriali operano sull’immaginario legato al quartiere Esquilino a vari livelli. In questa sede, tuttavia, vorrei partire da una constatazione che consente di ampliare lo sguardo sulle dinamiche in atto nel quartiere: Piazza Vittorio non è solo il simbolo del Rione Esquilino, ma lo è anche di una realtà più ampia, caratterizzata da soggetti con orientamenti culturali diversi capaci di creare nuovi rapporti. Questa realtà è quella della città; uno spazio limitato caratterizzato da subculture, da un «apparato culturale più articolato» e diverse modalità di gestione del significato, contrastanti e tra loro «interconnesse» (Hannerz U. 1998 [1992], pp. 225-226). Da ciò deriva la complessità culturale della città e il suo continuo mutamento.46

Anche il quartiere di Piazza Vittorio costituisce uno spazio limitato in termini geografici, ma date le sue caratteristiche è anche, e più di altri quartieri, uno spazio che partecipa ai flussi culturali globali tramite gli attori sociali che lo abitano. Appadurai afferma che questi flussi si muovono su cinque dimensioni, che chiama: «etnorama», «mediorama», «tecnorama», «finanziorama» e «ideorama»47. Questi termini

45 Ricerca condotta per la Caritas di Roma tra settembre 2005 e maggio 2006, nell’ambito del Progetto Aree Metropolitane della Caritas con l’Università Cattolica di Milano.

46 Hannerz intende le subculture come “unità più piccole di significato collettivamente trasportato all’interno di culture più ampie” (Hannerz U. 1998 [1992], p. 51).

47 Secondo Appadurai, l’osservazione delle relazioni tra queste dimensioni è utile per l’esplorazione delle «disgiunture tra economia, cultura e politica» nel mondo globalizzato (2001 [1996], p. 52). Il termine «etnorama» si riferisce al movimento di persone nel mondo contemporaneo a causa delle politiche nazionali, delle tecnologie e dei nuovi bisogni emergenti. Per tecnorama si deve intendere la tecnologia come si configura nel mondo globale e la sua capacità di andare oltre i confini a una grande velocità. La distribuzione di questa tecnologia è «iniqua», poiché dipende dalle relazioni complesse tra «flussi di denaro, possibilità politiche e disponibilità di manodopera specializzata e comune» (2001 [1996], p. 54). Appadurai sostiene che insieme ai tecnorami e agli etnorami per l’analisi dell’economia globale e la comparazione tra le economie dei paesi, è necessario anche dar conto dei flussi fiscali e di finanziamento

rappresentano «panorami» di «forma fluida e irregolare […] sono costrutti profondamente prospettici declinati dalle contingenze storiche, linguistiche e politiche di diversi tipi di attori». Questi attori sono gli stati, le multinazionali, le comunità diasporiche e i movimenti «subnazionali», ma anche i «gruppi basati su rapporti interpersonali faccia a faccia come villaggi, quartieri e famiglie» (2001 [1996], pp. 52-53). Ogni singolo attore sperimenta questi panorami con altri attori e insieme a questi ultimi, in parte in base alle interpretazioni di quanto è offerto da questi panorami, può costituire «formazioni più ampie, in parte a seconda della loro interpretazione di quel che questi panorami offrono». Poiché questi panorami costituirebbero i «mattoni» di quei «mondi immaginati»48 in cui vivono molte persone, queste formazioni «sono in grado di contestare e a volte sovvertire i mondi immaginati della mentalità ufficiale e imprenditoriale che li circonda» (Appadurai A. 2001 [1996], p. 53). Nel mio caso, il termine «etnorama» ben rappresenta il contesto di Piazza Vittorio; infatti, in esso si ritrova «quel panorama di persone che costituisce il mondo mutevole in cui viviamo»: immigrati, associazioni di immigrati, comunità religiose, studenti provenienti da altre regioni e paesi, lavoratori di diversa nazionalità. Si tratta di gruppi in movimento, formazioni ampie, capaci di influenzare le politiche del Comune e di agire sull’immaginario collettivo consentendo a coloro con cui entrano in contatto di

che collegano le diverse economie attraverso una «griglia globale di speculazione finanziaria e di movimento di capitali»; si tratta dei finanziorami, che si riferiscono alla fluidità del capitale globale e la sua distribuzione, determinate dai «mercati monetari, le borse nazionali e le speculazioni commerciali» che muovono grandi quantità di denaro attraverso i diversi «accessi nazionali» e a una velocità mai vista. Etnorami, tecnorami e finanziorami sono in una relazione disgiuntiva e imprevedibile, ognuno di questi panorami «è soggetto alle sue costrizioni e ai suoi stimoli […] mentre allo stesso tempo ognuno agisce come una costrizione e un parametro per variazioni negli altri». Le disgiunture tra questi panorami, sono riflesse dai mediorami e gli ideorami, cioè panorami correlati di immagini (2001 [1996], pp. 54-55). Con il termine mediorami si intende la distribuzione delle capacità elettroniche per la diffusione delle informazioni di cui dispongono i «centri di interesse pubblici e privati» e alle immagini del mondo che questi centri producono. Ai loro spettatori i centri offrono complessi «repertori di immagini, narrazioni ed etnorami in cui si mescolano profondamente il mondo delle merci e quello delle notizie e della politica» (2001 [1996], p. 55). Gli spettatori ricevono immagini di porzioni di realtà a cui possono attingere e attraverso di esse costituire «narrazioni dell’Altro» e di vite possibili: «fantasie che possono divenire premesse al desiderio di acquisizione e di movimento». Gli ideorami come i mediorami sono «concatenazioni di immagini» ma solitamente sono panorami politici e si collegano alle «ideologie degli stati e alle controideologie dei movimenti». Appadurai parla anche di «diaspora» delle idee, delle immagini e dei termini degli ideorami, tra cui quello fondamentale di «democrazia»; questi hanno “viaggiato” nel mondo perdendo la coerenza che avevano nella «grande narrativa euro-americana». Infatti, in virtù delle diverse «narrazioni politiche che regolano la comunicazione tra élites e masse», questi termini sono soggetti a differenti traduzioni semantiche ed hanno altrettante diverse conseguenze pragmatiche, in ragione delle «convenzioni contestuali che mediano la loro traduzione nella politica pubblica» (Appadurai A. 2001 [1996], p. 56).

immaginare nuovi mondi. Ed è a questo livello dell’incontro tra gruppi che si sviluppa la battaglia culturale e politica per la definizione della realtà del quartiere.

Se è possibile immaginare nuovi mondi nel corso dei contatti con questi gruppi, il quartiere di Piazza Vittorio assume una valenza simbolica, che è nella sua capacità di sintesi di realtà distanti e ordinate in immagini poi utilizzabili per ordinare la realtà contingente e trascenderla immaginando non solo altri mondi ma anche gli scenari futuri della città.

Questo luogo è un simbolo riconosciuto sia da chi ci abita che da chi frequenta la piazza e da chi la immagina a distanza grazie alle cronache dei giornali. Lo hanno confermato alcuni dei miei intervistati venuti per la prima volta a Piazza Vittorio in occasione della festa “interculturale” che ho osservato nel maggio 2006 («Intermundia. La festa dell’intercultura»). Per loro questo spazio rappresenta «il cuore multietnico» di Roma. La definizione di Piazza Vittorio in quanto «simbolo di multietnicità», nel momento festivo diviene concreatamente esperibile, poiché il luogo è istituito come “centro” del quartiere, del Rione e della città multietnica e multiculturale, permettendo ai soggetti di stabilire confini e orientarsi in essi. La piazza non è più spaesante e i partecipanti alla festa ci si possono appaesare grazie a orizzonti di significato nuovi, elaborati su un piano “interculturale”. Nella piazza viene fissato quel centro di cui si indicano «simbolicamente, i confini; si può cioè trasformare una terra ignota e pericolosa in un territorio familiare, percorribile senza rischio» (Signorelli A. 1996, p. 35), ma sempre e comunque relativamente a un progetto comunitario.

Per il momento ho anticipato alcune questioni fondamentali per il mio lavoro, come l’immaginazione e il rapporto delle rappresentazioni (discorsi) con il potere e, infine, la necessità di un nuovo simbolismo per orientarsi nel mondo che ci circonda. Questi argomenti saranno ripresi più dettagliatamente nei capitoli successivi e nell’analisi dei dati etnografici. Con il prossimo paragrafo, descrivendo gli interventi e le strategie dell’amministrazione in risposta alle nuove esigenze dei cittadini del Rione Esquilino e del quartiere di Piazza Vittorio, tenterò di tratteggiare l’orientamento generale della Giunta di Veltroni rispetto alla città globalizzata.

2.3 Strategie del Comune per la riqualificazione del “cuore multietnico di Roma”