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Fuori e dentro la festa. Stand dei partiti, volantini e discorsi

Appendice 2. Il mercato rionale

3.7 Fuori e dentro la festa. Stand dei partiti, volantini e discorsi

Il furto dei due bambini rom era l’evidente dimostrazione che la questione insicurezza all’Esquilino non era inventata dai partiti che contestavano l’operato della giunta Veltroni. Il senso di insicurezza percepito dai residenti era un problema reale. Lo scoppio di una bombola abbandonata dai bengalesi sotto i portici della piazza dopo la loro festa di capodanno, peggiorò la situazione. L’assessorato ne era consapevole e per tranquillizzare i residenti fece distribuire nei condomini del quartiere un volantino che annunciava il prossimo inizio di Intermundia.

Tuttavia, durante tutta la settimana di festa, i candidati dei partiti all’opposizione, impegnati nella loro campagna elettorale a Piazza Vittorio, fecero leva sul tema della “insicurezza” e della presenza di stranieri, che per loro e per molti residenti erano in stretta connessione. Questo era il nodo centrale da cui partire per risolvere i problemi dell’Esquilino. La manifestazione di AN fu un evento singolo che caratterizzò poche ore del quarto giorno di festa, ma i discorsi del candidato UDC e dei suoi sostenitori, il suo stand, i suoi volantini, la bacheca con affissi articoli di giornale, erano elementi la cui presenza era costante. Ciò ricordava ed evidenziava ai residenti e a chiunque entrava nei giardini i problemi di degrado e sicurezza del quartiere, addebitandoli esclusivamente alla presenza di stranieri. Lo stand dell’UDC era solitamente frequentato da un gruppo di una decina di anziani, accolti con tutte le cure che si riservano agli ospiti importanti. Venivano fatti sedere e i sostenitori del candidato UDC gli offrivano da bere. Il candidato Caratelli li andava a trovare e ci parlava a lungo, prima di allontanarsi, come ogni giorno, per andare a gridare da un megafono le sue denunce sotto i portici della Piazza («Basta! Ci sono negozi tutti uguali. Vendono all’ingrosso e non possono farlo»).106 Una mattina decisi di fotografare lo stand e la bacheca e, di lì a poco, mi vennero incontro due suoi giovani sostenitori, che Caratelli aveva appositamente inviato per domandarmi del mio particolare interesse a quello che facevano nel suo stand. Ai due dissi della mia ricerca e loro ne furono entusiasti, perché dicevano: «Finalmente! Qualcuno dell’Università che apre gli occhi!». E aggiunsero: «Dobbiamo ridare il quartiere agli italiani cattolici!».107

106 Si riferiva al commercio cinese nel Rione e in particolare nel quartiere di Piazza Vittorio.

107 Uno dei due abitava in uno dei palazzi della piazza e dalla sua finestra, ogni giorno, sventolava una bandiera con il simbolo del partito e la foto di Caratelli.

Nelle prime ore del pomeriggio del terzo giorno, mentre raccoglievo i materiali dagli stand dei partiti intorno ai giardini, sentii le urla del candidato Caratelli provenire da sotto il portico sul marciapiede opposto ai Magazzini Allo Statuto (MAS). Decisi allora di filmarlo.108 In mezzo alla folla di immigrati, anziani, studenti e qualche clochard che attraversava i portici fermandosi ad osservare i banchi degli ambulanti (gestiti da bengalesi), Caratelli gridava: «Il fenomeno sta degenerando, i negozi classici, tradizionali, stanno chiudendo». Nessuno dei passanti sembrò farci caso.

Nonostante Caratelli denunci il commercio illegale, la vendita di prodotti contraffatti e la presenza degli immigrati clandestini, le transazioni tra ambulanti e clienti immigrati e italiani continuano. Indifferenti alle parole del candidato UDC, gli scambi vengono portati a termine. (Nota di campo, 17 maggio 2006).

La festa non venne mai chiamata in causa da parte del candidato, ma vidi diverse volte uno dei suoi sostenitori passeggiare per i giardini. L’uomo si guardava intorno con l’aria di chi dovesse raccogliere informazioni per poi riferirle al suo mandante. Un pomeriggio decisi di seguirlo, ma non potevo né fotografarlo né riprenderlo con la telecamera, rischiavo di farmi vedere, e non volevo creare un motivo di attrito che potesse impedirmi di avere informazioni dall’uomo.

Il tizio, invece di passare all’interno della festa, ha girato dietro gli stand per spiare i gruppi di persone che popolavano il prato: c’erano amici che bevevano e chiacchieravano, una povera vecchietta di colore sola con le sue buste, una donna straniera che si faceva fare le treccine da un’amica. A quel punto l’ho raggiunto e gli ho chiesto cosa ne pensava di quello che vedeva e lui mi ha risposto che era tutta una “pagliacciata”. Mi disse: “Guarda come è pulito. Durante l’anno non è mai così. La sinistra se fa vede solo quando ci sono le elezioni”. Gli replicai che anche gli stand dei partiti escono fuori solo quando ci sono le elezioni e lui disse: “Da’ retta a me!”. Intanto, percorrevamo il vialetto alle spalle dello stand dell’assessorato: lui guardava con aria disgustata un immigrato che dormiva su una panchina come anche

108 Dopo qualche minuto mi vide e inviò uno dei suoi collaboratori. Prima che mi raggiungesse attraversai la strada; l’uomo gridò che dovevo dargli il filmato perché non mi avevano autorizzato a farlo, lo ignorai

chi stava semplicemente parlando con gli amici. Bastava che sembrassero stranieri per suscitargli ribrezzo. (Nota di campo, 18 maggio 2006).

Vidi altre volte il sostenitore di Caratelli nei giardini, ma non tentai più di conversarci. Nei miei giri per raccogliere il materiale di propaganda negli stand dei partiti, in quelli dell’Ulivo e dei Verdi vedevo solo uomini e donne che presidiavano lo stand e davano qualche volantino a chi si avvicinava per raccogliere informazioni. La strategia politica dei sostenitori del centro-sinistra consisteva essenzialmente nel negare l’invasione degli immigrati e la loro supposta “appropriazione” del quartiere. Quando andai a prendere allo stand dell’Ulivo i materiali di propaganda, dialogai per pochi minuti con L. Cicconi, candidata del Municipio I, e due uomini. Mi dissero che «Piazza Vittorio è multietnica dalle 8 di mattina alle 20, perché qui il 95% dei residenti resta italiano. Gli immigrati ci stanno solo per lavorare» (Nota di campo, 19 maggio 2006). Una prospettiva diametralmente opposta a quella dei partiti di centro-destra.109

Il pomeriggio del quarto giorno P. Giordani, del CIES, mi disse che sull’insegna dei giardini all’ingresso di S. Maria Maggiore, il lato in cui si trovava lo stand del candidato UDC, era stato affisso un volantino/lettera, con il quale l’autore, un «italiano stanco di subire», denunciava prima lo stato di degrado e il disagio sociale dovuti alla numerosa presenza di immigrati, in particolare cinesi e bengalesi, e poi attaccava esplicitamente l’amministrazione e Intermundia.

Il Sindaco e il Presidente del 1° Municipio, invece di pensare ai cittadini di Piazza Vittorio sfrattati, disoccupati, anziani, malati con pensione da fame, che cosa fa con i nostri soldi? Oltre a finanziare i centri della Caritas, mense, dormitori e associazioni per gli extracomunitari, gli finanzia perfino i spettacoli multietnici, escludendo noi italiani perché siamo considerati una minoranza; è una vergogna e ci hanno perfino diffamati e insultati di essere razzisti e ci hanno detto che siamo noi che dobbiamo andarcene. Cordiali

109 Lo stand di Forza Italia era quello meno attivo. Nella settimana di Intermundia solo una volta lo vidi aperto e in quell’occasione presi il materiale del candidato, ma i giovani che erano lì a presiedere la postazione non si mostrarono disponibili a qualsiasi tipo di dialogo e, da parte mia, non insistetti più di tanto. Allo stand dei Verdi trovai un uomo e una donna, con cui ho avuto una conversazione molto formale e poco significativa. In realtà il loro era un gazebo che la mattina del 19 maggio spostarono all’interno dei giardini. Nonostante lo spostamento non vidi i partecipanti della festa andare a raccogliere materiali informativi (tra l’altro il programma del candidato avrebbero dovuto scaricarlo dal sito web del partito).

saluti da un cittadino italiano stanco di subire. (Estratto dal volantino. Nota di campo, 18 maggio 2006)

Fotografai la lettera/volantino e ripresi a girare per i giardini, dopodiché mi recai allo stand della Consulta, dove era in corso un dibattito. Una relatrice stava leggendo un foglio che qualcuno le aveva appena consegnato, si trattava della lettera/volantino. Lo lesse e rabbiosamente concluse che quello era di un messaggio razzista. A fine incontro, chiesi a Okeadu se poteva darmi il volantino per fotocopiarlo e con il foglio in mano andai allo stand dell’Assessorato. Mostrai il documento alla Gabbrielli che si limitò chiedermi di farle una fotocopia.

Tornai alla Consulta per riconsegnare il materiale e dialogai per qualche minuto con il presidente, che mi spiegò come la comunità cinese si insediò nel quartiere di Piazza Vittorio dove lui aveva abitato per sette anni. Secondo Okeadu, i cinesi approfittarono di un momento economico sfavorevole per gli italiani, per cui le loro acquisizioni dei negozi e delle abitazioni non avevano alcunché di illegale, anzi, per lui l’integrazione e la multietnicità erano anche questo.

Altri volantini circolarono per i giardini. Molti erano di propaganda politica, altri annunciavano le programmazioni di alcune associazioni (tra cui la visione di alcuni film sul colonialismo italiano). L’ultimo giorno, quando finirono tutti gli spettacoli, mi recai allo stand dell’assessorato per salutare tutte le dipendenti e ringraziarle della collaborazione; una di loro mi diede la copia di un altro volantino, lasciato anche quella volta affisso a uno degli ingressi dei giardini. La calligrafia era di un adulto, un genitore che a nome del figlio scrisse:

Caro Intermundia, perché vi fermate sempre così poco? Mi diverto tanto con voi! Caro uomo della musica e le storie dall’India: mi dispiace che – adesso

– devo andare in Campania, un saluto e ciao-ciao, sono Leonardo. (Nota di campo, 20 maggio 2006).

Sembrava una lettere scritta appositamente per rispondere alla lettera/volantino raccolta due giorni prima.

Capitolo IV

La comunità multietnica e solidale

Durante le giornate di festa ho intervistato 40 persone di varia origine, età, sesso e stato civile. In questo capitolo descriverò il contenuto delle interviste in modo da offrire un quadro indicativo delle opinioni del pubblico sulla festa. L’obbiettivo era quello di verificare le seguenti ipotesi: se Intermundia fosse capace di rappresentare e diffondere l’ideale di società migliore definito secondo il progetto politico del Sindaco Veltroni e se, una volta raggiunto tale obbiettivo, l’amministrazione ottenesse consenso politico. Questo ideale è contenuto nell’immagine di una comunità multietnica e solidale che i partecipanti di Intermundia avrebbero dovuto condividere. A tale scopo, la festa doveva proiettare una definizione della realtà che consentisse di immaginare collettivamente la comunità multietnica e solidale. Questa proiezione sarebbe stata possibile in quanto l’autorità politica può ricorrere a simboli di cui manipola i significati nella festa e li definisce in relazione al suo progetto. Il che giustificherebbe un’interpretazione di Intermundia nei termini delle analisi del rituale politico. Se come diceva Durkheim a proposito dei riti, Intermundia ha suscitato nei suoi partecipanti un senso di coesione e solidarietà, a partire dalla condivisione dei suoi scopi, al suo interno era possibile che l’ideale di società migliore dell’autorità politica potesse essere collettivamente immaginato. Questo immaginare era pratica sociale (Appadurai A. 2001 [1996]; 2002). Dunque, il progetto politico poteva divenire progetto comunitario e nell’evento si poteva produrre una nuova utilizzabilità del domestico (de Martino E. 2002 [19771]; Signorelli A. 2000), capace di garantire l’esserci nel tempo festivo; ma fuori della festa dell’intercultura? Ciò che è stato immaginato nella festa si è fissato nei partecipanti al punto da rendere possibile nella vita quotidiana quello stesso sentire comune e procedere intersoggettivo vissuto con l’esperienza della comunità multietnica e

solidale? Coloro che hanno partecipato continueranno a sentirsi membri di una comunità che prima della festa può essere solo immaginata?

Prima di procedere è bene che fin da subito chiarisca l’uso che farò delle categorie “evento pubblico”, “festa” e “rito” (e rituale). È una precisazione necessaria in quanto a ben vedere la festa dell’intercultura ha i caratteri di tutte e tre le categorie e per questo non può essere compresa in una sola di queste.

Intermundia è evento pubblico per il fatto che ad esso possono accedere liberamente tutte le persone, indipendentemente dai ruoli e dagli status che occupano nella vita quotidiana; pertanto, con questa categoria mi riferisco al suo carattere cittadino. Tuttavia, nel corso delle mie osservazioni e delle interviste ho potuto accertare che non tutta la città partecipa o è a conoscenza della festa dell’intercultura a Piazza Vittorio. Su questa mancata partecipazione cittadina oltretutto pesa un fatto fondamentale a parere di tutti gli intervistati: la scarsa opera di pubblicizzazione della festa e la conseguente poca visibilità dell’evento al di fuori dei confini del Rione.110 All’opera di diffusione mediatica sembra sostituirsi solo il “passaparola”111 tra i “professionisti dell’intercultura”, altrimenti solo per chi vive all’interno del Rione Esquilino la festa è conosciuta. Non a caso molti intervistati abitavano, o abitavano fino a qualche tempo prima, nei dintorni del quartiere e per questo già conoscevano l’evento – quella del 2006 era l’ottava edizione della festa che si teneva nei giardini di Piazza Vittorio. Per questo

110 Ricordo che durante la festa quando parlai con la Consulente per l’Intercultura dell’Assessorato venne fuori la questione della pubblicizzazione di Intermundia e mi venne risposto che alcuni organi di stampa avevano parlato dell’evento. In un secondo momento, durante la riunione di resoconto e dibattito delle associazioni con l’Assessorato, nel mese di giugno, di nuovo si parlò della scarsa conoscenza a Roma di Intermundia e quella volta P. Gabbrielli sostenne che forse era meglio così dato che i giardini “Nicola Calipari” non potevano comunque ospitare troppo pubblico. Questi due commenti divergenti sembrano dimostrare che non vi era tra gli organizzatori la consapevolezza che Intermundia potesse costituire uno strumento di produzione del consenso politico. Tuttavia, questa festa faceva parte di un’ampia gamma di eventi, molti istituzionalizzati, proposti dal Comune di Roma alla cittadinanza. In particolare, penso ai cosiddetti eventi multiculturali sparsi per la città: ad esempio la festa dei popoli e alcune “feste etniche” di quartiere, gli spettacoli musicali con band italiane e straniere, i cinema all’aperto in cui si proiettano film “etnici”. La presenza del Comune in ogni caso era sempre ben visibile nei simboli, nei manifesti e, come nel caso di Intermundia, tramite la partecipazione di alcuni suoi rappresentanti nei momenti più importanti di ogni evento. Così, associata alla dimensione più conviviale della vita cittadina e di condivisione di determinati orientamenti culturali, promuovendo l’idea di comunità, l’autorità politica è legittimata dal pubblico a pensare e organizzare la convivenza sociale nell’intero territorio urbano e in ogni suo aspetto.

111 La cui efficacia è evidente negli spettacoli serali che, fondamentalmente, sono organizzati secondo un ordine di apparizione di artisti “rappresentanti” le diverse comunità, che “richiamavano” di volta in volta gruppi consistenti di connazionali ad assistere alle loro performance (ricordo in particolare gli indiani e i bengalesi accorsi allo spettacolo dei fachiri).

non sorprende che solo una persona (straniera) abbia dichiarato di aver appreso la notizia della festa tramite un giornale a diffusione locale.

Oltre che evento, Intermundia è soprattutto una festa, in quanto momento collettivo e complesso (Isambert F.-A., cit. in Segalen M. 2002 [1998], p. 84) che rompe con la quotidianità. Un momento reso piacevole dalla possibilità di costruire comunitariamente una realtà migliore ed extraquotidiana. Inoltre, in quella settimana, i giardini Nicola Calipari erano lo spazio in cui si potevano condividere orientamenti culturali, abitudini e nuovi significati, spesso in contraddizione con l’evidenza della realtà quotidiana della Piazza. In questo senso, la festa si configura come evento che contrasta la realtà esterna promuovendo l’immagine di una comunità che, al di fuori dello spazio “Intermundia”, pare difficile immaginare.

La festa dell’intercultura è in ogni caso nettamente diversa dalle feste tradizionali a cui l’intera comunità era chiamata a partecipare e partecipava facendo riferimento a «un quadro teorico sostanzialmente condiviso» (Gallini C. 1981, p. 105) e dato. Come cercherò di mostrare più avanti, la qualità della partecipazione del pubblico dissipa i dubbi sull’uso del termine festa. All’interno di Intermundia si realizza e si osserva una situazione comunitaria, che di fatto è possibile sulla base di una condivisione di nomi e cose tra tutti i partecipanti che è emersa nel momento di definire la realtà, fermo restando che vi era chi dissentiva dai significati profondi della festa. In breve, come le «feste nuove», teorizzate da C. Gallini in un saggio di diversi anni fa, Intermundia è «un (e non il) momento di ricerca di raggiungimento di un’unità [] mai totale» (ibidem, p. 107), ma, come nelle feste tradizionali, il suo pubblico può immaginarsi come unità sociale, poiché attraverso i simboli condivide i significati proposti dalla macchina organizzativa (associazioni e enti). Tuttavia, non è comunità data, non è Gemeinshaft (ibidem, p. 107). Per cui, come l’antropologa citata, preferisco attribuire alla categoria festa un senso ampio, potendo così utilizzarla come strumento che classifica fenomeni simili ma che ne rende possibile la comparazione.

Infine, a Intermundia, come si è visto, vi sono momenti rituali (pratiche ripetute, standardizzate e codificate) in cui l’uso di un determinato simbolismo, il cui significato deriva dalla definizione della realtà data dall’autorità politica nel corso della festa, garantisce a ogni partecipante la possibilità di dare ordine e senso al reale. È proprio

questa possibilità che frutta a colui che l’ha concessa il riconoscimento e il consenso del pubblico.