1.2 L’insediamento degli immigrati nell’Esquilino
1.2.1 La questione dell’alloggio e l’intervento dell’amministrazione comunale
Negli anni ’90 il Comune di Roma non era preparato alla gestione delle ondate di flussi di immigrati che arrivarono in città e tanto meno alla soluzione delle problematiche che avrebbero prodotto. D’altronde, fino ad allora, le giunte comunali non si erano mai dovute confrontare con una vera e propria questione immigrazione. Gli immigrati arrivati nel Rione Esquilino erano soggetti deboli economicamente e molti di loro spesso erano costretti a procurarsi sistemazioni precarie dove alloggiare.
L’assenza di una pianificazione di misure di accoglienza da parte delle diverse giunte comunali contribuì a spingere sempre più immigrati senza casa a trovare riparo in luoghi pubblici come i giardini di Piazza Vittorio e intorno alla stazione Termini o ad occupare fabbricati abbandonati.
L’aumento costante della popolazione immigrata con grandi difficoltà di accesso all’alloggio ha posto l’amministrazione di fronte alla questione abitativa, che già riguardava gli strati più poveri della popolazione autoctona. Come segnalato da F. Di
24 Consultabile all’indirizzo web: http://www.repubblica.it/2007/03/sezioni/cronaca/immigrazione/lettera-alam/lettera-alam.html
Luzio, solitamente la strategia di intervento del Comune è consistita nell’offrire soluzioni d’urgenza, che si affiancavano a una tendenza assistenzialista delle associazioni di matrice cattolica impegnate nell’assistenza ai più deboli. Ciò ha comportato per lo più ingenti costi e soluzioni di portata limitata nel tempo. È mancata una progettazione di interventi mirati a offrire soluzioni di lungo termine, anche dal punto di vista delle strutture e dei servizi; non a caso, la costituzione di centri di accoglienza pronti ad ospitare gli immigrati più poveri è iniziata ben oltre l’arrivo dei primi flussi di popolazioni (Di Luzio F. 2006, p. 42-43). Cosicché, molti degli stranieri extracomunitari privi di alloggio, spesso in condizioni di clandestinità, nei primi anni ’90 allestirono sistemazioni di fortuna nelle aree della Stazione Termini e di Piazza Vittorio negli edifici abbandonati come quello della ex Centrale del Latte e quello dell’ex pastificio della Pantanella;25 residenze precarie che erano limitrofe a centri di assistenza come la mensa della Caritas, al cui interno era stato allestito un centro medico.
Nel giugno del 1990 i giardini di piazza Vittorio furono chiusi a tempo indeterminato per “necessaria bonifica”, con la promessa che sarebbero stati riaperti dopo la ristrutturazione dei servizi igienici e, soprattutto, dopo aver trovato una soluzione al problema degli alloggi di centinaia di immigrati (F. Di Luzio 2006, p. 43).
Da una parte il degrado urbano e dall’altra parte l’emersione dirompente del disagio sociale, produssero un clima di tensione di fronte al quale le prime misure adottate dall’amministrazione furono gli sgomberi forzati dei fabbricati occupati, con i quali, però, si ottenne solo l’effetto di una dispersione nel territorio degli immigrati più disagiati (Vidotto V. 2006, p. 392).
In particolare, l’assenza di una progettazione nell’attuazione degli interventi per la gestione del fenomeno immigrazione ha comportato una scarsa valutazione degli effetti di questo genere di azioni drastiche. P. Mudu ricorda che nel 1990 l’occupazione dell’ex pastificio della Pantanella, abbandonato da anni, fu il risultato di «una serie di sgomberi effettuati nel Centro storico, in occasione dei mondiali di calcio, di senza fissa dimora,
in gran parte pakistani, bengalesi ed indiani» (2003, p. 647).26 Si trattava di un edificio ai margini del Rione Esquilino, all’inizio della Casilina Vecchia, che era stato abbandonato da decenni, qui trovarono riparo giovani immigrati tra i 18 e i 39 anni (Di Luzio F. 2006, p. 44), con una formazione scolastica di medio livello, costretti a vivere privi di qualsiasi forma di servizio igienico, di luce e di acqua. Parte degli occupanti era composta, scrive Mudu, da 1.370 bengalesi, con regolare permesso di soggiorno, che dopo lo sgombero, nel gennaio del 1991, spostarono la loro residenza e il luogo di lavoro nell’Esquilino, intorno a Piazza Vittorio. L’assessore ai Servizi Sociali Azzaro (giunta Carraro) dovendo trovare un alloggio alternativo alle circa duemila persone fatte sgomberare e non riuscendo ad allestire i cinque centri di accoglienza che aveva promesso, decise di rinnovare le convenzioni in scadenza con gli alberghi che ospitavano gli immigrati e così facendo non fece altro che rimandare la soluzione del problema. Per di più, ricorda Di Luzio, queste stesse strutture specularono sulle convenzioni dichiarando più ospiti di quanti in realtà ce ne fossero (Di Luzio F. 2006, p. 46).
Lo sgombero della ex Pantanella non è l’unico esempio. Negli stessi anni anche lo stabilimento dell’ex Centrale del Latte, vicino a Piazza Vittorio, venne occupato e poi fatto sgomberare nel novembre del 1992 (poi trasformato nel 1994 in un parcheggio).27
In seguito a questi sgomberi le uniche soluzioni proposte furono quelle di allestire dei centri di accoglienza, che garantivano alloggio e servizi igienici solo per alcuni mesi. Anche in questi casi la gestione delle convenzioni e dei finanziamenti elargiti fu molto discussa, poiché soggetta a frodi da parte dei gestori delle strutture di accoglienza sul numero degli immigrati assistiti in base al quale ricevevano i fondi dal Comune.
A dimostrazione dell’inefficacia delle azioni dell’amministrazione comunale rivolte alla risoluzione della questione degli alloggi, negli anni successivi sono continuate le occupazioni di fabbricati abbandonati. L’esempio più recente è quello del fabbricato di via Giolitti, la “Casa dei diritti negati”, occupato e sgomberato il 10 maggio 2006. Quel giorno Peppe Mariani, consigliere regionale dei Verdi Ambiente e Lavoro, affermò.
26 Mudu scrive anche che l’occupazione venne supportata dalla Casa dei Diritti Sociali, un’associazione che ha sede proprio nel quartiere di Piazza Vittorio.
27 Ricordo anche che in una palazzina di via Napoleone III alcuni cittadini italiani, mai fatti sgomberare, hanno occupato i locali e fondato “Casa Pound”.
Alla famiglia italiana e a quelle eritree, etiopi, sudamericane che oggi sono state sgombrate da via Giolitti deve essere assicurato un futuro che rispetti la dignità umana. È proprio per le mancate risposte all'emergenza abitativa che vengono occupati edifici abbandonati. (http://ww2.carta.org/notizieinmovimentolazio/articles/art_7048.html).
Vi abitavano famiglie che tentavano di sfuggire alle logiche delle rendite da affitti dei proprietari di case della zona, che costringono molti immigrati ad abitare in appartamenti sovraffollati per cui pagano affitti spropositati. In seguito allo sgombero, l’associazione Dhuumcatu ha organizzato una manifestazione per il diritto alla casa e al permesso di soggiorno che si è svolta il 14 maggio 2006 e ha mobilitato molti bengalesi, ma anche italiani, che hanno marciato da Piazza della Repubblica fino a Piazza Vittorio.
L’intervento di Nure Alam Siddique Bachcu, presidente dell’associazione Dhuumcatu e dell’Associazione Bangladesh in Italia, alla manifestazione del 14 maggio 2006.
Una volta radunati i manifestanti e fatti sedere sulla strada, i leader dell’associazione e alcuni sostenitori, anche italiani, hanno preso la parola ed hanno iniziato a denunciare le contraddizioni tra le politiche del Comune e quanto il sindaco professava. Al racconto delle precarie condizioni di vita di molti seguiva la rivendicazione del diritto alla casa e alla regolarizzazione degli immigrati come prima soluzione dei loro problemi.
Tutti si lamentano dello sgombero di via Giolitti. Un membro dell’associazione al microfono ha detto: «Achille Serra, il prefetto di Roma, è di destra e insieme a Veltroni, ha fatto lo sgombero». […] Protestano contro il nuovo governo perché ne fanno parte gli stessi che hanno redatto la Turco-Napolitano, che a loro giudizio discrimina l’immigrato. Contestano Prodi perché invece di voler invalidare la Bossi-Fini ha affermato che è una legge che ha solo bisogno di alcune rettifiche. Intanto, Bachcu, il presidente dell’associazione Dhummcatu, sta girando con una scatola per raccogliere offerte dai partecipanti a sostegno della loro «lotta». Poi, ha ripreso il
megafono e ha chiuso la manifestazione dicendo «siamo soli e soli continueremo la nostra lotta… grazie compagni». (Nota di campo, 14 maggio 2006).
Proprio dove si erano fermati i manifestanti, vi è un negozio di fiori da cui è uscita la titolare, italiana, che ha iniziato a inveire contro gli immigrati, per ritrovarsi a litigare con altri manifestanti italiani. Calmatesi le acque con l’arrivo di un carabiniere, un gruppo di uomini italiani tra i 50 e i 60 (solo uno sembrava non superare i 40 anni), probabilmente amici della titolare del negozio di fiori, insieme alla donna si sono messi a deridere i manifestanti. Il paradosso di questa vicenda è che nel negozio della donna c’erano due commessi indiani o bengalesi che vendevano i fiori. La fioraia continuava a lamentarsi e per tutta risposta alle rivendicazioni urlate al microfono dai leader dell’associazione diceva che «ai diritti degli italiani non si pensa, solo a quelli degli immigrati».
Un ragazzo dice che è vero che sono sfruttati dal datore, ma si domandava perché “non sono andati a manifestare dal sindaco, seduti per terra a mangia’ come fanno al paese loro!”, “Qui – dice uno riferendosi a p.za Vittorio – non li sente nessuno, rompono i coglioni a noi che stiamo a lavora’ ”. (Nota di campo, 14 maggio 2006).
Le affermazioni di questi italiani non sono solo una testimonianza della persistenza di immagini stereotipe sull’immigrato, ma soprattutto della distanza sociale che esiste tra italiani e immigrati in virtù della diversa appartenenza nazionale: la fioraia italiana non può manifestare per i suoi diritti insieme agli immigrati, perché quelli che lei rivendica sono «diritti degli italiani». Soggetti sociali con orientamenti culturali diversi non possono far convergere le loro rivendicazioni in manifestazioni comuni ed anche in questo è visibile la frammentarietà dei rapporti nella società e la distanza che essa stessa crea tra gli individui.
La precarietà della condizione abitativa degli immigrati è oggetto di ripetute manifestazioni di immigrati, soprattutto bengalesi, a cui molti italiani partecipano ispirati da un sentimento di solidarietà. Una di queste, nel gennaio 2007, fu promossa nuovamente dalla comunità bengalese a seguito di un incidente particolarmente drammatico avvenuto nei pressi di Piazza Vittorio. In via M. Buonarroti, alle spalle
della piazza, la notte del 13 gennaio 2007, un incendio divampato nell’appartamento in cui dormiva una donna bengalese con i suoi due figli, spinse lei con il figlio più piccolo in braccio a gettarsi nel vuoto da una finestra. Dalle cronache dei giornali si venne a sapere che in quella casa abitavano 14 stranieri e una donna italiana, che fu accusata dal figlio superstite della donna bengalese di aver appiccato il fuoco.28
Degrado sociale, sovraffollamento nelle abitazioni (ormai conosciuto come il fenomeno delle case-dormitorio), speculazione sugli affitti da parte dei proprietari italiani, bisogni e rivendicazioni di diritti, tutte questioni riemerse dopo la morte dei due immigrati bengalesi, a cui il sindaco Veltroni ha risposto promettendo assistenza ai familiari delle vittime, con l’intento di abbassare il livello di tensione sociale, innalzato ancor più qualche giorno prima dalle cariche delle forze pubbliche contro i partecipanti alla manifestazione di protesta per l’assenza di una politica per gli alloggi (E Polis Roma 16 gennaio 2007, p. 28).