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I giorni dell’allestimento di Intermundia 2006

Appendice 2. Il mercato rionale

3.2 Prima di arrivare a Intermundia…

3.2.1 I giorni dell’allestimento di Intermundia 2006

A tre giorni dalla festa dell’intercultura sono iniziati i lavori di allestimento degli stand e del palco, affidati alla Scuola di Musica Popolare Donna Olimpia. Pian piano, l’architettura della festa prendeva forma sotto lo sguardo incuriosito dei passanti (spesso turisti) e dei frequentatori dei giardini Nicola Calipari. All’ombra dei platani c’erano gruppi di amici (probabilmente immigrati) che chiacchieravano e bevevano birra, due donne che portavano a passeggio i loro cani e qualche anziano che camminava solo e qualche altro era accompagnato dalla sua “badante filippina”. I passanti mentre attraversavano i giardini guardavano gli stand e in qualche caso sbirciavano di soppiatto tra le fessure delle tende chiuse cercando di capire cosa stesse per accadere nei giardini; altri invece passavano oltre, come se niente stesse succedendo e tutto intorno fosse così com’era sempre stato.

81 Il capodanno bengalese a Piazza Vittorio, mi ha detto poi il giovane studioso, aveva generato del malcontento negli abitanti, poiché gli organizzatori, finita la festa, lasciarono sotto i portici dei palazzi una bombola del gas incustodita che poi scoppiò (ancora oggì è visibile l’ampia macchia nera di bruciato in un angolo del soffitto dei portici). Il fatto, comprensibilmente, impaurì i residenti e scatenò le loro ire.

82 Lo dimostra l’ampia partecipazione alla manifestazione di protesta organizzata dall’associazione il 14 maggio 2006; evento a cui ho già accennato (Cfr. pp. 42-44) e che riprenderò a breve.

Fuori della cancellata dei giardini già erano stati installati i gazebo di alcuni partiti, dove i candidati con i loro sostenitori si erano organizzati per fare propaganda. Non tutti a dir la verità: a metà mattinata lo stand di Forza Italia era chiuso, nessuno era al suo interno e tanto meno all’esterno, c’erano solo le bandiere del partito che sventolavano. Gli altri due stand presenti intorno ai giardini, quello dell’Ulivo e dell’UDC erano aperti: al loro interno erano pieni di volantini, manifesti appesi con le foto dei candidati e i loro programmi. Fuori del gazebo UDC c’erano Caratelli e i suoi sostenitori, mentre all’interno sedevano delle signore anziane, sicuramente residenti del quartiere. Sembrava un incontro tra amici e amiche della zona, che dichiaravano pubblicamente la loro scelta politica presiedendo lo stand, ma non tentavano di fare proseliti avvicinando i passanti.

Lo stand dell’Ulivo era sotto il sole e forse per questo era poco frequentato: c’era solo un uomo, seduto dietro a un tavolo e intento a leggere dei fogli, circondato da materiali e ciclostilati per la propaganda elettorale. Sulle pareti esterne dello stand erano appesi i manifesti dei candidati (Costa

al consiglio comunale e Cicconi al Municipio) insieme a un poster con cui si annunciava la “Festa del tesseramento. Democratici di sinistra”, con la partecipazione dei candidati e di intrattenitori musicali, per il 15 maggio 2006, proprio il primo giorno di Intermundia, a Piazza Dante

(vicino ai giardini Nicola Calipari). Sugli angoli alti del gazebo sventolavano da una parte la bandiera del PDS e dall’altra quella dell’Ulivo, mentre all’interno era stata appesa l’ormai famosa bandiera della “Pace”, la stessa che era stata appesa a tutte le finestre del palazzo di fronte, nella sede della CGIL, riconoscibile dalla bandiera del sindacato che sventolava da un balcone. Con la contemporanea presenza di queste bandiere e di postazioni di sinistra, il lato a sud-ovest di Piazza Vittorio dava un immagine di sé “politicamente uniforme”, disturbata dallo sventolio di un’altra

bandiera, quella del candidato UDC, da una finestra in cima allo stesso palazzo del sindacato.

Nelle vie limitrofe, sui cassonetti dell’immondizia, nelle bacheche pubbliche e sui muri si alternavano i manifesti dei diversi candidati. Come durante ogni campagna elettorale vi era una lotta continua per l’accaparramento degli spazi dove affiggere i poster con i simboli, gli slogan e i nomi dei candidati delle diverse liste. Così c’era chi affiggeva sui cassonetti e sulle barriere di un cantiere manifesti elettorali sopra altri manifesti elettorali, nascondendo agli elettori i messaggi e le immagini degli avversari del proprio partito.

Nei giorni dell’allestimento della festa diverse volte ho girato intorno alla piazza e, di contro a questo continuo muoversi per le vie degli attacchini, a volte visibile, altre meno (molti affiggevano manifesti di notte), non ho mai visto i candidati o i loro sostenitori uscire dal perimetro dell’area più prossima allo stand per andare a fare propaganda nel quartiere, anche semplicemente per invitare i passanti ad avvicinarsi e informarsi sul loro programma elettorale.

Per il resto la vita della piazza era la stessa dei giorni lontani da

Intermundia. C’erano le solite bancarelle gestite da bengalesi, che trattavano merci di vario genere (abbigliamento, utensili per la casa e altro), dove si servivano clienti italiani e stranieri; altri consumatori uscivano ed entravano dai negozi, mentre dall’altra parte della piazza, come ogni giorno, un gran numero di persone si era assiepato alla fermata in attesa del tram (c’erano studenti e donne e uomini, italiani e immigrati, con le buste cariche della spesa appena fatta al nuovo mercato rionale).

Questo era quello che vedevo in quei giorni, ma non solo. Sabato 13 maggio, secondo giorno di allestimento, sono entrato in contatto con due giovani italiani, che erano i responsabili dell’allestimento di Intermundia; entrambi erano allievi della Scuola di Musica Popolare Donna Olimpia. Stavano seduti sul palco centrale e sorseggiavano della birra, mi sono presentato e gli ho raccontato per sommi capi della mia ricerca. Di lì si è avviato un breve confronto.

Entrambi avevano lavorato anche nelle scorse edizioni della festa e insieme a due ragazzi della sicurezza avevano l’incarico di presidiare i giardini e di far defluire il pubblico alla chiusura di ogni giornata. Proprio per questo avevano avuto modo di vedere «cose strane: gente ubriaca, gente che si droga, prostituzione» e anche delle risse. Uno di loro mi diceva che per queste ragioni «non avrebbe mai mandato i suoi figli a giocare nei giardini di Piazza Vittorio». Pur confermando quanto aveva raccontato, il suo collega non la pensava allo stesso modo.

Quest’ultimo a proposito della festa ha aggiunto che «la gente del quartiere non è per niente contenta che Intermundia si svolga nei giardini, perché quelli sono i loro spazi e l’organizzazione li invade privando il cittadino della libertà di fare quello che vuole». Però, lui stesso si diceva favorevolmente sorpreso di come Piazza Vittorio nei giorni di festa gli ricordasse Londra vedendo «tanti ragazzi e ragazze di diversa origine giocare e chiacchierare insieme» (Diario di campo, 13 maggio 2006). Visti i racconti che mi avevano fatto sulle scorse edizioni della festa, chiesi a entrambi se potevo restare nei giardini ogni sera finché tutte le persone non fossero uscite e loro acconsentirono immediatamente.

Il pomeriggio di domenica 14 maggio l’allestimento di Intermundia era quasi finito. La piazza era gremita di gente di ogni età e nazionalità, ogni gruppo aveva trovato il suo spazio per chiacchierare e giocare. Erano arrivate anche le prime associazioni, per cui ho iniziato ad allacciare i primi contatti con i loro membri mentre attrezzavano gli stand che gli erano stati assegnati dall’organizzazione. In realtà, non ci furono dialoghi veri e propri, tutti erano particolarmente indaffarati e l’unica cosa che sono riuscito a rilevare era il malcontento diffuso per il poco tempo che l’assessorato gli aveva dato per portare il loro materiale negli stand e prepararsi all’intenso lavoro che li aspettava a partire dal giorno dopo.

Il fatto rilevante di quella giornata fu poi la manifestazione della comunità bengalese. Era pomeriggio inoltrato e stavo uscendo dai giardini dal lato di S. Maria Maggiore, quando mi sono trovato di fronte a un corteo che, scortato dalla polizia, si avvicinava rapidamente a Piazza Vittorio facendo un gran baccano.

In testa c’era il carro con alcune personalità bengalesi, figure di spicco nella comunità, membri dell’associazione Dhummcatu e di altre associazioni invitate dagli

organizzatori della

manifestazione. Il veicolo era attrezzato con delle casse per diffondere la voce del leader

bengalese Bachcu, che gli camminava a fianco. Dietro una gran massa di persone, che riempiva quasi interamente via Carlo Alberto.

La maggior parte dei manifestanti era di provenienza bengalese, ma vedevo anche molti italiani e giovani famiglie. La lunga fila procedeva in ordine e qualcuno salutava i conoscenti che erano tra il piccolo pubblico formatosi sotto i portici e sul marciapiede fuori i giardini. La fila si è poi divisa in due lati per lasciare il centro a uno striscione rosso, i manifestanti cantavano slogan in italiano e bengalese, mentre battevano le mani. Subito dopo, un bengalese con il megafono urlava «Noi vogliamo il permesso di soggiorno» a cui rispondeva il coro dei manifestanti con «Subito! Subito!». Poco più dietro veniva portato da bengalesi e italiani uno striscione con su scritto «Destra o

La “scorta” dei Bengalesi

Sinistra la repressione è la stessa. No agli sgomberi!». Poi, decine di uomini con cartelli per rivendicare il diritto al permesso di soggiorno.

Fatto il giro della piazza i manifestanti si sono seduti ordinatamente in mezzo alla strada, per «presentare la nostra disciplina a questa società», pronti ad ascoltare gli interventi dei rappresentanti, uomini e donne di alcune associazioni, anche italiane. Bachcu, il leader, ha quindi ricordato a tutti i motivi della loro manifestazione: la richiesta del permesso di soggiorno e di una nuova sanatoria, la possibilità di ricongiungimento familiare anche con i figli adulti, il riconoscimento della cittadinanza italiana ai figli di bengalesi nati in Italia (ha detto: «Studiano nella scuola italiana, imparano l’italiano, crescono nella società italiana con cultura italiana!») e, infine, la denuncia dello sfruttamento del lavoro nero e del razzismo. Ad ogni punto elencato il pubblico rispondeva con applausi e ovazioni e così è stato per ogni intervento, anche se all’arrivo di uno dei candidati alla consulta del Municipio si è sollevata qualche protesta (note dai video girati il 14 maggio 2006 a Piazza Vittorio).

Questo attimo di tensione, che senza l’ausilio delle videoriprese probabilmente non avrei neanche segnalato, non lasciò alcuna traccia nello svolgimento della manifestazione. Quello che invece mi colpì fu il litigio tra un manifestante italiano e la proprietaria italiana di uno dei chioschi di fiori della piazza, dove peraltro lavorano dei bengalesi. La donna si lamentava veementemente della manifestazione, l’uomo l’ha sentita e ha iniziato a rimproverarla. Il litigio è stato poi sedato dall’arrivo di un carabiniere, che ha separato i due litiganti, ma ben presto è riaffiorato il nervosismo della fioraia. La donna protestava e inveiva contro i manifestanti, deridendo anche le ragioni della manifestazione, sostenuta da alcuni amici italiani seduti sul ciglio del marciapiede a ridosso del chiosco. Le loro frasi sembravano cariche di disprezzo.

Se per il leader dei manifestanti lo stare seduti per terra all’ascolto, in maniera ordinata e «tranquillo», era una dimostrazione di civiltà, per la fioraia e il suo gruppetto quel modo di stare nella manifestazione aveva un significato opposto, che convalidava ai loro occhi l’immagine degli immigrati poveri e incivili. Così, il più giovane degli amici della donna italiana disse con disprezzo che i bengalesi dovevano andare a manifestare dal sindaco «seduti per terra a mangia’, come fanno al paese loro!» e non stare lì a

«rompere i coglioni a noi che stamo a lavora’» (Note di campo, 14 maggio 2006; corsivo mio).83