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La (dura) vita del freelance

La crisi del giornalismo professionale

3.4 La (dura) vita del freelance

Oltre alla crisi fisiologica della stampa dovuta all’avvento delle nuove tecnologie e a nuovi processi di relazione e comunicazione, il giornalismo professionale deve fare i conti anche con la crisi economica che rischia di frammentare dall’interno l’identità dei professionisti dell’informazione. Come ogni professione, anche quella giornalistica è caratterizzata dalla distinzione tra lavoratori dipendenti e autonomi, anche detti liberi professionisti, con la differenza che in quest’ultima circostanza vengono definiti freelance. L’etimologia della parola è evocativa: freelance significa letteralmente “lance libere”, il che rimanda a un’idea di indipendenza e autonomia rispetto a un potere o, in questo caso, a un datore di lavoro. Il giornalista freelance è, infatti, tale quando è sprovvisto di un contratto di lavoro subordinato, a tempo determinato o indeterminato che sia, che lo lega stabilmente a un’impresa editrice presso la quale svolge prestazioni concordate in cambio di un corrispettivo in denaro. Il lavoratore autonomo si muove su un piano di assoluta indipendenza circa la scelta dell’argomento da trattare, il metodo investigativo da seguire, le fonti da contattare, il corrispettivo da chiedere per la realizzazione e la vendita del servizio e, soprattutto, dell’editore a cui proporlo. Questa particolare condizione di libertà e autogestione, come intuibile, presenta vantaggi e svantaggi. Tra i primi si annoverano l’assoluta discrezionalità nell’organizzazione del lavoro, una maggiore possibilità di specializzazione professionale e di una ‘riconoscibilità’ esterna; tra i secondi, una minore certezza e continuità del ritorno economico, unita a minori garanzie sul piano lavorativo. È indubbio, comunque, che in contesti geografici in cui la crisi non ha compromesso radicalmente le potenzialità di sviluppo di un settore economico, come quello dell’informazione, e di un’intera professione, la scelta di intraprendere la strada del freelancing rispecchi una mission di alto prestigio sociale: non a caso, negli Stati Uniti, i giornalisti freelance sono normalmente quelli più autorevoli e popolari.

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Questo perché in certi ambiti non si può scegliere la libertà se non si è sicuri di poterla mantenere. Il freelancing viene, infatti, percepito come un traguardo da conquistare al termine di una lunga gavetta e una volta che si ha una firma da poter “spendere” sul mercato.

Il paradosso si crea quando il freelancing smette di essere una scelta consapevole e diventa una costrizione dovuta a cortocircuiti del sistema economico. È quello che succede, ad esempio, in Italia, dove l’esercito di lavoratori autonomi nel settore dell’informazione nasconde i fantasmi della precarietà e della disoccupazione. Il lavoratore autonomo, in qualità di collaboratore, non è più la figura autorevole che fa riferimento ad uno o più giornali scambiando con questi occasionali prestazioni di lavoro ma è, nella maggioranza dei casi, un vero e proprio dipendente che svolge le tipiche mansioni di un redattore, con la differenza di non poter avvalersi delle garanzie riservate loro in funzione della rappresentanza sindacale di categoria. Stando al settimo rapporto su Libertà di stampa e diritto all’informazione (LSDI199) redatto da Pino Rea200, in Italia esiste un divario crescente tra giornalisti dipendenti e autonomi. I primi registrano un reddito medio 4, 5 volte superiore rispetto ai liberi professionisti mentre otto freelance su dieci dichiarano un guadagno netto inferiore ai 10.000 euro l’anno. La forbice tra i due schieramenti negli ultimi anni è andata allargandosi: all’arresto delle iscrizioni annuali dei lavoratori dipendenti al relativo ente previdenziale (INPGI) si è avuto un aumento del numero dei lavoratori autonomi che, a fine 2015, hanno raggiunto il 65,5% rispetto al totale degli impiegati nel settore.

Per quanto riguarda la categoria di iscrizione presso l’Albo, i professionisti sono lievemente saliti, toccando il 35,7% dei lavoratori autonomi (erano il 35% nel 2014 e il 34,7% nel 2013), contro il 62,7% dei pubblicisti (erano il

199 Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito www.lsdi.it

200 Il testo integrale del report è consultabile online all’indirizzo: http://www.lsdi.it/assets/Rapporto-lsdi-2016-LSDI-Pino-Rea.pdf

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63,4% nel 2014 e il 63,7% nel 2012), mentre i praticanti sono fermi all’ 1,3% (come nel 2014).

Secondo Carlo Bartoli, questa trasformazione del panorama occupazionale dell’informazione è dovuto soprattutto al passaggio dal giornalismo classico della carta stampata e delle agenzie di stampa e della radio ai “giornalismi”: “la legge 47/48 parla solo di stampati; la legge istitutiva dell’Ordine nel 1963 riconosce già tre tipologie di giornalismo: carta stampata, radio, televisione. Una quarta forma di giornalismo è quella dei cosiddetti Tco (telecineoperatori). A cavallo del nuovo secolo altre tre figure vengono, sia pure in forme diverse, definite e riconosciute: il lavoro nelle testate online, il teleradiogiornalista nelle testate non nazionali e il giornalista negli uffici stampa. Con uno degli ultimi rinnovi contrattuali è stata introdotta la figura del giornalista multimediale che può lavorare su più piattaforme” 201. Al netto della varietà dei profili professionali via via emergenti, la tutela lavorativa e la rappresentanza della categoria rimangono ancorate ai classici schemi e alle vecchie istituzioni. Il contratto collettivo nazionale applicabile a tutti gli iscritti all’Albo e aventi un vincolo di subordinazione con una testata giornalistica è ancora quello stipulato tra FNSI e FIEG nel 1959 e via via rinnovato, che, in deroga alla regola che vuole applicabili i contratti collettivi solo ai membri dell’organizzazione stipulante, è stato esteso erga omnes in forza del DPR 16 gennaio 1959 n. 153202. Ne consegue che tutta la normativa contenuta in quel contratto continua ad avere efficacia di legge e, quindi, deve trovare applicazione in qualsiasi azienda editoriale e nei confronti di qualunque giornalista dipendente.

Per risolvere la lacuna legislativa circa la regolamentazione del lavoro giornalistico autonomo rimessa alla mera disciplina generale, il legislatore è intervenuto con la l. n. 233/12 sull’equo compenso, al fine di stabilire in forza

201 BARTOLI C., Introduzione al giornalismo, Edizioni ETS, Pisa, 2017, pag. 140-141 202 In base al DPR “i rapporti di lavoro costituiti per le attività per le quali è stato stipulato il Ccnlg 10/1/59 per i giornalisti, sono regolati da norme giuridiche uniformi alle clausole del contratto anzidetto”.

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di legge il principio di parità di trattamento economico tra giornalisti subordinati e autonomi.

Così recita l’art. 1 in materia di finalità, definizioni e ambito applicativo: 1. In attuazione dell'articolo 36, primo comma, della Costituzione, la presente legge è finalizzata a promuovere l'equità retributiva dei giornalisti iscritti all'albo di cui all'articolo 27 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, e successive modificazioni, titolari di un rapporto di lavoro non subordinato in quotidiani e periodici, anche telematici, nelle agenzie di stampa e nelle emittenti radiotelevisive.

2. Ai fini della presente legge, per equo compenso si intende la corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato.

La presente legge prevede, inoltre, la costituzione presso il Dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri di una commissione ad hoc con il compito di definire l’equo compenso dei giornalisti autonomi iscritti all’Albo, avuto riguardo alla natura e alle caratteristiche della prestazione, nonché in coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale in favore dei giornalisti dipendenti e di redigere un elenco degli emittenti che garantiscono il rispetto di un equo compenso, dandone adeguata pubblicità sui mezzi di comunicazione e sul sito internet del Dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri. La Commissione provvede, inoltre, al costante aggiornamento dell'elenco stesso.

Un altro importante incentivo alla tutela del lavoro giornalistico autonomo è stato realizzato tramite la conclusione dell’accordo tra FNSI e FIEG, sottoscritto il 19 giugno 2014, con cui sono stati recepiti i criteri fissati dalla legge suddetta ed è stato stabilito il trattamento economico minimo per i

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collaboratori coordinati e continuativi in funzione di specifiche tipologie di prodotto editoriale.

L’art. 1 stabilisce l’ambito soggettivo dell’accordo: “I destinatari della disciplina del presente accordo sono i giornalisti iscritti all'albo professionale, siano essi professionisti o pubblicisti, i quali forniscono alle aziende editoriali contenuti informativi sotto forma di testi e/o servizi chiusi, anche corredati da foto e/o video, che forniscano prestazioni professionali nelle quantità minime previste dal successivo art. 2.

Gli elementi caratterizzanti della collaborazione coordinata continuativa di natura giornalistica sono i seguenti:

a. svolgimento del lavoro con impegno esclusivamente personale, in totale autonomia e in assenza di assoggettamento all'etero direzione da parte dell'editore;

b. continuità nel tempo delle prestazioni, consistenti nella fornitura di una pluralità di contributi informativi;

c. coordinazione da parte del committente per assicurare la coerenza dei contenuti informativi forniti alla linea editoriale;

d. assenza di obblighi di esclusiva, fermo restando l'obbligo di osservare il rispetto della riservatezza in relazione ad informazioni relative ad

e. esclusione dalle strutture organizzative gerarchiche aziendali, dalla relativa dipendenza gerarchica prevista nell'organizzazione del lavoro redazionale e dal potere disciplinare dell'editore;

f. esclusione dall'assoggettamento a vincoli di orario, salvo il rispetto dei tempi tecnici di fornitura alle redazioni o agli uffici di corrispondenza dei contributi destinati alla pubblicazione;

g. il collaboratore non partecipa all'attività della redazione o delle redazioni decentrate o degli uffici di corrispondenza. Non ha accesso al sistema

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editoriale tranne che per l'invio alla redazione dei suoi contenuti informativi (testi, video, foto, altri contenuti multimediali).

Segue all’art. 2 il tariffario economico minimo su base annuale distinto in funzione del prodotto editoriale (quotidiano, periodico settimanale, mensile) nonché della piattaforma ove si svolge l’attività comprese le agenzie di stampa e il web.

Il rispetto e l’applicazione di queste due sole prescrizioni sarebbero già sufficienti a garantire migliori condizioni di lavoro alla schiera infinita di precari mascherati da collaboratori, ma la mancanza di un sistema di vigilanza e controllo unito al timore del collaboratore nel vedersi interrompere il rapporto di lavoro in caso di richiesta di adeguamento al trattamento minimo portano a un’elusione totale del sistema garantistico per il lavoratore autonomo. Sollecitato sul tema in occasione di una recente inchiesta sul precariato del giornalismo svolta dal programma Report203, il Sottosegretario con delega all’informazione e all’editoria Vito Crimi (Movimento 5 Stelle) ha annunciato la sua intenzione di escludere il giornalista dall’insieme delle professioni per le quali era previsto il mantenimento del contratto co.co.co. anche a seguito dell’entrata in vigore del Jobs Act.

A seguito della mancata approvazione dell’emendamento inserito nel Decreto Dignità (da parte dello stesso Movimento 5 Stelle), il sindacato dei giornalisti ha annunciato una mobilitazione nazionale.

Nel frattempo, l’unica soluzione per il collaboratore sfruttato rimane quella di dimostrare in sede processuale l’effettivo svolgimento di un’attività lavorativa subordinata per chiedere la conversione coattiva del contratto o, nel caso di previa interruzione della collaborazione, il reintegro sul posto di lavoro con un contratto che rispecchi le reali condizioni di lavoro svolte.

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Considerazioni conclusive