• Non ci sono risultati.

Professione: giornalista. Uno studio comparato

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Professione: giornalista. Uno studio comparato"

Copied!
187
0
0

Testo completo

(1)

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Professione: giornalista

Uno studio comparato

Candidato Relatore

Francesca Giannaccini Prof. Paolo Passaglia

Correlatore

Prof. Gianluca Famiglietti

(2)
(3)

Alla mamma e al babbo

la mia stella e la mia roccia

(4)

1

INTRODUZIONE 3

PREMESSA

DEMOCRAZIA, OPINIONE PUBBLICA E GIORNALISMO 5

CAPITOLO 1

PROFILI DI TUTELA COSTITUZIONALE. LA LIBERTÀ DI INFORMARE E LE

SUE SPECIFICAZIONI 18

1.1 La libertà di informazione in Italia 18

1.1.1 Dalla libertà di manifestazione del pensiero a quella di informazione 18 1.1.2. La libertà di stampa: il lungo cammino italiano 26 1.1.3. Il diritto di cronaca e i limiti del buon costume, dell’onore e della riservatezza 31

1.1.4. La questione dei segreti 49

1.2 Gli atti internazionali a portata universale e regionale 53

1.2.1 L’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del Patto internazionale diritti civili e politici 53 1.2.2 Il Piano di azione per la salvaguardia dei giornalisti e la questione

dell’impunità 58

1.2.3 L’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo 61 1.2.4 La libertà di informazione nei documenti internazionali a portata regionale 65

1.3 Una panoramica sulla libertà di informazione in altri ordinamenti statali 69

CAPITOLO 2

PROFILI COMPARATIVI. LA REGOLAMENTAZIONE DELLA PROFESSIONE

GIORNALISTICA 77

Introduzione alla comparazione: I modelli di giornalismo di Hallin e Mancini e il

concetto di “professione” 77

2.1 Il modello pluralista polarizzato 86

2.1.1 L’Ordine dei giornalisti: un unicum tutto italiano 89 2.1.2 I Colegios Profesionales spagnoli e le associazioni di categoria 100

2.2 Il modello liberale 109

2.2.1 La self regulation inglese 112

2.2.2 USA: Il First Amendament e lo scudo delle shield laws 119

2.3 Il modello democratico – corporativo 126

2.3.1 Disciplina ed etica della professione giornalistica in Germania e

Belgio 129

2.3.2 Una breve considerazione finale 136

(5)

2

CAPITOLO 3

LA CRISI DEL GIORNALISMO PROFESSIONALE 142

3.1 Dalla penna e taccuino alla rete, competenze e responsabilità del giornalista digitale 142 3.2 Giornalisti professionisti e non, un confine molto sottile 150 3.3 La fine del monopolio dell’informazione e il fenomeno del citizen

journalism 158

3.4 La (dura) vita del freelance 165

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE 171

(6)

3

Introduzione

La figura del giornalista, fin dalla sua comparsa, ha sempre rivestito un ruolo cruciale per il buon funzionamento della democrazia in senso moderno. Gli spetta il duplice ruolo di vigilanza e controllo sull’operato dei governanti, da una parte, e di informazione dei governati, dall’altra. Il giornalista si rivolge sempre a chi ha il potere, non per elogiarlo (pena la conversione in propaganda) né per distruggerlo o denigrarlo, quanto con il fine di metterlo in discussione e stimolare l’indole critica del lettore-spettatore, in modo tale da garantire l’assoluta libertà nella scelta politica. In questo senso si giustifica la denominazione del giornalismo come watchdog della democrazia e si comprende la sua importante azione nel complesso procedimento di formazione dell’opinione pubblica.

La presente tesi parte dall’analisi della tutela multilivello accordata alla libertà di informare, quale specificazione della libertà individuale di espressione e presupposto al pieno compimento della libertà di stampa in senso istituzionale e organizzato. Riconosciuto quale diritto fondamentale, in senso generale ed astratto, di esso si avvale principalmente il giornalista, al quale spetta in via esclusiva l’esercizio professionale dell’attività di informazione. Segue, in una prospettiva comparata, l’analisi della regolamentazione della professione giornalistica in vari paesi, individuati sulla base dei modelli di giornalismo come elaborati nel 2004 dagli studiosi Daniel C. Hallin e Paolo Mancini in funzione della relazione esistente tra stampa e sistemi politici. Si distinguono così tre approcci: quello pluralista polarizzato, tipico dell’Europa mediterranea caratterizzato da un giornalismo spiccatamente politico e una regolamentazione corporativa della professione; quello liberale dei paesi anglosassoni, dove predomina la logica del mercato anche in ambito lavorativo, e quello democratico corporativo nordeuropeo e continentale, in cui convivono elementi apparentemente divergenti come un alto livello di parallelismo politico e un’elevata professionalizzazione della categoria.

(7)

4

Di ciascun gruppo verranno analizzati due esempi relativi allo status professionale riconosciuto al giornalista e alle regole che caratterizzano l’esercizio della sua attività. Si avranno pertanto casi in cui la professione giornalistica è altamente disciplinata attraverso una rigida regolamentazione (come in Italia e in Spagna) e ordinamenti in cui questa è rimessa al libero dispiegarsi del principio economico (come negli Stati Uniti e nel Regno Unito).

Infine, si tratterà delle questioni attuali che rischiano di assottigliare il confine già labile che intercorre tra professionisti e non. È, infatti, il concetto stesso di professione quale attività esclusiva di una categoria di persone specificatamente formate o qualificate ad essere messo in discussione: in un mondo in cui qualsiasi cittadino con uno smartphone è in grado di diffondere informazioni potenzialmente ad alta risonanza, è importante individuare cosa rimane appannaggio esclusivo di chi lo fa per lavoro e che, per questo, può rispondere di specifiche responsabilità etiche.

(8)

5

Premessa

Democrazia, opinione pubblica e giornalismo

Non conosco che due modi per governare la società: uno è l’opinione pubblica, l’altro la spada.

Thomas B. Macaulay

Nel 1904 Joseph Pulitzer scriveva il saggio “Sul giornalismo” in risposta a un’ondata di critiche ricevute per la sua iniziativa di inaugurare un corso di laurea specifico in giornalismo presso la Columbia University di New York. Il giornalista di origine ungherese, naturalizzato statunitense, replicava a quanti sostenevano l’inutilità di un tale percorso di studi al fine di preparare i giornalisti di domani, i quali avrebbero trovato adeguata formazione nella “pratica” della professione sul campo o seguendo le altre classiche vie accademiche.

Sull’opportunità di una specifica formazione curriculare per il giornalista si tornerà nella seconda parte della tesi che avrà ad oggetto la comparazione della disciplina sull’accesso e le altre regole che riguardano la professione, mentre in questa prima parte intendiamo soffermarci sul motivo per cui Pulitzer auspicava questo cambio di prospettiva.

Per lui: “il giornalista ha una posizione tutta speciale. Lui solo ha il privilegio di plasmare le opinioni, toccando il cuore e fare appello alla ragione di centinaia di migliaia di persone ogni giorno”1. La professione del giornalista, quindi, non meno di altre è votata a un interesse pubblico specifico, quello di informazione pubblica. Il giornalista non è solo un burocrate della notizia né il funzionario di un’azienda: è investito di un compito etico, svolge un ruolo fondamentale nella formazione e nell’espressione dell’opinione pubblica ed assolve quindi un essenziale compito per il corretto funzionamento del circuito democratico.

(9)

6

Dice ancora: “Un giornalista è la vedetta sul ponte di comando della nave dello Stato. Prende nota delle vele di passaggio e di tutte le piccole presenze di qualche interesse che punteggiano l’orizzonte quando c’è bel tempo. Riferisce di naufraghi alla deriva che la nave può trarre in salvo. Scruta attraverso la nebbia e la burrasca per allertare sui pericoli incombenti. Non agisce in base al proprio reddito né ai profitti del proprietario. Resta al suo posto per vigilare sulla sicurezza e il benessere delle persone che confidano in lui”2.

Questo era il pensiero di Pulitzer all’alba del XX secolo quando, grazie all’evoluzione dei mezzi di stampa, si quadruplicava la tiratura nazionale dei maggiori giornali americani rispetto ai trent’anni precedenti. È una concezione indubbiamente utopistica e romantica del giornalista, ma la tensione etica e profonda del mestiere è richiamata ancora oggi in un contesto in cui la diffusione delle notizie da una parte all’altra del mondo è praticamente istantanea. La questione della rappresentazione della realtà e del potere, cioè del meccanismo necessario a rendere i cittadini informati, è sempre stata politicamente cruciale. Se prendiamo infatti il rapporto annuale della Freedom House3, l’organizzazione internazionale che si occupa di monitorare le condizioni delle democrazie nel mondo (distinguendo gli stati tra “liberi”, “parzialmente liberi”, “non liberi”) vediamo come uno dei suoi allegati principali sia proprio intitolato alla libertà di stampa4.

Lo storico Thomas Carlyle attribuì a Edmund Burke la definizione della stampa come “Fourth Estate”5 nel corso di un dibattito parlamentare in Inghilterra nel 1787. Egli riconobbe all’informazione un ruolo indipendente e autonomo accanto ai classici tre poteri pubblici: legislativo, esecutivo,

2 Op. cit. pag. 37

3 https://freedomhouse.org/

4 Il report completo dell’anno 2017 è consultabile all’indirizzo https://freedomhouse.org/report/freedom-press/freedom-press-2017

5 In italiano il concetto di “Fourth Estate” è stato tradotto con “Quarto Potere” in relazione all’omonimo film di Orson Welles del 1941, originariamente intitolato “Citizen Kane”. Questa traduzione ha contribuito a dare al concetto di “quarto potere” una connotazione tendenzialmente negativa mentre nel suo significato originale il termine risulta assolutamente neutro.

(10)

7

giudiziario. Ancora si parla della stampa come “watchdog”6 della democrazia: essa serve non solo a informare i cittadini ma ha un ruolo attivo nell’attaccare, criticare e quindi controllare il potere costituito. Risulta chiaro quindi come la stampa sia da lungo tempo considerata imprescindibile a garantire il funzionamento dei meccanismi democratici e quindi la rappresentanza delle persone che è chiamata a informare sia a scongiurare potenziali derive autoritarie nel delicato equilibrio dei poteri pubblici. Dato che non possono esistere elezioni libere senza cittadini informati, tutto ciò che attinge al processo di informazione va adeguatamente tutelato e presuppone oltre che una vera e propria iniziativa dell’ordinamento in tal senso7, un’adeguata comprensione di ciò di cui stiamo parlando.

Potremmo parlare della democrazia come “governo dell’opinione”8: questo risulta in maniera evidente in relazione alla sua applicazione cosiddetta “diretta” (genus cui appartengono i referendum) nella quale i cittadini sono chiamati direttamente a esprimere un’opinione rispetto a un determinato tema, ma anche in relazione alla “democrazia rappresentativa” dove le istituzioni politiche vengono composte a seconda della maggioranza dei voti espressi dal popolo al momento elettorale. L’opinione è elemento portante anche della cosiddetta “democrazia deliberativa”9 alla quale parte della dottrina fa frequentemente richiamo come forma auspicabile in risposta a una

6 Watchdog ossia “cane da guardia” della democrazia. Si tratta di una celebre metafora la cui origine è ancora poco chiara ma che è sicuramente entrata nell’immaginario collettivo. La stessa Corte di Cassazione vi fa riferimento nel 2007 nella sentenza pronunciata a favore del giornalista Vittorio Feltri accusato di diffamazione ai danni di un giudice: “il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere giudiziario, dovendo convenirsi con la giurisprudenza della Corte EDU allorché afferma che i giornalisti sono i cosiddetti “cani da guardia” della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie”.

7 Sul punto torneremo nel secondo paragrafo di questo capitolo.

8 Già Hume nel 1740 sostiene che qualsiasi governo si fonda sempre sull’opinione (“It is on opinion only that government is founded”); questo si apprezza tanto più nei confronti dei governi a stampo democratico: “La democrazia rappresentativa… [si caratterizza] come un governo dell’opinione, fondato su un pubblico sentire de re publica. Il che equivale a dire che alla democrazia rappresentativa basta, per esistere e funzionare, che il pubblico abbia opinioni sue; niente di più ma anche – attenzione – niente di meno” Giovanni Sartori, Homo Videns, 1999 pg 44.

9 Per un’approfondita analisi del concetto si rimanda al volume di Antonio Florida “Democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi” 2012

(11)

8

conclamata “crisi della democrazia” di tipo rappresentativo. In questo contesto i cittadini non sono chiamati meramente a “scegliere” (fra più soluzioni, fra più partiti, fra più candidati) ma sono coinvolti in un complesso processo deliberativo caratterizzato dal dialogo e dal confronto.

Con l’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, Stefano Rodotà sostiene che si sia passati a una nuova forma di democrazia non più intermittente ma continua10. “I segni della democrazia continua sono già davanti a noi. Ci si può incontrare continuamente sulle reti; si comincia ad avere la possibilità di un accesso continuo ad una enorme quantità di informazioni; i sondaggi si presentano come la via per un ascolto continuo dei cittadini; crescono le occasioni e gli strumenti per il dialogo e di pressione continua degli elettori sugli eletti; la prospettiva del referendum elettronici moltiplica le possibilità di consultazioni continue dell’elettorato; la campagna elettorale diviene permanente”. Lo scenario futuro descritto da Rodotà è alquanto scoraggiante. I rischi connessi dall’avvento della democrazia continua sono molti (derive plebiscitarie, populiste e di eccessiva semplificazione della realtà) e per scongiurarli è necessario stimolare una rinnovata cultura politica e la costruzione di un contesto istituzionale che riesca a sfruttare seriamente le potenzialità partecipative delle nuove tecnologie della comunicazione. Troppo spesso infatti gli studiosi hanno fatto riferimento ai termini “teledemocrazia”, “sondocrazia” e più di recente “cyberdemocrazia” secondo un’accezione meramente negativa: non basta coinvolgere continuamente il cittadino nel discorso politico, è necessario arrivare a incoraggiare un discorso pubblico, critico, argomentativo per invertire il circolo e renderlo finalmente “virtuoso”.

10 Si fa riferimento alla modalità esecutiva, ossia al momento in cui si dà piena attuazione al principio democratico: mentre nella forma rappresentativa e diretta questo è circoscritto e ufficiale (elezioni; primarie; referendum etc) nella democrazia continua le tecnologie di informazioni rendono possibile un appello e una consultazione diffusa e prolungata nel tempo basata soprattutto sui sondaggi di opinione.

(12)

9

In definitiva si nota come in ognuno di questi contesti centralità assoluta sia riconosciuta alla volontà popolare, alla quale nell’uso comune ci riferiamo parlando di “opinione pubblica”.

Lungi dal considerare l’opinione pubblica come la mera somma delle opinioni personali11 risulta comunque estremamente complesso darne una definizione univoca. Essa può essere intesa sotto vari profili: come entità astratta (e per certi versi autonoma), come processo, come istituzione materiale, ambito simbolico e riferimento normativo.

Risulta interessante ora soffermarsi sulle più importanti teorie moderne sul concetto di opinione pubblica e soprattutto sui processi che riguardano la sua formazione nei quali sicuramente i media svolgono un ruolo di primo ordine. Giorgio Grossi12 sostiene che di “opinione pubblica” si possa effettivamente parlare solo a partire dall’età moderna con la costruzione dello Stato-nazione (XVII e XVIII secolo) e in particolar modo con l’avvento di società industriali di stampo capitalista e forme di governo ispirate a principi liberal democratici. Prima si era soliti riferirsi in senso molto generico ed astratto all’”opinione generale” o allo “spirito pubblico generale”; l’opinione pubblica da questo momento diventa invece un concetto definito, un fenomeno sociale concreto che può essere analizzato e studiato nelle sue dinamiche e nel suo processo di formazione. Importantissima risulta quindi la comprensione di due aspetti speculari: del modo in cui essa si plasma nella società e di come viene percepita dai suoi appartenenti. In base a questo essa può qualificarsi come “autodiretta” quando si forma in maniera relativamente autonoma e quando esprime istanze che provengono dalla base popolare, viceversa viene definita “eterodiretta” quando risulta evidente l’azione e l’influenza esercitata da centri di potere o gruppi organizzati.

11 Definizione accolta dallo stesso Pulitzer nell’incipit del suo saggio “Il potere dell’opinione pubblica”, pubblicato in calce all’opera già citata Sul giornalismo

(13)

10

Da qui le differenti considerazioni sulla natura dell’opinione pubblica e il suo ruolo all’interno della società. Tra il XVII e il XIX secolo in Francia e Inghilterra si considera l’opinione pubblica come un’istanza intermedia tra elettori e potere legislativo, come luogo della mediazione della rappresentanza. Gli illuministi francesi del XVIII secolo diversamente parlano di “public éclaré” per riferirsi a un cerchio ristretto di intellettuali e letterati che fanno un “uso pubblico della ragione” al duplice fine di controllare il governo da una parte ed “educare” le classi popolari perché prendano coscienza dei loro diritti dall’altra.

Se il concetto di opinione pubblica si delinea già in un’epoca precedente, è solo a partire dal Novecento che essa trova compiuta definizione. Ciò è dovuto alle trasformazioni che hanno portato a compimento il processo di modernizzazione della società: lo sviluppo industriale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; l’inclusione nei processi democratici di tutti i ceti sociali; lo sviluppo della stampa e la successiva diffusione di riviste, giornali, pamphlet; la nascita di circoli letterari, caffè, luoghi di incontro, discussione e ovviamente tutti i principali eventi storici e sociali che hanno fatto del Novecento il “Secolo delle masse” e “dell’Opinione Pubblica”. Il rimando non è solo ai due conflitti mondiali ma anche alle complesse dinamiche internazionali del secondo dopoguerra (Guerra Fredda; nascita delle più importanti organizzazioni internazionali e dell’Unione Europea), all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa come la radio, la televisione, il cinema che hanno rivoluzionato costumi, abitudini, idee. Nel corso di questi avvenimenti l’opinione pubblica è sempre stata considerata soggetto protagonista, talora con lo scopo di rimetterla al centro del dibattito politico, ben più spesso con quello di elaborare forme di controllo e manipolazione (basti pensare alla trasformazione della comunicazione in propaganda al fine diffondere l’ideologia dei regimi totalitari nel corso dei conflitti mondiali). Walter Lippmann è autore di uno dei più importanti libri che indagano il rapporto tra giornalismo, democrazia e opinione pubblica. Public Opinion fu pubblicato a New York nel 1922 all’indomani della Prima Guerra Mondiale

(14)

11

e fu definito da Dewey come “forse il più efficace atto di accusa mai scritto contro la democrazia, come essa è correntemente percepita”13. Lippman arriva a definire l’opinione pubblica un “ambiente invisibile” (phantom public), risultato di un processo essenzialmente cognitivo e soggettivo14 basato su “immagini” (che a loro volta si formano in base agli stereotipi) che ogni persona autonomamente si forma o che le vengono fornite dall’esterno. “Il mondo con cui dobbiamo avere a che fare politicamente è fuori dalla nostra portata, fuori dal nostro campo visuale, fuori dai nostri pensieri. […]. [L’uomo] un po’ alla volta si costruisce nella mente un’immagine attendibile del mondo che sta al di là della sua portata. Le immagini che sono nella mente di questi esseri umani, le immagini di sé stessi, di altri, delle loro esigenze, dei loro intenti e dei loro rapporti, sono le loro opinioni pubbliche. Le immagini in base a cui agiscono gruppi di persone, o individui che agiscono in nome di gruppi, costituiscono l’Opinione Pubblica con le iniziali maiuscole”15.

Questa rappresentazione soggettiva degli individui è il frutto di una percezione parziale o distorta della realtà politica e questo scollamento è uno dei maggiori difetti che Lippmann imputa alla democrazia rappresentativa dell’epoca. Lontana dalla condizione ideale della “comunità autosufficiente” jeffersoniana nella quale l’opinione pubblica risulta davvero spontanea e aderente alla realtà, la società post-bellica è infatti estremamente complessa e allargata: l’opinione pubblica ha quindi una formazione eterogenea. È il risultato di un procedimento in cui entrano in gioco una pluralità di condizioni, fra cui l’effettivo accesso alle informazioni da parte dei cittadini gioca un ruolo fondamentale.

13 “[Public opinion] is perhaps the most effective indictment of democracy as currently conceived ever penned”. La recensione venne pubblicata nel 1922 sul giornale The new Republic come riferito da Robert B. Westbrook nel 1991 nel suo libro “John Dewey and American Democracy”.

14 L’analisi di Lippmann come sostenuto da Nicola Tranfaglia nella prefazione al libro risente degli studi della “psicologia del profondo” elaborata da Freud, Jung e Adler. Ne è un esempio il continuo riferimento più alle “immagini” soggettive che alle “parole”.

(15)

12

A garantirlo è preposta la stampa, che, per Lippmann, “è il mezzo principale di contatto con l’ambiente che sta al di fuori del nostro campo visuale”. Anch’essa però è portatrice di una visione parziale e spesso manipolata16 che ricerca continuamente il consenso di quella classe sociale che è chiamata a informare e da cui dipende economicamente per il suo essere anche impresa commerciale. La stampa avrebbe il potere di battersi per la verità riferibile, ma di fatto non può perché “ha a che fare con una società in cui le forze dominanti sono assai imperfettamente documentate”17. Non bisogna nemmeno incorrere nell’errore di imputare alla stampa funzioni oltre i suoi limiti naturali. Addirittura “[essa] – arriva a sostenere Lippmann – ha finito per essere considerata un organo di democrazia diretta, investito ogni giorno e su scala assai più ampia, della funzione spesso attribuita all’iniziativa popolare, al referendum, e alla revoca. Il Tribunale dell’Opinione Pubblica, aperto giorno e notte, deve dettar legge su tutto, continuamente. Ma in realtà non funziona”.

A partire dagli anni Sessanta si diffonde in Europa una nuova concezione dell’opinione pubblica elaborata dal sociologo Jürgen Habermas, esponente della Scuola di Francoforte. Egli rivaluta la connotazione critica e interattiva dell’opinione pubblica, la quale risulta ora come un processo argomentativo a cui partecipano tutti i soggetti sociali. L’opinione pubblica (che egli chiama “sfera pubblica borghese”) è un processo idealmente consumato in luoghi pubblici adatti alla discussione tra le persone. La crisi di questo sistema si genera ancora una volta considerando la complessità della società moderna di massa caratterizzata dalla progressiva scomparsa di questi ambienti sociali per la formazione critica delle idee e il contemporaneo avvento di due categorie di opinioni rispettivamente “informali, personali, non pubbliche” e

16 “L’ipotesi che a me sembra più feconda è che la notizia e la verità non siano la stessa cosa, e debbano essere chiaramente distinte. La funzione della notizia è di segnalare un fatto, la funzione della verità è di portare alla luce i fatti nascosti, di metterli in relazione tra di loro e di dare un quadro della realtà che consenta agli uomini di agire. Solo là dove le condizioni sociali assumono una forma riconoscibile e misurabile, il corpo della verità e il corpo della notizia coincidono”. LIPPMANN op. cit., pag. 359

(16)

13

“formali, istituzionalmente autorizzate, quasi pubbliche”. Nel primo gruppo rientrano le credenze personali e individuali nonché gli stereotipi: fattori privati che non avrebbero autorità di essere considerati “opinioni pubbliche”; mentre al secondo appartengono le opinioni di una cerchia ristretta ed elitaria della società che vengono legittimate e validate dalla diffusione che ne fanno i mass-media (ne è un esempio l’opinione di un professionista trasmessa in televisione). Il processo di formazione dell’opinione pubblica viene quindi inquinato ed essa non risulta più libera e autodiretta, ma manipolata, parziale e corrotta. Secondo Habermas questo è dovuto principalmente allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (proprio per il loro rivolgersi a una “massa” sempre più indistinta di destinatari i quali hanno poche se non nulle capacità di interazione con gli emittenti) e dell’industria della stampa intesa come formula organizzativa votata al profitto e alla capitalizzazione. Il pubblico culturalmente critico diventa pubblico consumatore di cultura. L’obiettivo non è più l’opinione pubblica ma il mero consenso: il consenso fabbricato non ha, naturalmente, molto in comune con l’opinione pubblica, con la finale unanimità di un lungo processo di reciproco chiarimento; l’interesse generale sulla cui base soltanto poteva verificarsi liberamente una razionale coincidenza delle opinioni pubbliche concorrenti, si è vanificato proprio nella misura in cui le autorappresentazioni pubblicistiche di interessi privati privilegiati lo adottano ai propri fini particolari18.

I paradigmi ideali di Lippmann (opinione pubblica come rappresentazione ideale soggettiva) e Habermas (opinione pubblica come discussione) si scontrano con la realtà politica effettiva: la massificazione, il capitalismo, la crescente complessità delle dinamiche sociali e politiche sono avvertite come un pericolo per la genuinità dell’opinione pubblica. Negli anni ’70 Niklas Luhman si fa esponente di un approccio meno pessimista e più “funzionalista”. Egli sostiene che l’opinione pubblica non debba essere considerata come un mero elemento politicamente rilevante quanto più come

18 HABERMAS J., Storia e critica dell’opinione pubblica, Biblioteca Universale Laterza, Roma 1984

(17)

14

strumento e procedura per la semplificazione della complessità sociale. Secondo questa prospettiva l’opinione pubblica non è più un’istanza intermedia tra cittadini e lo Stato, non è autodiretta perché non nasce dal basso né dalla discussione pubblica e critica su certi temi o sull’azione di governo ma è un passaggio obbligato, un procedimento, volto a organizzare e tradurre la volontà popolare. È fisiologicamente eterodiretta e viene condizionata dai temi che via via si presentano al pubblico e non viceversa. “I temi non servono direttamente a determinare il contenuto delle opinioni ma in primo luogo e soprattutto a catturare l’attenzione”. I temi circoscrivono il campo dentro il quale le opinioni possono svilupparsi, successivamente la molteplicità di queste posizioni soggettive sarà ridotta a schemi semplici e più facilmente interpretabili: in tal senso la pluralità di opinioni personali si trasformerà nell’opinione pubblica vera e propria. In questo processo i mass media si pongono a monte della selezione dei temi, adempiendo al compito dell’agenda-setting e di costruzione pubblica delle issues.

Quanto esposto finora dimostra quanto sia difficile dare una definizione univoca del concetto di opinione pubblica e di come sia complesso il procedimento relativo alla sua formazione. Al di là delle singole teorie normative ripercorse, l’opinione pubblica è sempre il frutto di un’interazione la quale si svolge in un contesto definito dagli studiosi “campo demoscopico”. I suoi elementi costitutivi sono: i cittadini e i pubblici (distinti in “pubblico generale”, “votante” e “attento”); le élite politiche e ovviamente i media. Secondo Vincent Price19, i giornalisti svolgono un ruolo essenziale di intermediazione tra élite politica e audience. Le funzioni loro attribuite sono quelle di sorveglianza sull’operato degli attori politici da riferire al “pubblico attento” e di correlazione, ossia di organizzazione delle risposte e delle reazioni del pubblico stesso, in modo che risulti consapevole delle sue stesse sfaccettature interne e sia capace di coordinare una reazione collettiva. Le stesse funzioni sono specularmente adempiute nei confronti dell’élite politica

(18)

15

che necessita di un aggiornamento continuo tanto sulle reazioni del pubblico quanto sulle posizioni degli altri attori politici. In tal modo la stampa consente ad attori politici e spettatori di interagire.

La stampa però svolge anche un ruolo attivo in questo processo: “oltre a fornire canali attraverso i quali altri attori trasmettono i loro messaggi, l’élite dei media diffonde proprie opinioni con analisi politiche di parte e il sostegno di politiche e candidati”20.

Il giornalista, quindi, non si limita a trasmettere un messaggio da un soggetto o istituzione del campo demoscopico all’altro, ma interviene egli stesso come attore principale, riportando criticamente le notizie e esponendosi in prima persona con opinioni che tendenzialmente riflettono l’orientamento del giornale al quale appartiene. La “faziosità” del giornalista non è però necessariamente un aspetto negativo: l’esposizione di diversi punti di vista, se calata in un contesto che garantisce il pluralismo delle idee e delle opinioni, non è altro che la pubblica realizzazione dello stesso principio democratico. Allo stesso tempo è inutile tacere il rischio connesso all’esposizione dei soggetti deputati all’informazione: condizionamento ideologico, distorsione della realtà, rafforzamento di preconcetti e stereotipi. Ad arginare tale rischio intervengono le regolamentazioni statali volte a garantire e proteggere il principio pluralistico delle fonti (par. 2.2); quelle atte a scongiurare derive monopolistiche del mercato dell’informazione (disciplina antitrust, regolamentazione delle frequenze etc.) nonché tutto il complesso di norme sull’esercizio della professione, con attenzione particolare al codice deontologico (cap. 2-3).

In definitiva, i media offrono la piattaforma ideale alla comunicazione, alla trasmissione dei messaggi nel campo demoscopico; procedono in prima istanza alla messa in agenda dei temi pubblici stimolando il confronto e

(19)

16

l’interazione tra i soggetti sociali e intervengono loro stessi nel dibattito pubblico dando risonanza a idee e opinioni e criticandone altre.

È in tale senso che i media incidono nella formazione dell’opinione pubblica e quindi hanno riflessi nell’orientamento politico della stessa soprattutto in concomitanza con l’appuntamento democratico21. Non è un caso che una parte delle scienze della comunicazione si sia progressivamente specializzata nella “comunicazione politica”, ossia in quel complesso di norme, regole, teorie che attengono allo stile comunicativo dei leaders politici sia in tempi cosiddetti “ordinari” che in quelli a ridosso delle elezioni.

L’evoluzione della comunicazione politica, secondo la periodizzazione proposta da Pippa Norris22, si distingue in tre fasi: quella “premoderna”, nella quale i media svolgevano un ruolo di mero supporto al contatto diretto tra leaders politici e cittadini; quella “moderna” ormai “mediata”, caratterizzata come si sa dall’avvento dei mass media e soprattutto della televisione; fino a quella “postmoderna” attuale, nella quale la rivoluzione digitale, Internet e soprattutto i social media hanno indotto a uno sviluppo ulteriore di questo settore di indagine proprio considerando la capacità di questi strumenti di mettere nuovamente e continuamente in comunicazione diretta eletti ed elettori.

Lo sviluppo della comunicazione politica ha quindi comportato la nascita di un ulteriore profilo professionale accanto a quello del “semplice” cronista, un profilo che ha la specifica competenza di saper gestire i flussi di comunicazione in ambito politico. Egli risponde, oltre che alle regole ordinarie tipiche per chiunque voglia esercitare la professione giornalistica, a tutta una serie particolare di altre norme introdotte al fine di tutelare il principio democratico cui sono preposti.

21 È la stessa Corte Costituzionale italiana a ribadire il concetto nella sentenza 15/6/72 n.105: “nell’ordinamento democratico il ruolo della stampa e dell’informazione risponde all’esigenza di primario interesse generale della formazione di un’opinione pubblica avvertita e consapevole”.

22 NORRIS P., A Virtuous Circle: Political Communications in Postindustrial Societies, Cambridge University Press 2003

(20)

17

Ora che è stato delineato il contesto di riferimento di questo studio (le democrazie occidentali), è possibile passare all’analisi delle norme costituzionali e internazionali che governano e assicurano l’intero processo di informazione.

(21)

18

Capitolo 1

Profili di tutela costituzionale:

la libertà di informare e le sue specificazioni

1.1 La libertà di informazione in Italia. – 1.1.1. Dalla libertà di

manifestazione del pensiero a quella di informazione – 1.1.2. La libertà di stampa: il lungo cammino italiano. – 1.1.3. Il diritto di cronaca e i limiti del buon costume, dell’onore e della riservatezza – 1.1.4. La questione dei segreti. 1.2 Gli atti internazionali a portata universale e

regionale – 1.2.1 L’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti

dell’uomo e del Patto internazionale dei diritti civili e politici. – 1.2.2. Il Piano di azione per la salvaguardia dei giornalisti e la questione dell’impunità – 1.2.3 L’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – 1.2.4 La libertà di informazione nei documenti internazionali a portata regionale. 1.3. Una panoramica sulla libertà di

informazione in altri ordinamenti statali

1.1 La libertà di informazione in Italia

1.1.1 Dalla libertà di manifestazione del pensiero a quella di informazione Affinché il giornalista sia in grado di svolgere liberamente il suo mestiere e assolvere a quella funzione politica e sociale che abbiamo tentato di ricostruire e argomentare fino a qui, è necessario che qualsivoglia ordinamento democratico predisponga un’adeguata tutela della libertà di informazione. Ovviamente tale libertà non si riferisce in via esclusiva a chi svolge professionalmente l’attività di giornalista, ma viene riconosciuta in via astratta e generale a tutti, siano essi cittadini o stranieri. In virtù di questa estensione generale si comprende il motivo per cui la libertà di informazione viene ricondotta all’alveo di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, la quale trova ampio riconoscimento in tutte le Costituzioni delle democrazie occidentali, nelle Carte e nei documenti internazionali.

La libertà di esprimere le proprie idee, convincimenti, opinioni viene intesa come fondamento e condizione per l’esistenza stessa dell’ordinamento

(22)

19

democratico23. Allontanandosi da un’accezione meramente individualistica, la libertà di manifestazione del pensiero si apprezza anche se esercitata in forma collettiva e organizzata24. Sul piano oggettivo il contenuto di tale libertà risulta amplissimo, comprendendo non solo il proprio pensiero ma anche quello altrui fatto legittimamente proprio, le conoscenze, le notizie e in generale tutto quello che può essere riferito al concetto di informazione. Così atteggiandosi, essa garantisce al singolo o a una collettività organizzata di esprimersi attraverso una pluralità indefinita di mezzi (parola, scritto, stampa, e via dicendo) senza timore di censura o limitazione, se non in casi tassativamente previsti dalla legge.

Nell’ordinamento italiano tale libertà è garantita dall’articolo 21 della Costituzione che recita:

1. Tutti hanno diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

2. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

La stampa quindi viene riconosciuta fin dai primi periodi dell’articolo 21 come mezzo privilegiato di diffusione del pensiero. Ad essa sono dedicati i commi successivi che trattano della possibilità di procedere a sequestro solo e unicamente per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei casi previsti dalla legge25 e di quella che la stessa disponga di renderne noti i mezzi di finanziamento (in virtù del principio di trasparenza attuato con legge n.416 del 1981). Al comma 6 dello stesso articolo, è previsto infine il limite esplicito del “buon costume” alla pubblicazione di determinate informazioni a mezzo stampa.

23 Viene in tal senso definita dalla Corte Costituzionale italiana “pietra angolare dell’ordine democratico” nella nota sentenza n. 84 del 1969.

24 Ancora la Corte Costituzionale italiana: “[non c’è] dubbio che la forma collettiva di manifestazione del pensiero sia garantita dall’art 21 Cost. Ciò in quanto la forma collettiva […] è necessaria al fine di dar corpo e voce ai movimenti di opinione concernenti interessi superindividuali”. Sent. n.126/85

25 Nei casi di “assoluta urgenza” si ammette invece la possibilità che la legge disponga di un sequestro immediato da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria salvo convalida dell’autorità giudiziaria entro ventiquattro ore (art. 21.4 Cost.)

(23)

20

L’articolo 21, come tutti i principi fondamentali e forse più degli altri, non deve essere considerato fine a sé stesso quanto piuttosto come elemento portante del sistema di libertà previsto dalla Costituzione. Così delineato si pone come condizione necessaria alla piena realizzazione del principio democratico (art. 1), del riconoscimento della dignità e dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia come appartenente a una formazione sociale (art. 2) e del principio di uguaglianza formale e sostanziale (art. 3). Allo stesso modo è il presupposto al libero esercizio di altre libertà costituzionalmente garantite: basti pensare alla libertà personale (art. 13), alla segretezza della corrispondenza e della comunicazione (art. 15), alla riunione e associazione (artt. 17 e 18), a quella religiosa (art. 19) nonché alla libertà di associazione politica e sindacale (artt. 39 e 49). La garanzia di poter esprimere liberamente le proprie opinioni alla luce di questa ricostruzione sistematica, risulta essere il requisito imprescindibile al pieno sviluppo e rispetto della personalità umana e alla partecipazione dell’individuo alla vita sociale. È la maggiore conquista liberale dai tempi del fascismo, il presupposto allo sviluppo di una “società aperta” e pluralista contrapposta all’idea di una “società chiusa” e ideologicamente uniformata.

La libertà di espressione, seppur garantita dalla clausola dell’inviolabilità, non può comunque estendersi senza limiti. Oltre a quello del “buon costume” direttamente richiamato dalla Carta (da intendersi, secondo la Corte costituzionale, come “comune senso del pudore” e sempre alla luce dell’evoluzione sociale), la giurisprudenza ha progressivamente individuato dei “limiti impliciti” da rilevare di volta in volta con riserva assoluta di legge, nel bilanciamento con altri valori e libertà costituzionali26. Tali sono: la tutela dell’onore, della riservatezza e reputazione della persona nonché l’ordine

26 A titolo di esempio si richiamano le sentenze ritenute più significative in tal senso: sent. n.1/56; n.9/65; n.87/66; n.11/68; n.120/68; n.65/70; n.199/72

(24)

21

pubblico costituzionale su cui si basa la pacifica convivenza e in stretta connessione con ciò che concerne i segreti27.

Dal punto di vista strutturale, rientrando nel novero dei diritti inviolabili ex art. 2 Cost., si qualifica come un diritto soggettivo di natura assoluta, quindi può essere opposto erga omnes, tanto nei confronti dei pubblici poteri quanto tra privati, purché si tratti di destinatari privati non individuati (la tutela della comunicazione interpersonale rientra infatti nell’alveo di tutela dell’articolo 15 Cost.).

Inoltre la formulazione attiva dell’articolo 21 non deve indurre a ritenere priva di tutela la sua applicazione in negativo: la tutela alla libera manifestazione del pensiero si estende fino al cosiddetto “diritto al silenzio” ossia al diritto di celare, di tenere per sé, la propria opinione o convincimento. Questo profilo trova ulteriore specificazione negli articoli 15 e 48 rispettivamente sulla segretezza della corrispondenza e del voto nonché in altre norme di legislazione ordinaria. Il “diritto al silenzio” incontra come unico limite ancora la ponderazione rispetto ad altri principi costituzionalmente rilevanti e previsti dalla legge28.

Tornando all’evoluzione della libertà di informazione nell’ambito di tutela prestato dall’articolo 21, si può dire che essa abbia seguito una strada prevalentemente giurisprudenziale. A differenza delle Costituzioni di altri Stati o documenti internazionali, la nostra Carta, infatti, non prevede espressamente una tutela della libertà di informazione, ma lascia alla Corte il compito di stabilire che il diritto di manifestazione del pensiero “comprende la libertà di dire e divulgare notizie , opinioni, commenti” e che “la stampa, al di fuori delle ipotesi previste dai commi 2 e 3 dell’articolo 21 Cost., soggiace per il suo carattere di strumento di diffusione del pensiero, agli stessi limiti che circoscrivono la libertà di manifestazione del pensiero e

27 Sul tema torneremo più avanti laddove ci si soffermerà nell’analisi dei limiti all’esercizio del diritto di cronaca giornalistica

28 ZACCARIA R., VALASTRO A., ALBANESI E., Diritto dell’informazione e della comunicazione. Cedam, Padova, 2016 p. 11-12

(25)

22

vanno ricercati in sede di interpretazione del 1 comma dello stesso articolo”29.

È dal secondo dopoguerra, in concomitanza con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e ancor più con l’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione, che dottrina e giurisprudenza si sono avviate in una ricostruzione concettuale autonoma della libertà di informazione nel dettato costituzionale. I risultati di tale approfondimento hanno portato la dottrina a distinguere le diverse sfaccettature della libertà di informazione all’interno del perimetro dettato dall’articolo 21 Cost30.

Anzitutto essa viene intesa come libertà “di informare”, ossia libertà nel diffondere notizie, informazioni, opinioni, commenti. Secondo questa ricostruzione letterale dell’articolo 21 viene in considerazione il profilo “attivo” del processo informativo, ossia quello ricoperto da un qualsiasi soggetto (inteso sia come singolo sia in forma organizzata) che materialmente si attiva non solo nell’espressione di un pensiero ma anche nella sua diffusione e pubblicizzazione esterna verso un pubblico indistinto di persone. In tal senso si comprende la considerazione della libertà di informare come corollario della libertà di espressione. A questo profilo appartengono la libertà di stampa, il diritto di cronaca, di critica e di satira su cui avremo modo di tornare più avanti.

Il secondo profilo che viene in considerazione è quello relativo alla “libertà di informarsi”. La prospettiva cambia in quanto si passa dal lato “attivo” della libertà di informazione a quello “passivo” focalizzato sulla posizione del soggetto che reclama la disponibilità o l’accesso a una certa informazione. A una lettura superficiale del dettato costituzionale essa non risulterebbe meritevole di una garanzia diretta (in quanto, come si è detto, l’art. 21 fa

29 Corte Costituzionale: Sentenze n. 105/72 e nn. 16 e 18/81

30 A titolo esemplificativo si citano i lavori di BARILE P., Libertà, giustizia e Costituzione Cedam, Padova, 1993; CORASANTINI G., Diritto dell’informazione, Cedam, Padova, 1995; A. PACE., Stampa, giornalismo, radiotelevisione. Problemi costituzionali e indirizzi di giurisprudenza. Cedam, Padova, 1983; ZACCARIA, VALASTRO, ALBANESI, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam, Padova, 2016

(26)

23

riferimento solo al lato attivo del processo di informazione) ma solo in via indiretta attraverso un’attivazione complessiva di altre libertà costituzionali; inoltre, sarebbe direttamente opponibile solo nel momento in cui venisse impedito a un soggetto determinato l’accesso a una fonte o a una notizia in una circostanza specifica (basti pensare al caso in cui venga impedito a un individuo l’accesso a una biblioteca). Può essere inteso come essenziale e strumentale all’esercizio della libertà di informare di cui sopra, e spesso a esercitarla è lo stesso soggetto legittimato successivamente a informare. La “libertà di informarsi” quindi si sostanzia nel “diritto di ricevere e ricercare notizie” nonché nel “diritto di accesso” alle fonti informative. Così ricostruita essa è idonea a costituire in capo a chi possiede tali informazioni (tipicamente lo Stato, la Pubblica Amministrazione ma in certi casi anche privati) un obbligo o dovere di rilasciarle a richiesta quando non si superino confini giustificabili da altri diritti costituzionalmente garantiti e ritenuti prevalenti. “Viene così ad essere definito un vero e proprio “diritto all’informazione” quale pretesa, giuridicamente rilevante, ad ottenere, tanto nei confronti dei poteri pubblici che dei poteri privati, quelle informazioni indispensabili alle relazioni politiche, economiche e sociali di qualsiasi soggetto corrispondenti alle esigenze di piena attuazione dei principi costituzionali di socialità e partecipazione”31.

Alla luce di quanto detto importa chiarire come la libertà di informarsi si qualifichi come “passiva” solo se messa a confronto con la speculare “libertà a informare” e non tanto nel comportamento del suo titolare che si sostanzia comunque in una vera e propria azione positiva, in uno sforzo alla conoscenza e all’informazione. Risulta evidente come la libertà di informarsi sia strettamente riferibile alla “missione” del giornalista che si impegna non solo a non trattenere o censurare informazioni al pubblico nel momento in cui già le possiede ma anche a indagare, cercare, al fine di far emergere fatti e notizie di interesse generale.

(27)

24

Ben diversa è la prospettiva cui si fa riferimento dal momento in cui si parla di “interesse” o addirittura “diritto a essere informato”. In questo caso l’attenzione è interamente posta sul destinatario delle informazioni che risulta assistito da un “interesse generale all’informazione” se non direttamente giustiziabile comunque idoneo a fondare un affidamento del singolo o della collettività a un’informazione completa, sincera e trasparente. Una tale previsione risulta confermata fin dal dettato dell’articolo 1 della L. 6 agosto 1990 n. 223 (cosiddetta “Legge Mammì” sul sistema radiotelevisivo) laddove stabilisce che: “La diffusione di programmi radiofonici o televisivi, realizzata con qualsiasi mezzo tecnico, ha carattere di preminente interesse generale”32. Come sostenuto da Lipari, infatti, dal momento che si dà

all’articolo 21 Cost., “il significato di una garanzia della libertà di informare, abbiamo già compiuto un salto qualitativo rispetto alla semplice libertà di manifestare il proprio pensiero, perché abbiamo già caratterizzato il dettato costituzionale non semplicemente in funzione dell’interesse di chi utilizza il mezzo di diffusione, ma altresì in funzione dell’utilità di un prevedibile destinatario della comunicazione”33. Più scettico è invece Alessandro Pace34, il quale sostiene che una configurazione così netta del “diritto a essere informato” potrebbe spingersi fino a condizionare l’attività e il contenuto delle informazioni diffuse da un emittente. Nel bilanciamento tra “diritto a informare” e ad “essere informato” (che si qualifica come un contro-diritto), il primo sarebbe destinato a soccombere e ciò contrasterebbe con la sua qualificazione di “diritto assoluto”. La Corte costituzionale a sua volta è

32 Per completezza e per meglio comprendere la portata di tale disposizione nel senso di estendere l’applicazione di principi costituzionalmente rilevanti all’attività informativa svolta non solo da emittenti pubbliche ma anche a quelle private, si riporta il testo del comma 2 dello stesso articolo: “Il pluralismo, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni, tendenze politiche, sociali, culturali, religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione, rappresentano i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati ai sensi della presente legge”.

33 LIPARI, Libertà di informare o diritto a essere informati? In Dir. Radiodiff. e telecom. 1978 p.4 cit. in A. Pace Libertà di informare e diritto a essere informati: due prospettive a confronto nell’interpretazione e nelle prime applicazioni dell’articolo 7, comma 1, T.U. della radiotelevisione, in Rivista AIC Diritto Pubblico n.2 2007

34 A. PACE, Stampa, giornalismo, radiotelevisione. Problemi costituzionali e indirizzi di giurisprudenza. Cedam, Padova, 1983

(28)

25

intervenuta nel merito della tutela del diritto all’informazione correlandolo al necessario rispetto del principio pluralistico nel merito dell’attività svolta dai mezzi di comunicazione di massa.

Nel percorso di affermazione del principio la Corte è arrivata a distinguere le due nozioni di pluralismo interno ed esterno. Nel primo caso si fa riferimento alla necessaria apertura del singolo mezzo di informazione a una pluralità di opinioni, tendenze politiche, culturali e religiose nonché al rispetto del principio di imparzialità nell’esercizio dell’attività di impresa. Questo principio è stato sancito dalla Corte costituzionale nella sentenza n.225 del 1974: “La verità è che proprio il pubblico monopolio - e non già la gestione privata di pochi privilegiati - può e deve assicurare, sia pure nei limiti imposti dai particolari mezzi tecnici, che questi siano utilizzati in modo da consentire il massimo di accesso, se non ai singoli cittadini, almeno a tutte quelle più rilevanti formazioni nelle quali il pluralismo sociale si esprime e si manifesta”. La necessità di un pluralismo interno viene rilevata dalla Corte nell’ambito dell’attività svolta in regime di monopolio pubblico come attuazione di un “fine di utilità generale” e nel pieno rispetto dell’articolo 43 Cost., ma può essere estesa in via interpretativa a qualsiasi impresa di informazione o di stampa.

Il pluralismo esterno, invece, si qualifica come garanzia di libero accesso al mercato di informazioni di vari emittenti portatrici di altrettante idee e informazioni diversificate. Quest’ultima condizione è funzionale a garantire non solo una concorrenza economica nel settore ma una pluralità ideologica a vantaggio del pubblico che liberamente sceglie, seleziona e confronta i messaggi fra di loro. Come afferma la Corte costituzionale nel 1988, “il pluralismo dell'informazione radiotelevisiva significa, innanzitutto, possibilità di ingresso, nell'ambito dell'emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi tecnici, con la concreta possibilità nell'emittenza privata - perché il pluralismo esterno sia effettivo e non meramente fittizio - che i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa dei processi di

(29)

26

concentrazione delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o di pochi e senza essere menomati nella loro autonomia”.35

Abbiamo finora analizzato la struttura dell’articolo 21 e la complessa evoluzione dottrinale e giurisprudenziale della libertà di informazione nelle sue diverse sfaccettature.

Come rilevato da Paolo Caretti36, una tale complessità concettuale riflette le posizioni dei due schieramenti opposti in seno all’Assemblea costituente del 1947. Mentre una mirava alla garanzia dei diritti di libertà come tutela dell’individuo contro possibili ingerenze dei pubblici poteri, l’altra invocava una considerazione più ampia e complessa degli stessi da intendere quali strumenti chiave per la piena realizzazione democratica. Sebbene nei primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione risulti prevalente un’interpretazione letterale della norma e quindi una ricostruzione senz’altro più “individualista” e attiva della libertà di informazione, alla luce dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale successiva nonché della sempre maggiore pervasività culturale e politica dei mass media (basti pensare alla televisione, a Internet e ai social media), si è estesa fino ad essere pacificamente riconosciuta nelle sue diverse accezioni. Se questo nell’ordinamento italiano risulta grazie a uno sforzo interpretativo, più evidente risulta dal testo di altre Costituzioni e documenti internazionali che ci avvieremo a richiamare.

1.1.2. La libertà di stampa: il lungo cammino italiano

Ai fini della presente tesi, il profilo che interessa maggiormente è quello

attivo, ossia come già riportato, quello relativo alla “libertà di informare”. Nell’intento di rendere effettiva questa libertà per il singolo individuo, e tanto più per il giornalista nell’esercizio della professione, presupposto essenziale

35 Corte Costituzionale Sentenza n. 826/1988

36 CARETTI P., TARLI BARBIERI G., I diritti fondamentali: Libertà e diritti sociali. Giappicchelli Editore 2017 p. 397-399

(30)

27

è la garanzia della “libertà di stampa” intesa come condizione generale legislativa, economica e politica in cui si trovano a operare le organizzazioni imprenditoriali dell’informazione in un determinato Stato e tempo.

La stampa (e quindi la classe dei giornalisti), si può considerare “libera” quando non è soggetta a condizionamenti, pressioni o addirittura censure provenienti da qualsivoglia fonte di potere, sia essa pubblica o privata. Una tale situazione può risultare garantita sulla carta, ossia dal sistema disegnato dalle norme e dai precetti costituzionali, ma non sempre corrisponde alla prova dei fatti dal momento in cui ci si appresta a indagare gli effettivi rapporti di forza che si celano dietro un’attività imprenditoriale di informazione.

Un’analisi esaustiva viene fornita annualmente dall’organizzazione non governativa Reporters Sans Frontières37 (RSF), consulente delle Nazioni Unite, che redige un rapporto sulla libertà di stampa in base a un questionario proposto a gruppi di esperti (giornalisti, associazioni, osservatori) avente oggetto vari indicatori: (1) rispetto del pluralismo delle fonti informative; (2) effettiva indipendenza politica, economica, religiosa, dei media; (3) autocensura; (4) quadro legislativo generale; (5) trasparenza; (6) infrastrutture e (7) abusi a danno dei giornalisti. Il punteggio, che cresce all’aumentare delle violazioni rilevate, permette così di stilare una classifica fra 180 paesi osservati che, seppur indicativa, è in grado di fornire una rappresentazione globale sul rispetto effettivo del principio in esame38. Nell’ordinamento italiano la libertà di stampa viene tutelata fin dallo Statuto Albertino del 184839. Mentre menzione alcuna viene fatta della libertà di

37 Fondata nel 1985 a Parigi dove ha sede principale, RSF è fra le ONG più importanti che gravitano attorno alle Nazioni Unite; essa svolge indagini e fornisce consulenza sul grado di rispetto della libertà di informazione negli Stati nonché supporto ai giornalisti che si trovano in difficoltà nell’esercizio legittimo della loro professione. Sito web: https://rsf.org/fr/classement.

38 Per dovere di cronaca, secondo il Rapporto 2018 al primo posto, per il secondo anno consecutivo, si trova la Norvegia; l’Italia tra il 2016 e il 2017 è avanzata dalla 77° alla 52° posizione mentre attualmente si trova alla n. 46.

39 FORNO M., Informazione e potere: Storia del giornalismo italiano. Editori Laterza, Roma Bari, 2012 p.26

(31)

28

espressione, l’art. 28 dello Statuto recita: “La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”.

Pochi giorni dopo la promulgazione dello Statuto, viene promulgato l’Editto sulla stampa volto a dare concreta regolazione all’esercizio dell’attività d’informazione40. Pur stabilendo la possibilità di intervento dell’esecutivo ogni qualvolta si verifichi un “abuso” (con una formula volutamente generica) della libertà di stampa e la conformità con il sistema repressivo del Codice penale sabaudo del 1840, l’Editto sancisce, per la prima volta, il divieto delle censure preventive. Era prevista anche la nomina di un “gerente” responsabile per il quale l’articolo 47 stabilisce: “Tutte le disposizioni penali portate a questo capo sono applicabili ai gerenti dei giornali, e agli autori che avranno sottoscritti gli articoli in essi giornali inseriti. La condanna pronunciata contro l'autore sarà pure estesa al gerente, che verrà sempre considerato come complice dei delitti e contravvenzioni commesse con pubblicazioni fatte nel suo giornale”.

Dopo l’unificazione del 1861 non si registrano particolari modificazioni del regime giuridico per la stampa. Secondo Mauro Forno41 essa in questo periodo più che svolgere una funzione informativa (considerando l’elevato grado di analfabetismo, la mancata usanza di partecipazione pubblica, l’elevato prezzo dei giornali) si presta a mezzo per la diffusione del pensiero dell’elité, per l’affermazione del ceto politico dominante, per l’”educazione” del popolo agli ideali patriottici dello neonato Stato Unitario. Nel 1877, al precipuo scopo di porre un freno alla pratica dei duelli, che vedevano spesso come sfortunati protagonisti i giornalisti, venne fondata a Roma l’Associazione della stampa periodica italiana (Aspi) ossia la prima associazione di tutela dei diritti dei giornalisti e di autodisciplina della

40 Dal preambolo dell’Editto: “Mossi Noi da queste considerazioni, dopo di avere nello Statuto fondamentale dichiarato che la stampa sarà libera, ma soggetta a leggi repressive, Ci siamo disposti a stabilire le regole colle quali si abbia a tenere nei Nostri Stati l'esercizio di quella libertà”.

(32)

29

categoria, mentre il primo contratto collettivo di lavoro fu stipulato l’11 giugno 1911.

Con l’avvento del primo conflitto mondiale, le testate giornalistiche italiane si divisero fra chi rifletteva le istanze degli interventisti (rivoluzionari, nazionalisti, liberali) e chi quelle dei neutralisti (socialisti, cattolici e giolittiani). Dall’entrata in guerra dell’Italia si registrano i primi interventi legislativi volti a modificare il regime previsto dallo Statuto Albertino e l’Editto del 1848. In particolare l’articolo 4 della Legge 21 marzo 1915 n. 273 con cui il Parlamento manifestava la volontà di concedere i “pieni poteri” al Governo prevedeva la facoltà dello stesso di “vietare per periodi di tempo, che saranno usati con decreto Reale, la pubblicazione con qualsiasi mezzo di determinate notizie concernenti la forza, la preparazione o la difesa militare dello Stato”. Ancora nello stesso mese e in quelli successivi (in particolare con R.D. 23 maggio 1915 n.675) vengono emanati altri decreti che prevedono una censura preventiva sulla stampa come prerogativa esclusiva del Ministro dell’Interno e delle Prefetture. La stampa diventa lo strumento per veicolare il consenso e tenere alto il morale delle truppe impegnate nel conflitto e della popolazione stremata dalla guerra; per questo si parla di trasformazione in senso propagandistico e contro qualsiasi manifestazione pubblica di disfattismo42.

“Il quarto potere divenne la quarta arma posta a servizio del paese”43.

42 Dalla Gazzetta Ufficiale n.129 del 24 maggio 1915: “La presidenza della Federazione nazionale tra le associazioni giornalistiche comunica il seguente appello alla stampa italiana: “Mentre il Paese si prepara al più arduo e generoso cimento della sua storia e reclama la fedeltà e solidarietà incondizionate di tutti coloro che sentono la fierezza del nome italiano e invocano pari ad esso le sue fortune, la stampa ha un ufficio sempre più alto e delicato da compiere. Deve essa spontaneamente sentire, senza limiti e senza riserve, il vincolo della disciplina nazionale, intendere che al successo immancabile, pure attraverso le vicende varie e dolorose di un aspro conflitto, concorrono, quasi in pari grado della forza delle armi, l'abnegazione e la concordia degli spiriti. Sacrifichi per raggiungerlo ogni secondario interesse, ogni particolare tendenza, ogni reminiscenza di contrasti, irrevocabilmente cessati nel giorno in cui l'Italia risolleva contro il tradizionale nemico la sua bandiera e riprende per il suo diritto e per il diritto dei popoli, la sua battaglia. Il presidente della Federazione della stampa italiana Saltatore Barzilai”.

(33)

30

Se la strumentalizzazione della stampa a fini propagandistici emerge già dalla Grande Guerra, è soprattutto con l’ascesa politica del fascismo (peraltro inizialmente accolta in modo favorevole dalla quasi totalità delle testate giornalistiche) e la successiva instaurazione della dittatura che la libertà di stampa fu di fatto annullata. Mussolini, che fu direttore de “L’Avanti!” fintanto che non sposò una linea interventista nella Grande Guerra, comprese fin da subito il potenziale strategico del rapporto fra stampa e potere. Dalla sua nomina a Presidente del Consiglio nell’ottobre del 1922, si mosse in una linea intimidatoria contro le testate che via via iniziavano ad opporsi all’atteggiamento liberticida del fascismo, tramite un’opera di raccolta sistematica di informazioni su redattori, direttori e giornalisti in generale. Non mancarono inoltre azioni violente, minacce, accuse pubbliche di collusione con organizzazioni sovversive44.

Di seguito i passaggi cruciali del processo di fascistizzazione della stampa. Con il Regio Decreto del 15 luglio 1923 n. 3288 si stabiliva che il ruolo di gerente dovesse essere rivestito dal direttore o da uno dei redattori principali del periodico e si ammetteva il Prefetto, dopo aver udito il parere di un’apposita commissione, a diffidare il gerente in caso di “intralcio all’azione diplomatica del Governo” o “istigazione alla disobbedienza alle leggi o agli ordini dell’autorità”. In tali casi l’autorità di pubblica sicurezza procedeva inoltre al sequestro delle pubblicazioni “senza [necessità di una] particolare autorizzazione”45. Con Legge 31 dicembre 1925 n. 2307 viene istituito l’Albo dei giornalisti (articolo 7) con sede in tutte le città di circoscrizione delle Corti di Appello e contestualmente si sancisce la possibilità di esercitare l’attività

44 “Certo noi non sosteniamo un credo politico intollerante, per il quale sono considerati scervellati, nemici della nazione, traditori della patria coloro che non la pensano come noi. […] Oggi che ci imputano complicità mostruose, ben sapendo che siamo innocenti, oggi chiamiamo responsabili di ogni violenza che ci fosse usata il Governo, il Popolo d’Italia e quei giornali governativi i quali così si esprimono e così ci additano alla vendetta dei loro fedeli.” Dalla prima pagina del Corriere della Sera Milano, martedì 10 luglio 1923. 45 L’effettiva applicazione del decreto si ebbe, in forma ancora più rigida, a partire dal luglio del 1924 per reprimere l’ondata di sdegno sollevata dai giornali liberali dopo il ritrovamento del corpo del deputato Matteotti.

(34)

31

giornalistica ai soli iscritti all’Albo professionale46. L’art. 3 del Regio decreto n.384 del 1928 prevede inoltre che la tenuta e la disciplina degli iscritti siano esercitate dall’Associazione sindacale fascista tramite un Comitato composto da cinque membri nominati dal Ministro della Giustizia di concerto con quelli dell’Interno e delle Corporazioni. Segue infine la soppressione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana (figlia dell’ASPI) e la successiva istituzione del Sindacato unico fascista dei giornalisti.

“Lo Stato fascista si pone come un’entità essenziale, un’unità davanti alla quale l’individuo scompare” scrive Giuseppe Cuomo nella sua opera dedicata alla libertà di stampa in Italia47, “[…] Il suo ruolo non era più di coordinare e di rendere effettive le aspirazioni degli individui, rappresentando esso stesso le aspirazioni degli individui”. Lo Stato è visto come un’istituzione superiore, dotata quasi di vita propria e autonoma, rispetto ai cittadini che lo compongono; esso non riconosce ma “concede”, “ammette” l’esercizio di diritti e libertà. Nel corso di questa deriva autoritaria, le idee e i mezzi attraverso cui esse si diffondono, sono le prime vittime di una persecuzione sistematica che cesserà solo con la caduta del regime e la restaurazione di un sistema liberale basato sui valori sanciti dall’Assemblea nella Costituzione del 1948 nonché nella successiva Legge 8 febbraio 1948 n. 47 concernenti le diposizioni sulla stampa.

1.1.3. Il diritto di cronaca e i limiti del buon costume, dell’onore e della riservatezza

Quando la libertà di informare viene esercitata a mezzo stampa e ha ad oggetto fatti o situazioni ritenuti di interesse generale, assume i connotati della “cronaca”, ossia della “narrazione”, che qualifica un vero e proprio

46 “La trasformazione fondamentale fu che il diritto di manifestare il proprio pensiero attraverso la stampa non costituiva più un diritto soggettivo pubblico del cittadino, non era, come sosteneva il Rocco, un diritto riflesso ma semplicemente una funzione affidata a determinati individui scelti a giudizio insindacabile dal Governo”. Cit. G. CUOMO, Libertà di stampa ed impresa giornalistica nell’Ordinamento Costituzionale italiano pg. 71-72 47 G. CUOMO, op cit. 66

Riferimenti

Documenti correlati

Dalla Francia rivoluzionaria e dalle teorie giusrazionaliste fautrici del primato della legge quale fonte del diritto (parr. 2 e 2.1), l’attenzione sarà così

Paris I Panthéon-Sorbonne); Aleksej Kalc, (Research Centre of the Slovenian Academy of Sciences and Arts-ZRC SAZU); Rolando Minuti (Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia,

DOPO LA MORTE DI CAIO E TIBERIO GRACCO, SCOPPIARONO MOLTE GUERRE TRA PATRIZI E PLEBEI CHE INDEBOLIRONO LA REPUBBLICA?. NEL FRATTEMPO I COMANDANTI DELL'ESERCITO DIVENTARONO SEMPRE

Se possiamo identificare una morale e una coscienza morale comune, possiamo presupporre la possibilità di sviluppare o acquisire una crescita della «morale

Lo mondo è ben così tutto diserto d'ogne virtute, come tu mi sone, e di malizia gravido e coverto;.. ma priego che m'addite la cagione, sì ch'i' la veggia e ch'i' la

Si illustri (descrivendola con un linguaggio appropriato e mediamente comprensibile a una persona che abbia la licenza di scuola media inferiore) qualche

In recent years there have been some profound changes in consumer lifestyles in China; the varying role of women, the ageing of society, smaller families, trends regarding

Il Dipartimento di Culture Politica Società, in collaborazione con Progetto Cittadinanze Centro Piemontese di Studi Africani, CISAO - Centro interdipartimentale di ricerca