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Il modello pluralista polarizzato

la regolamentazione della professione giornalistica

2.1 Il modello pluralista polarizzato

Il primo modello al quale si farà riferimento per organizzare la comparazione relativa all’accesso e alla regolamentazione della professione giornalistica è quello pluralista-polarizzato o, come lo hanno definito Hallin e Mancini, mediterraneo. Questa seconda denominazione suggerisce già l’ambito geografico corrispondente alla zona del Sud Europa, in riferimento quindi agli ordinamenti del Portogallo, Grecia, Italia e Spagna che vengono presi ad esempio. La Francia, secondo gli studiosi, si pone come eccezione, collocandosi a metà strada tra il modello suddetto e quello democratico-corporativo tipico del Nord Europa. Il termine, coniato dal politologo Giovanni Sartori99, viene usato per riferirsi ai sistemi politici caratterizzati da una notevole distanza ideologica tra le forze politiche in campo. Il panorama politico si contraddistingue infatti per una pluralità di voci discordanti e difficilmente conciliabili (da qui la differenza con il modello pluralista moderato). Ciò fa emergere il carattere aggregativo dei grandi partiti antisistema la cui estrema conseguenza è il basso consenso di cui godono la politica e le istituzioni pubbliche in generale.

Il più importante minimo comun denominatore di questi ordinamenti è quello storico: non a caso Spagna, Portogallo e Grecia sono accumunati da una transizione liberale molto recente e pressoché contemporanea, realizzatasi a metà anni ’70. Ad essi si aggiunge l’Italia che, sebbene si sia liberata del regime ben prima, si avvicina ad essi per le caratteristiche tipiche del sistema politico che poi è andato sviluppandosi. Per Hallin e Mancini, “ciò che distingue l’Europa meridionale, e in grado minore la Francia, dal resto dell’Europa occidentale e dal Nordamerica è, principalmente, il fatto che le istituzioni liberali, includendo sia l’industrializzazione capitalista sia la democrazia politica, si sono

99 Nella sua celebre opera Parties and Party Systems: A framework for Analysis, ECPR Press, Colchester, 2005

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sviluppate più tardi rispetto ad altri paesi”100. Specificano, inoltre, che si

avrà un livello di polarizzazione più alto laddove l’opposizione al liberalismo è stata più forte e la transizione verso la democrazia liberale, più lunga e travagliata.

La configurazione del sistema politico tipico del modello pluralista polarizzato si ripercuote inevitabilmente su quello della stampa.

Il sistema dell’informazione si contraddistingue per il mancato sviluppo di una stampa a carattere commerciale basata su una solida tradizione giornalistica autonoma dal potere politico. Questo ha avuto ripercussioni sul mercato di comunicazione di massa, caratterizzato da una bassa circolazione di copie di giornali per abitante, dalla preponderanza del commento sulla semplice cronaca e da un alto livello di parallelismo politico. Le testate giornalistiche tendono infatti a conformarsi a un orientamento politico e non è inusuale che gli stessi giornalisti (quando non addirittura i direttori) siano militanti o affiliati a questo o quel partito. Un tale livello di identificazione ideologica comporta, di conseguenza, che la stampa si rivolga non alla massa generalmente intesa ma alla propria élite di riferimento, generando una reazione a catena che rinforza la sfiducia e il distacco della generalità dei cittadini rispetto ai giornali. Allo stesso tempo è la politica a servirsi dei giornali per veicolare messaggi e promuovere un’ideologia di riferimento.

Altra caratteristica di questo modello è l’ingerenza dello Stato nel sistema di comunicazione. Fatta eccezione per la forma di effettivo controllo della stampa concretizzatasi durante le esperienze dittatoriali, lo Stato ha successivamente manifestato il suo potere di intervento in svariate forme: come proprietario diretto di testate giornalistiche, come finanziatore o regolatore.

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Tutto ciò ha anche ripercussioni sul grado di professionalizzazione degli operatori dell’informazione che risulta molto basso. In questi ordinamenti i giornalisti hanno faticato molto per riuscire a conquistare una loro specifica identità professionale, autonoma rispetto ad altre figure legate al mondo della letteratura o della politica. Meno autonomia professionale non significa però meno capacità o preparazione: i giornalisti spagnoli hanno forse più titoli universitari rispetto ai loro colleghi inglesi o tedeschi e le analisi politiche sono sicuramente più intellettualmente raffinate in questi contesti che in America. È una mera questione di autonomia che, se sicuramente affetta in negativo le potenzialità di espressione del singolo giornalista, non necessariamente lo farà anche rispetto alla sua preparazione.

La scarsa emancipazione della professione giornalistica ha rallentato a sua volta la costituzione di forti organizzazioni sindacali (a differenza dell’Italia, dove l’INPGI gode di un notevole prestigio), mentre non è raro incorrere in forme di riconoscimento statale della professione da considerarsi più come una manifestazione del legame tra giornalismo e Stato che esito dello sviluppo di una professione autonoma101. Altra caratteristica di questo modello è la sostanziale assenza di uniformi procedure per l’accertamento della responsabilità e il debole consenso sugli standard etici e deontologici della professione rispetto al modello democratico-corporativo del nord Europa (dove non solo esistono le regole ma vengono anche generalmente accettate e rispettate in quanto avvertite come giuridicamente vincolanti).

Di seguito si analizzeranno l’evoluzione della professionalizzazione in due ordinamenti esemplari del modello pluralista polarizzato, quello italiano e quello spagnolo.

101 Esempi sono l’Ordine dei giornalisti in Italia, la Commision de la Carte in Francia e Comissão da Carteira Profissional de Jornalista in Portogallo

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2.1.1 L’Ordine dei giornalisti: un unicum tutto italiano

Gino Falleri, nel suo recente saggio Giornalisti: doveri e regole102, ritiene che il luogo comune legato all’Ordine dei giornalisti in Italia consista nel considerarlo un’istituzione di origine fascista. Come abbiamo già accennato (vedi 1.1.3), uno dei passaggi fondamentali del processo di fascistizzazione della stampa consisteva infatti nella costituzione di un Albo dei giornalisti (art. 7 della L. 2307/25), in modo tale da circoscrivere la possibilità del legittimo esercizio dell’attività informativa ai soli iscritti riuscendo quindi ad esercitare un forte controllo sulla linea editoriale. Di fatto, però, la costituzione successiva del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti nonché l’intervento della legge sulle corporazioni (L. 563/26), che prevedeva il divieto di istituire albi professionali, bloccarono il progetto sul nascere. Fu solo con il Regio Decreto n. 384/28 che l’Albo professionale dei giornalisti vide effettivamente la luce prevedendo una suddivisione dello stesso in tre diversi elenchi: professionisti, praticanti e pubblicisti. A questo punto, però, si era già ben lontani dall’idea che lo aveva originariamente ispirato. Per ricostruire il primo antecedente storico dell’attuale Ordine, regolato dalla L. 69/63, è necessario, infatti, risalire agli inizi del Novecento ossia al contesto legislativo dominato dall’ottica liberale dello Statuto Albertino e dell’Editto sulla stampa, nonché caratterizzato da un forte spirito di associazionismo territoriale. In particolare l’Associazione della stampa periodica italiana (ASPI), costituitasi nel 1877 al fine di proteggere i diritti acquisiti di quelli che venivano chiamati gli “scrittori dei giornali” e rivendicare nuove tutele in ambito lavorativo, nel 1902 ispirò la costituzione di una commissione parlamentare presieduta dall’onorevole Luigi Luzzatti che mirava a un riconoscimento giuridico della categoria e quindi implicitamente alla costituzione di un ordine professionale. Il progetto di legge che ne derivò non fu mai compiuto ma puntava a un rafforzamento degli argini liberali a favore dei giornalisti e della libertà di stampa, quindi con un

102 FALLERI G., Giornalisti: doveri e regole; Centro di documentazione giornalistica, Roma, 2018 pag. 34

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senso diametralmente opposto a ciò che poi fu concretizzato sotto il regime fascista.

Fu dal secondo dopoguerra che l’idea originaria di Luzzatti sull’opportunità di costituire un ordine professionale in grado di garantire un elevato standard di informazione e un’adeguata tutela degli operatori del settore, fu ripresa. Il 26 luglio 1943, ventisette giornalisti si riunirono a Roma a Palazzo Marignoli ricostituendo la soppressa Federazione nazionale della stampa italiana. Già in questa sede ci si interroga su quale strada intraprendere, se eliminare tout court o riconvertire l’Albo fascista. Si opta per la seconda opzione e con il decreto legislativo luogotenenziale n. 302/44 si affida, fintanto che non saranno emanate nuove norme sulla professione giornalistica, la gestione dell’Albo e la disciplina degli iscritti ad una commissione composta da non più di quindici membri, nominati dal Ministro della grazia e giustizia, sentiti il Sottosegretario di Stato per la stampa e le informazioni e la FNSI. Ulteriori desideri di rinnovamento furono espressi poi nel corso del primo Congresso della ricostituita FNSI, tenutosi a Palermo il 6 ottobre 1946, e per mezzo di successivi progetti di legge formulati da parlamentari quali Aldo Moro e Guido Gonella ma, di fatto, questa normativa rimase in vigore fino alla già citata L. 69/63.

Che l’Italia sia l’unico paese al mondo a prevedere un Ordine professionale, e, quindi, un riconoscimento giuridico da parte dello Stato e una regolamentazione a carattere pubblico, è cosa nota. Negli altri ordinamenti esistono perlopiù strutture a carattere associative (seppur in taluni casi molto estese), che tendenzialmente si dotano di sistemi di autoregolamentazione e vigilanza sul corretto esercizio dell’attività giornalistica svolta dai loro iscritti. Un Ordine è invece un ente pubblico, regolato da una legge dello Stato. Tale particolarità ha sempre sollevato dubbi sulla convenienza del suo mantenimento anziché rendere libero l’accesso alla professione come avviene, per esempio, nei paesi anglosassoni. Perplessità sulla tenuta dell’Albo ci sono sempre state, fin dall’entrata in vigore della legge del 1963.

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Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 11/68. La Corte era stata chiamata a dirimere il potenziale contrasto fra l’art. 45 della L. 69/63 laddove prevede che nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista se non è iscritto nell’elenco dei professionisti ovvero in quello dei pubblicisti dell’Albo istituito presso l’Ordine regionale o interregionale competente e l’art. 21 della Costituzione che invece vorrebbe riconosciuta a tutti la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero attraverso una pluralità di mezzi fra cui, ovviamente, la stampa. Premesso che “non spetta alla Corte valutare l’opportunità della creazione dell’Ordine, perché l’apprezzamento delle ragioni di pubblico interesse che possano giustificarlo appartiene alla sfera di discrezionalità riservata al legislatore”, la Corte stabilisce che la legge impugnata disciplina l’esercizio professionale giornalistico e non l’uso del giornale come mezzo della libera manifestazione del pensiero. Il diritto di espressione di tutti sarebbe invece certamente leso se solo gli iscritti all’albo fossero legittimati a scrivere sui giornali, ma è da escludere che una siffatta conseguenza derivi dalla legge. Ne costituisce riprova […] l’esplicita disposizione contenuta nell’art. 35 […] il quale dimostra che la stessa legge considera pienamente lecita anche la collaborazione ai giornali che non sia né occasionale né gratuita. In definitiva, la Corte sancisce che l’appartenenza all’Ordine non è condizione necessaria per lo svolgimento di un’attività giornalistica che non abbia la rigorosa caratteristica della professionalità. La violazione dell’art. 45 della L. 69/63, alla luce di quanto appena chiarito, è perseguibile penalmente in quanto potenzialmente in grado di qualificare la fattispecie di usurpazione di titoli e onori (art. 498 c.p.) o abusivo esercizio della professione (art. 348 c.p.), ove il fatto non costituisca reato più grave.

L’art. 1 della L. 69/63, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, prevede che ad esso appartengano i giornalisti professionisti e pubblicisti iscritti nei rispettivi albi, definendo i primi come coloro che esercitano in modo esclusivo e continuativo la professione di giornalista e i secondi, quelli che svolgono attività giornalistica non occasionale e retribuita anche se esercitano altre

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professioni o impieghi. Le funzioni relative alla tenuta dell’Albo, e quelle relative alla disciplina degli iscritti, sono esercitate dai Consigli dell’Ordine regionale e interregionali da individuare nel Regolamento e da un Consiglio dell’Ordine nazionale. I Consigli regionali o interregionali, composti da sei professionisti e tre pubblicisti con almeno cinque anni di anzianità di iscrizione ed eletti dagli stessi iscritti (art. 3), vigilano sull’osservanza della legge professionale e la tutela del titolo di giornalista in qualunque sede, anche giudiziaria; curano la tenuta dell’albo, provvedendo alle iscrizioni e cancellazioni; adottano provvedimenti disciplinari; provvedono all’amministrazione dei beni di pertinenza dell’Ordine e compilano annualmente il bilancio preventivo e il conto consuntivo e fissano le quote annuali dovute; vigilano infine sulla condotta e sul decoro dei giornalisti iscritti.

Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, con sede unica a Roma, è composto in ragione di due professionisti e un pubblicista per ogni Ordine regionale o interregionale (art. 16). Ad esso sono attribuite funzioni consultive del Ministro della Giustizia sui progetti di legge e di regolamento che riguardano la professione di giornalista; di coordinamento e promozione delle attività culturali intese al miglioramento ed al perfezionamento professionale; giudicanti in via amministrativa, sui ricorsi avverso le deliberazioni dei Consigli degli Ordini in materia di iscrizione e di cancellazione dagli elenchi dell’albo e dal registro, sui ricorsi in materia disciplinare e su quelli relativi alle elezioni dei Consigli degli Ordini e dei Collegi dei revisori. Gli spetta inoltre la redazione del regolamento per i ricorsi e degli affari di sua competenza, e la fissazione delle quote annuali dovute dagli iscritti per le spese del suo funzionamento.

Il Titolo II della L. 69/63 si occupa della disciplina specifica dell’albo relativa alle procedure di iscrizione, trasferimento e cancellazione nonché dell’esercizio della professione. L’art. 26 stabilisce che presso ogni Consiglio dell’Ordine regionale o interregionale sia istituito l’albo dei giornalisti che hanno la loro residenza o il loro domicilio professionale nel territorio

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compreso nella circoscrizione del Consiglio, mentre i giornalisti che abbiano la loro abituale residenza fuori del territorio della Repubblica sono iscritti nell’albo di Roma. All’albo sono annessi gli elenchi dei giornalisti di nazionalità straniera e di coloro che, pur non esercitando l’attività di giornalista, assumano la qualifica di direttori responsabili di periodici o riviste a carattere tecnico, professionale o scientifico, esclusi quelli sportivi e cinematografici (art. 28).

Le procedure di iscrizione all’Albo si differenziano a seconda che si intenda accedere all’elenco dei professionisti o dei pubblicisti. Per i primi, l’art. 29 richiede un’età non inferiore agli anni 21, la previa iscrizione nel registro dei praticanti, l’esercizio continuativo e retribuito della pratica giornalistica per almeno 18 mesi con relativa dichiarazione rilasciata dal direttore della redazione presso cui è stata svolta la pratica e l’esito favorevole della prova di idoneità professionale regolata dall’art. 32 e dal decreto attuativo Dpr n. 115/65. Anzitutto l’iscrizione nel registro dei praticanti è ammessa per tutti coloro che avendo almeno 18 anni intendano avviarsi alla professione giornalistica previo superamento di un esame di cultura generale o ottenimento di un titolo di studio non inferiore alla licenza di scuola media superiore, che tra l’altro, rappresenta l’unico titolo di studio richiesto per accedere alla professione. L’art. 34 prevede per l’ente ospitante una serie di requisiti strutturali ai fini del riconoscimento: deve trattarsi della redazione di un quotidiano, di una radio, di una televisione, o di un’agenzia quotidiana di stampa a diffusione nazionale con almeno 4 giornalisti professionisti redattori ordinari, o di un periodico a diffusione nazionale e con almeno 6 giornalisti professionisti redattori ordinari103.

103 Stante la sempre maggiore difficoltà di trovare redazioni che soddisfino tali requisiti numerici, il Consiglio nazionale dell’Ordine ha adottato con decisione 5 luglio 2002 una serie di criteri interpretativi per cui, pur in assenza di tali condizioni, i Consigli regionali e interregionali possono comunque procedere all’iscrizione nel registro dei praticanti qualora accertino condizioni di consistenza redazionale ed organizzativa, tali da assicurare al tirocinante la più ampia conoscenza e la più articolata esperienza dell’attività giornalistica. Per quanto riguarda la composizione della redazione, essa può essere costituita da giornalisti professionisti e pubblicisti con rapporto di lavoro a tempo pieno o di collaborazione coordinata e continuata. In ogni caso si rende necessaria la presenza di almeno un giornalista

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Concluso il periodo per la pratica (da notare che il soggetto non può rimanere iscritto nel registro per più di tre anni), dovrà ricevere a richiesta dal direttore responsabile della pubblicazione una dichiarazione motivata sull’attività giornalistica svolta104. Successivamente è ammesso a sostenere l’esame abilitativo consistente in due prove, scritta e orale, tese a comprovare la conoscenza delle regole giuridiche, etiche e professionali che riguardano il giornalismo. L’aspirante giornalista pubblicista invece è chiamato a compilare una domanda corredata da giornali e periodici contenenti scritti da lui firmati e dai certificati dei direttori delle pubblicazioni, che comprovino l’attività pubblicistica regolarmente retribuita da almeno due anni (art. 35 L.69/63)105. Giova ricordare che questa seconda procedura, molto più snella, è appannaggio esclusivo di chi intenda conseguire il titolo di giornalista pubblicista e quindi conservare la possibilità di esercitare altre professioni e mansioni anche in via prevalente, anziché dedicarsi in via esclusiva all’attività giornalistica.

L’art. 38 della L. 69/63 tratta della cancellazione dall’albo in caso di perdita del godimento dei diritti civili, da qualunque titolo derivata, o di perdita della cittadinanza italiana106. Ancora, debbono essere cancellati dall’albo coloro che abbiano riportato condanne penali che importino inter interdizione perpetua dai pubblici uffici, mentre nel caso di interdizione temporanea

professionista con rapporto di lavoro a tempo pieno che svolga funzioni di tutor nei confronti del praticante.

104 L’art 43 del Dpr n. 115/65 prevede che il direttore della pubblicazione o del servizio giornalistico è tenuto, a richiesta dell'interessato all'immediato rilascio della dichiarazione. Ove il direttore, senza giustificato motivo, ometta o ritardi l'adempimento di tale obbligo, il Consiglio regionale o interregionale competente, informato tempestivamente dall'interessato, adotta le iniziative del caso per il rilascio della dichiarazione, ricorrendone le condizioni. È fatta, comunque, salva – ove ne ricorrano gli estremi – l'azione disciplinare prevista dall'art. 48 della legge.

105 L’art. 34 del Regolamento 115/65 specifica più nel dettaglio che l’attività debba riferirsi al biennio precedente alla presentazione della domanda. Si sofferma inoltre sulle circostanze relative a chi consegni articoli e documenti non firmati, i quali saranno accettati purché certificati dal direttore responsabile, o chi abbia invece svolto un’attività presso radio, televisioni, agenzie di stampa e telegiornali o a mezzo di altri supporti elettronici che rientrino comunque nell’ottica di attività giornalistica.

106 In questo secondo caso, tuttavia, il giornalista è iscritto nell’elenco speciale per gli stranieri, qualora concorrano le condizioni previste dall’articolo 36, e ne faccia domanda. (art. 38.2 L. 69/63)

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l’iscritto è sospeso di diritto durante il periodo di interdizione. Il giornalista è cancellato dall’elenco dei professionisti, quando risulti che sia venuto a mancare il requisito dell’esclusività professionale, ma può essere trasferito nell’elenco dei pubblicisti, ove ricorrano le condizioni di cui all’articolo 35, e ne faccia domanda. È infine disposta la cancellazione dagli elenchi dei professionisti o dei pubblicisti dopo due anni di inattività professionale. Tale termine è elevato a tre anni per il giornalista che abbia almeno dieci anni di iscrizione.

Per quanto concerne l’accesso alla professione, oltre le vie già illustrate per professionisti e pubblicisti, per così dire “ordinari”, va sempre più consolidandosi quella alternativa delle scuole di giornalismo riconosciute dall’Ordine. In tutta Italia quelle ufficialmente convenzionate sono 12: si qualificano come Master post laurea (pur non essendo questa necessaria ai fini dell’iscrizione nel registro dei praticanti), hanno durata biennale e prevedono una selezione molto ristretta di partecipanti, cui verrà impartita una formazione teorica e tecnica sostitutiva del periodo di praticantato per poter accedere all’esame professionale.

In oltre 50 anni dalla sua costituzione, l’Ordine è stato più volte messo in discussione e ciò, sia per una difficoltà oggettiva di adattare le sue regole al mutato sistema dell’informazione o al mercato del lavoro caratterizzato da un crescente precariato, sia per la questione sull’esistenza stessa di un Ordine professionale come quello italiano. Un ultimo cenno va quindi alle critiche e ai numerosi tentativi di abolire l’Ordine succedutisi nelle varie legislature. Primo fu Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica tra il 1948 e 1955, che affidò le seguenti dure parole al suo saggio “Il buongoverno”107: Albi di giornalisti! Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa.

Da quel momento, ciclicamente, la questione della soppressione dell’Ordine fu spesso invocata da questa o quella forza politica ma certamente, l’attacco

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più duro che portò gli stessi cittadini a interrogarsi sull’opportunità di mantenerlo in vita fu promosso dai Radicali a partire dagli anni ’70. Nel 1997 la questione fu proposta ai cittadini nel pacchetto di Referendum abrogativi con il quesito Volete voi che sia abrogata la legge 3 febbraio 1963, n. 69, nel