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L’importanza di una professione

Oggetto di questa tesi è stato quello di delineare la figura del giornalista professionista lungo lo scenario relativo alla regolamentazione, prevista in diversi ordinamenti, della sua attività tipica. La prospettiva comparata, in questo senso, ha permesso un confronto a tre livelli: quello costituzionale relativo alla libertà di informare, quello legislativo circa le regole sull’accesso e l’esercizio dell’attività giornalistica in senso stretto e quello fattuale, ossia del modo in cui legislatori e giudici hanno via via affrontato le nuove sfide poste dalla rivoluzione tecnologica e comunicativa e la conseguente, inevitabile, trasformazione del professionista addetto.

Nella prima parte si è potuto accertare come il giornalista rivesta un ruolo chiave nel processo di formazione dell’opinione pubblica. La sua funzione, oltreché diritto e dovere, è quella di informare i cittadini, ossia renderli edotti non solo su ciò che accade in cronaca o per effetto fortuito nella sfera pubblica ma anche su ciò che deriva da approfondite indagini e analisi politiche nello svolgimento dei pubblici poteri. Essi si pongono, o si dovrebbero porre, a tutela della conoscibilità di fatti di pubblico interesse (considerati tali perché idonei ad avere un riflesso nell’opinione) in modo tale da assicurare la libera scelta e il pieno compimento del principio democratico al momento elettorale. In questo senso, si comprendono le celebri metafore che vedono i giornalisti come cani da guardia della democrazia e il giornalismo in generale quale Fourth Estate. Il ragionamento diventa ancora più chiaro quando si considera la libertà di informare (di cui il giornalista non è titolare esclusivo ma certamente quello privilegiato) quale specificazione della libertà individuale di manifestazione del pensiero, o di espressione, riconosciuta a tutti e attraverso una pluralità di mezzi. Recita l’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la

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propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

La libertà di espressione, pietra angolare dell’ordine democratico, e quella di informazione in tutte le sue varianti (“libertà di informare”, “di informarsi”, “diritto a essere informati”) sono, quindi, due facce della stessa medaglia e funzionano tanto come presidio garantistico riconosciuto alla totalità dei consociati quanto come leva e condizione imprescindibile al corretto esercizio dell’attività giornalistica di tipo professionale. Si consideri, ad esempio, l’evoluzione del diritto di cronaca, quale ius narrandi, che, se esercitato nel rispetto dei limiti previsti (“buon costume”, “riservatezza”, “onore”, “ordine pubblico”) e in presenza dei requisiti richiesti (“rilevanza sociale della notizia”, “verità”, “continenza”) funziona come esimente penale per reati anche potenzialmente molto lesivi come la diffamazione. Tutto ciò è propedeutico per comprendere l’elevata considerazione riconosciuta dall’ordinamento democratico al giornalista professionista, inteso come principale operatore del sistema comunicazione. Ogni singolo Stato, poi, risponde alla propria storia giuridica, economica e sociale riflettendo altrettanti approcci nella regolamentazione della professione nello specifico. Nel 2004 Paolo Mancini e Daniel C. Hallin hanno tentato di sintetizzare alcuni modelli di giornalismo in base al rapporto esistente tra stampa e sistemi politici e uno dei criteri distintivi adottati è stato proprio quello dello sviluppo della professionalizzazione. Nel modello pluralista polarizzato, prevalente nell’Europa mediterranea, la professione giornalistica si è evoluta lentamente, conquistando una tardiva emancipazione dalle altre professioni, ed è tuttora caratterizzata da una maggiore dipendenza economica dalla classe politica; sono comuni i tentativi di regolamentazione pubblica tramite la creazione di enti pubblici preposti alla rappresentanza (come l’Albo dei giornalisti in Italia e i Colegios profesonales in Spagna) e il rispetto delle regole deontologiche è spesso affidato a un organo ad hoc con potere di emanare sanzioni disciplinari.

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Al contrario, nel modello liberale tipico degli ordinamenti anglosassoni, domina la regola del mercato e quindi di libero accesso alla professione: non sono richiesti particolari requisiti formativi e sono assenti organismi con rappresentanza esclusiva della categoria. Le associazioni sindacali sono, invece, fortemente radicate e si fanno promotrici di linee guida di condotta etica per la buona pratica professionale. Infine, nel modello democratico corporativo, tipico dell’Europa continentale e settentrionale, coesistono caratteristiche apparentemente discordanti ma sorprendentemente coerenti: forti industrie commerciali, mass media politicizzati e con un alto grado di parallelismo politico; un alto livello di parallelismo politico coesistente con un’altrettanta elevata professionalizzazione giornalistica.

La comparazione non ha, generalmente, lo scopo di eleggere un modello migliore rispetto ad un altro, ma mira ad indagare il motivo per cui un sistema assume un determinato assetto in un dato contesto, con il fine di far emergere similitudini e contrasti tra gruppi differenti. Per questo non si può affermare che il modello giornalistico degli Stati Uniti (sebbene probabilmente sia quello più popolare nell’immaginario comune), votato alla regola dell’objectivity e della notizia pura, sia migliore rispetto a quello dell’Europa mediterranea dove il giornalista assomiglia più all’opinionista ed è capace di raffinate analisi politiche.

La descrizione comparata degli elementi e delle regole che caratterizzano la professione giornalistica risponde anche all’esigenza di definire l’identità del professionista in ciascun ordinamento, in modo tale da tracciare un confine rispetto a chi giornalista non è. La questione risulta tanto più urgente quanto emergono fenomeni che minacciano ed erodono il perimetro di competenza esclusiva del professionista. Il riferimento è, come abbiamo avuto modo di approfondire, al citizen journalism inteso come progressivo coinvolgimento dell’utente digitale comune nel processo di ricezione e successiva diffusione di informazioni. Da considerare sono anche gli effetti della crisi economica come il crescente ricorso in ambito lavorativo a formule di inquadramento professionale che incentivano un trattamento precario, privo delle dovute

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garanzie ostacolando di fatto la consolidazione della categoria professionale in generale. Un altro elemento da tenere presente è la particolare volubilità del settore economico dell’informazione tout court che risente profondamente dell’innovazione digitale e tecnologica. Già da queste poche considerazioni risulta già un quadro complesso, in cui l’identità del giornalista professionista appare piuttosto confusa e difficilmente inquadrabile, specialmente in quegli ordinamenti in cui il titolo non dipende dall’iscrizione o meno in un apposito elenco professionale.

Consideriamo, inoltre, il percorso di affermazione di altre professioni liberali come quella medica e legale: queste sono andate consolidandosi contestualmente alla costituzione di un “sapere” esclusivo, trasmesso da istituzioni preposte allo scopo, le Università, e a una sostanziale chiusura del mondo professionale giustificata dal riconoscimento di una specifica funzione pubblica all’esercizio della stessa (per la professione medica, la salute pubblica; per quella legale, la giustizia). Ma, mentre non esiste un diritto costituzionale a praticare interventi sulle persone, né difendere un individuo in Tribunale, si è avuto modo qui di verificare l’esistenza del diritto di informare a titolarità diffusa. Come tracciare allora il confine tra chi esercita professionalmente l’attività giornalistica e chi dispiega il proprio diritto individuale a informare? Per rispondere al quesito bisogna anzitutto dimostrare l’esistenza effettiva di una “professione giornalistica”. I requisiti indicati da Greenwood204 sono tutti sussistenti: una teoria sistematica intesa

come complesso di conoscenze specifiche ed esclusive; l’esistenza di una “comunità” di professionisti dotata di una propria identità specifica e autonoma e, infine, un complesso di norme etiche (codici deontologici) che si giustificano in relazione alla tutela dello specifico interesse pubblico cui tende la professione. Seguendo lo schema di Greenwood, forse a vacillare, è l’elemento dell’autorevolezza della categoria, ben percepibile, invece, nel caso di altre professioni intellettuali liberali.

204 GREENWOOD E., Attributes of a profession, Social Work, Vol. 2, Luglio 1957 pg. 45- 55

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Il giornalista ha sicuramente perso, infatti, il prestigio di cui godeva in tempi passati quando l’immagine del reporter si confondeva con il mito del difensore della verità e del cittadino comune contro i poteri forti costituiti. Oggi il giornalista fa parte di una categoria bistrattata, spesso accusata su più fronti di essere collusa con il potere (basti pensare ai recenti attacchi della classe politica italiana) o comunque di non rivestire più quel ruolo di gatekeeper come precedentemente inteso. Questo, unito all’apertura di innumerevoli canali e possibilità di comunicazione dal basso ha definitivamente messo in crisi la professione.

Se è vero, come evocato da Gennaro Carotenuto e Sergio Maistrello205, che grazie a Internet si andrà verso una progressiva commistione di piani comunicativi (istituzionali e non), al termine di questa disamina appare determinante riscattare una riserva di competenza esclusiva a favore di una specifica categoria di professionisti da attuare mediante un rinnovamento delle leggi antiquate che regolano ancora l’assetto della categoria o pronunce giurisdizionali innovative. Solo in questa maniera sarà possibile circoscrivere e rinforzare gli argini di diritti e responsabilità riconosciuti in capo ai professionisti, assicurare un seguito agli atti di buon giornalismo etico e responsabile, scongiurando gli spettri della disinformazione, della precarietà e della confusione regolamentare.

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Sono stati anni importanti, di cambiamenti, traslochi, di indimenticabili vittorie e sconfitte, anni in cui ho cominciato a capire chi ero e, forse, chi volevo diventare. Ho iniziato questo percorso non credendomi all’altezza e titubando a ogni passo. Se sono andata avanti è grazie a chi mi è sempre stato accanto e non ha mai smesso di credere in me. Ringrazio per questo i miei fantastici genitori, Lucia e Gino, che hanno patito l’ansia di ogni esame come se dovessero farlo loro e assecondato la mia voglia di esplorare il mondo al solo scopo di poter tornare sempre a casa. Siete e sarete sempre il miglior esempio che potessi avere. Ringrazio mio fratello Mauro, che brontola e fa lo scorbutico ma è un punto fermo con la grande capacità di trovare le (seppur poche) parole giuste al momento giusto. Ringrazio Agnese, la mia sorella acquisita, per tutte le volte che abbiamo perso la voce cantando in macchina su e giù per la Versilia rischiando di rimanere a piedi ad ogni curva. Ringrazio le mie zie Annarosa e Silvia, i miei zii, i miei cugini e Boris e Carla. Ringrazio Tommy e la Mina, per tutti gli anni di compagnia e tenerezza. Un pensiero va, infine, a tutte le meravigliose persone che ho incontrato in questo viaggio: le mie prime coinquiline Alessandra e Mati e tutta l’allegra carovana “diggiù”; gli amici di Granada, Raffalele, Claudio, Valle e Vargas, Agnese, Angela e Lucia; quelli di Lisbona, Ale e Ale, Annamaria, Caterina e Veronica; i “pisani” della seconda era, Giulia, Mika, Merilou, Sara, la Massa, Natalie, Eleonora (“ci si farà?”), tutti i ragazzi di Radioeco e, infine, quelli di sempre, la Svale, Giulia, Caterina, Emiliano. Ringrazio Michele che mi ha insegnato quanto è bello il mare regalandomi un'altra parte di mondo che spero esploreremo insieme.

Vi voglio bene.