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La fine del monopolio dell’informazione e il fenomeno del citizen

La crisi del giornalismo professionale

3.3 La fine del monopolio dell’informazione e il fenomeno del citizen

journalism

Uno dei recenti fenomeni che minaccia ulteriormente di alterare le logiche che distinguono i professionisti dai non-professionisti è quello del cosiddetto giornalismo partecipativo, anche detto citizen journalism o open source journalism. Si tratta di un fenomeno caratterizzato dalla crescente partecipazione e coinvolgimento della cittadinanza nel sistema di produzione (news making) e successiva diffusione di notizie e informazioni, reso possibile da vari fattori, tra cui: (a) la crescente disponibilità ad ogni livello di strumenti di registrazione e diffusione di notizie prima riservati ad una determinata categoria di persone che ne faceva uso esclusivamente per motivi professionali; (b) l’avvento di Internet e dei network a condivisione istantanea e gratuita (come i blog e i social); (c) una progressiva trasformazione del mercato dell’informazione che predilige sempre più la rapidità della trasmissione rispetto all’approfondimento.

In precedenza abbiamo trattato del confine, individuato da legge e giurisprudenza, che separa la legittima attività giornalistica svolta da non professionisti da quella professionale in senso stretto, con l’intento di dimostrare che sussiste una differenza tra i due contesti. In questo paragrafo ci si soffermerà piuttosto sull’analisi del fenomeno del citizen journalism in sé, cercando di prevedere gli scenari futuri di progressiva commistione tra l’informazione mainstream e quella spontanea.

Il fenomeno si è palesato, manifestando unicamente il suo lato “positivo”, in occasione di eventi catastrofici che richiedevano una copertura mediatica in tempo reale fin dal momento successivo all’accaduto senza attendere l’arrivo di giornalisti professionisti, freelance o inviati dei media tradizionali. Molte vittime e sopravvissuti a tragedie come l’11 settembre 2001, l’uragano Katrina (2005) o il terremoto di Haiti (2010) si sono ritrovati, loro malgrado, ad essere gli unici in grado di raccontare e documentare quello che stava accadendo. Le immagini e i video realizzati trovavano poi amplissima diffusione grazie alle piattaforme di condivisione open source come YouTube,

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o i singoli blog che poi venivano raggruppati in siti di raccolta tematica. Perfino le testate giornalistiche si sono trovate a far circolare prodotti realizzati da non professionisti, persone senza un background formativo specifico, senza coscienza delle regole, dei limiti deontologici della professione o anche solo dell’origine del fenomeno al quale stavano assistendo.

È il principio del “trovarsi al posto giusto nel momento giusto” a fare del semplice cittadino con uno smartphone un informatore.

Se questo è stato l’esordio del fenomeno va detto che la sua successiva consolidazione nel tempo non è certo dovuta esclusivamente alla mera circostanza temporale. Stuart Allan, professore in giornalismo e comunicazione alla Cardiff University, ha ipotizzato, a questo proposito, una distinzione tra citizen witness e citizen journalism, sulla base dell’intenzione di ricerca o mera circostanza che trasforma il cittadino in reporter189. Quella che si è descritta in precedenza, infatti, è la modalità più semplice del fenomeno, funzionale a comprendere come questo è nato: Steve Outing190 ne descrive, invece, ben undici gradualità, che vanno dalla possibilità interattiva del singolo cittadino con l’autore di un determinato articolo (tramite il tasto “commenta”), alla gestione di spazi di approfondimento personale in Rete fino ad arrivare a vere e proprie forme collettive organizzate in modo quasi concorrente alla stampa tradizionale. Outing prevede un coinvolgimento crescente e inevitabile dell’utente in Rete nel circuito di produzione e diffusione delle informazioni con inevitabili ripercussioni e frizioni con il sistema tradizionale. In questo senso i citizen journalists sono anche coloro che, mossi da un interesse personale, un istinto o in taluni casi da un dovere morale, trattano questioni e tematiche a prescindere da un evento scatenante

189 ALLAN S., Citizen witnessing: revisioning journalism in times of crisis, Cambridge, Polity Press 2013

190 OUTING S., , The 11 layers of citizen journalism, Poynter Online, 1 giugno 2005 disponibile all’indirizzo https://www.poynter.org/news/11-layers-citizen-journalism

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con un intento finalistico proiettato al bene pubblico molto simile a quello che spinge i giornalisti professionisti.

Alla circostanza della crescente partecipazione dal basso al processo informativo si aggiunge la profonda crisi del modello economico della carta stampata, e dei media tradizionali in generale, che ha progressivamente modificato anche la mansione del giornalista professionista. Gennaro Carotenuto191 racconta, infatti, come oggi il reporter sia sempre meno abituato a viaggiare, a vedere per comprendere, a fare esperienza in prima persona di una data situazione o di un dato contesto per essere in grado non solo di assolvere una funzione di mera trasmissione di un messaggio ma anche di rielaborazione critica dello stesso. Sempre più spesso il giornalista rimane chiuso nella sua redazione e da lì racconta il mondo per come gli viene descritto dalle agenzie di stampa. Riprendendo la definizione di giornalista professionista che dà la Cassazione192, quello che viene a mancare è “l’apporto soggettivo e inventivo” che segue all’acquisizione della conoscenza dell’evento, ossia, di base, ciò che distingue l’attività di informazione vera e propria dalla semplice comunicazione. Questo ovviamente non è dovuto a un’attitudine pigra del professionista, ma a problemi endogeni del mercato dell’informazione che hanno costretto le imprese giornalistiche a tagliare costi, personale e budget per la realizzazione di inchieste e reportage. La figura dell’inviato sta progressivamente scomparendo a favore delle centinaia di giovani leve che, senza adeguata protezione e garanzie, partono alla volta dei “paesi caldi” per raccontare gli avvenimenti in prima battuta. Allo stesso tempo, dove non arriva l’informazione mainstream, spesso arrivano i cosiddetti cittadini medioattivi. A incentivare ancora di più la concorrenza dei sistemi di informazione non professionali è la difficoltà della stampa tradizionale ad adattarsi ai mutati schemi di comunicazione interpersonale in rete.

191 Carotenuto G., Giornalismo partecipativo, storia e critica dell’informazione al tempo di Internet, Nuovi Mondi, 2009 pag. 29-45

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Per anni il corrispettivo online dei media tradizionali ha assunto la fisionomia della “rete-calco”, ossia della mera trasposizione dei contenuti pubblicati sulla carta stampata alla versione web. Il sostanziale fallimento di questo atteggiamento, unito alla questione spinosa della gratuità dell’accesso alle informazioni che contraddistingue le piattaforme online, hanno spinto verso la costruzione di sezioni premium a pagamento per restituire dignità al lavoro dei professionisti impegnati in queste pubblicazioni e per accrescere una consapevolezza generale sulla necessità di valutare economicamente un prodotto ben fatto. In questo senso i media tradizionali non hanno mai fatto innovazione ma l’hanno sempre subita. Con il tempo le filiere di produzione informativa iniziano a differenziarsi e si delineano le regole stilistiche della comunicazione sul web. Ma, nonostante passi verso l’integrazione siano stati compiuti193, il giornalista online fatica tuttora a trovare una propria dignità professionale e lavorativa a favore invece di una categoria di persone che si dedica a condividere le proprie conoscenze o a fare informazione a titolo gratuito e senza interessi di profitto.

Al contrario, infatti, per il citizen journalist, la Rete rappresenta l’habitat ideale e, anzi, la condizione indispensabile, per la sua attività. Ormai siamo lontani dalle forme primordiali del fenomeno, la partecipazione del soggetto che prima era solamente utente finale del prodotto informativo è sdoganata a tutti i livelli: la blogosfera è definitivamente in concorrenza con la mediosfera. A mettere ulteriormente in crisi il giornalismo tradizionale è la possibilità degli utenti di accedere direttamente alle agenzie di stampa, prima interlocutori esclusivi dei giornalisti tradizionali194.

Ne deriva la fine di un monopolio: il “fare informazione” non è più solo appannaggio di una classe professionale o delle imprese editrici.

193 E per i quali si rimanda al primo paragrafo 3.1

194 Lo schema dell’informazione prima dell’avvento di Internet era caratterizzato da una relazione unilaterale tra agenzia di stampa (quando la notizia non era direttamente assunta dal giornalista), giornalista e pubblico. Secondo Alberto Papuzzi le più importanti agenzie di stampa internazionali sono Associated Press, United Press e Reuters mentre in Italia si hanno Ansa, AGI Adnkronos e Italpress

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A dimostrazione di quanto si dice, possiamo considerare anche l’avvento di piattaforme gratuite per la condivisione di conoscenze (tra le tante, Wikipedia) dove ogni utente ha la possibilità di intervenire in prima persona con il proprio apporto conoscitivo; la garanzia della veridicità delle informazioni è data proprio dall’alto numero di accessi giornalieri e dall’opportunità di altri di intervenire a rettificarne a loro volta il contenuto. L’insieme di questi mutamenti, situazioni e innovazioni ha svilito complessivamente il ruolo del giornalista come gatekeeper, ed ha favorito la diffusione di un generale sentimento di sfiducia verso la stampa e le istituzioni tradizionali dell’informazione.

Per oltre un secolo il giornalista tradizionale aveva pensato di avere dalla sua l’autorevolezza, il controllo monopolistico sulle agenzie di stampa, la capacità di accedere a fonti privilegiate, la possibilità di intervistare i protagonisti, il mestiere, il fatto di dedicarsi a tempo pieno al tema in cui era specializzato e la possibilità di viaggiare per verificare con i propri occhi. Ciò rendeva il giornalista, e ancor più l’inviato, un vero sacerdote dell’informazione un pontefice in grado di mediare tra la notizia e il pubblico. Nell’arco temporale di una generazione la trasformazione neoliberale già in corso del lavoro giornalistico, unita all’irruzione della rete, ha spogliato il giornalista sacerdote della maggior parte dei suoi parametri sacri. Alcune persone, tramite un semplice blog o iniziative editoriali più complesse, fanno informazione in Rete, ponendosi in concorrenza per qualità ma anche tempismo con i media tradizionali. Di conseguenza il giornalista tradizionale, già in parte vittima e in parte complice di una professione che cambia in peggio, perdendo il controllo sulle fonti cessa di stare al centro dell’informazione195.

La differenza tra i due canali comunicativi apparentemente concorrenti, oltre che giuridica, è stilistica e ontologica. Per Alberto Papuzzi il blog “non argomenta, non è imparziale, non verifica le informazioni, è l’esasperazione

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della soggettività e dell’individualità, anche quando il blogger è un giornalista. Il blogger è interessato alla possibilità di fare opinioni al di fuori del circuito e del controllo dei media tradizionali, sperimentando una scrittura meno formale”196.

Il giornalismo tradizionale, invece, ha delle regole da rispettare, ha un’etica cristallizzata in codici deontologici sconosciuti, se non in timide e spontanee affermazioni, al mondo dell’informazione online. Papuzzi, nella prospettiva di integrazione dei due mondi (professionista e amatoriale), riporta quattro esempi che paventano anche l’innesto di nuovi modelli di giornalismo rispetto a quelli descritti da Hallin e Mancini.

“Il primo esempio è il sito di citizen journalism senza filtri redazionali “Report” aperto dalla CNN, ricchissimo di contributi video anche nella forma del commento […]. Il secondo esempio è il concorso lanciato dal “Washington Post” per selezionare nuovi editorialisti del giornale. […] Il terzo è la creazione, nelle redazioni della BBC, di una figura di redattore specializzato in social networking con il compito di aiutare la redazione a esplorare questo tipo di risorse. Il quarto esempio, infine, non riguarda uno strumento, bensì una condotta. Ne è protagonista il “Guardian” che, nel mese di maggio 2009, pubblica un articolo contro una società petrolifera accusata di aver abbandonato rifiuti tossici in Costa D’Avorio. Cercando di impedire al giornale la pubblicazione del rapporto, la società petrolifera aveva ottenuto dall’Alta Corte un’ingiunzione. La vicenda, per alcuni mesi ignota al pubblico, in ottobre approda in Parlamento per via di una interrogazione al Ministro della Giustizia. Il giornale denuncia la manovra ai lettori, scatenando la reazione dei blogger. A metà giornata, poche ore prima dell’udienza urgente davanti all’Alta Corte, la società petrolifera aveva già abbandonato ogni pretesa e sul giornale appariva l’intera storia”197.

196 PAPUZZI A. op. cit. pag. 264 197 PAPUZZI A., op. cit. pag. 275-276

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L’idea che ne deriva è quella di una progressiva commistione tra i due mondi: già oggi i blogger vengono pagati per scrivere e ricevono accrediti stampa prestigiosi, come quello per le convention di repubblicani e democratici negli States (il primo caso risale alla campagna elettorale del 2004) cui sarà inevitabilmente connessa una rimessa in discussione costante dell’autorevolezza dei media tradizionali.

“La questione non è chi informa, ma come informa – scrive Marco Pratellesi nel libro New Journalism, Dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti -. L’autorevolezza e la credibilità delle testate tradizionali è stata conseguita giorno dopo giorno su singoli atti di buon giornalismo. Nella blogosfera c’è tanto rumore di fondo, ma alcuni blog informano, altri producono esempi di eccellente giornalismo. Blogosfera e mediasfera non sono, dunque, in competizione ma due realtà complementari, interconnesse, che seguono regole, logiche, e finalità diverse. […] I blog hanno portato più trasparenza nel mondo dei giornali e dell’informazione, più umiltà e consapevolezza dei propri errori. Nel XX secolo i media guardavano solo al consumo. Nel XXI secolo gli utenti non vogliono solo consumare: vogliono essere coinvolti, produrre, condividere”198.

198 PRATELLESI M., New Journalism, Dalla crisi della stampa al giornalismo di tutti, UBM, Milano 2013 pag. 121

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