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L‟epoca dell'assimilazione («i 150 anni in cui [gli ebrei] vissero realmente in mezzo, e non soltanto vicino, ai popoli europei, [e] dovettero sempre pagare con la miseria po- litica lo splendore sociale e col disprezzo sociale il successo politico»45) comincia con

gli editti della Francia rivoluzionaria e della Prussia di inizio Ottocento e si conclude quando – con l‟avvento di Hitler al potere – in Germania il razzismo entra in politi- ca46, quando cioè diventa evidente che in una società antisemita l'assimilazione non

fa altro che legittimare l'ideologia e la pratica dell'antisemitismo. A questo proposito, assumendo implicitamente l'analisi weberiana del popolo ebraico come popolo pa- ria47, popolo privo di autonomo legame politico ma capace di vincolare a sé i propri

membri tanto più fortemente quanto più depressa è la condizione in cui si trovano, Arendt imputa agli ebrei – e allo stesso movimento sionista – una condotta pericolo- samente impolitica48 che di fatto lo porta a sottovalutare gli esiti catastrofici dell'an-

tisemitismo moderno e della strategia assimilazionista. Se la critica weberiana della religiosità paria istituisce una connessione diretta tra situazione di sofferenza e spe- ranza di redenzione, Arendt osserva che persino i sionisti valutano l'antisemitismo

43 Ivi, p. 410. 44 Ivi, p. 418. 45 Ivi, p. 78.

46 Cfr. H. Arendt, 1932f.

47 Prima di divenire apolidi ed essere considerati individui superflui, per alcuni secoli gli ebrei furono –

secondo l'analogia weberiana – un popolo-paria, collocato sui gradini più bassi della gerarchia sociale e privo di fisionomia politica, benché fortemente coeso al suo interno. Cfr. M. Weber, 1920; trad. it. pp. 363 sg. (vol. II). Sulla comparsa del termine „paria‟ nel vocabolario europeo e sull‟idea di Weber degli ebrei come popolo paria si veda. T. Parvikko, 1996, pp. 36-45.

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come un fenomeno eterno che accompagna inevitabilmente il corso della storia e- braica attraverso tutti i paesi della diaspora, e separano la storia ebraica da quella del resto dell'umanità, senza indagare le ragioni politiche ed economiche del suo successo nell'Europa moderna: in questo modo, anche il sionismo si riduce a sup- porre, in modo tanto arbitrario quanto assurdo, che ogni gentile che viva a contatto con ebrei sia destinato a diventare, consapevolmente o meno, antisemita; in termini più generali, anche il sionismo – secondo Arendt – finisce per spiegare l'antisemiti- smo come la reazione naturale di un popolo contro un altro, come se questi fossero due sostanze naturali destinate a contrapporsi in eterno da qualche misteriosa leg- ge della natura49.

Riprenderemo e svilupperemo questi elementi più avanti nel corso del presente la- voro; per ora, ciò che vogliamo mettere in luce è piuttosto il fatto che Arendt rilevi come l‟irresponsabile astensione dal mondo tipica dell‟esistenza del ghetto e il desi- derio di assimilarsi incondizionatamente alla società dei gentili non siano le uniche tradizioni nella storia ebraica. Se è vero, infatti, che dalla rivoluzione francese all'avvento del nazismo la storia degli ebrei europei è storia di un'emancipazione fal- lita50, di oppressione e di diritti negati – e per Arendt ciò è dovuto al fatto che

l‟emancipazione non è mai stata quel che avrebbe dovuto essere, cioè un'ammissio- ne degli ebrei in quanto ebrei nei ranghi dell'umanità, piuttosto che un permesso per imitare i gentili o un'opportunità di recitare la parte del parvenu. E se è vero che questa vicenda è tragicamente segnata, a suo avviso, anche dall'incomprensione, da parte del popolo ebraico, del significato politicamente oppressivo delle dottrine as- similazioniste, è vero anche che in età moderna la storia ebraica assiste al sorgere di una vera e propria „tradizione nascosta‟ («quella di Heine, Rahel Varnhagen, Sho- lom Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka o persino Charlie Chaplin. Si tratta del- la tradizione di una minoranza di ebrei che non hanno voluto diventare dei nuovi ricchi, che hanno preferito la condizione di "pariah consapevoli"»51). Detto altrimen-

ti, nonostante il fallimento dell'emancipazione, in seno al popolo ebraico emerge una categoria di individui che assumono coscientemente la condizione di paria co- me occasione di resistenza e pratica di libertà. Il paria si delinea, nell'opera aren- dtiana, come una singolare variante della figura del senza-patria; la sua caratteri- stica marginalità non rappresenta il preludio della catastrofe, ma una condizione di possibilità della libertà umana: benché chieda di essere riconosciuto dagli altri co- me eguale, il paria sa che per agire liberamente nel mondo non è possibile essere ri-

49 H. Arendt, 1944w; trad. it. p. 62. Generalmente questo articolo viene datato 1945; in Arendt, 2007a

(il volume che raccoglie tutti gli scritti ebraici), invece, è datato ottobre 1944. Prestiamo fede a questa datazione.

50 Per decenni simbolo dell'emancipazione e dell'assimilazione ebraica, la Germania diventa in pochi

anni, dopo il 1933, l'inferno per la quasi totalità degli ebrei europei. Per lo storico Enzo Traverso, que- sto paradosso soltanto apparente si spiega con il grave equivoco alla base delle aspettative dei fautori, tedeschi ed ebrei, dell'emancipazione: la sperata simbiosi non ha luogo dato che, invece di aprire un dialogo, l'assimilazione avvia un monologo ebraico, che si serve della lingua e della cultura tedesche ma che non ha un vero interlocutore. Ebraicità e germanesimo rimangono due opposti inconciliabili e l'antisemitismo può così rendere l'alterità ebraica il catalizzatore delle sue pulsioni distruttrici. La do- lorosa coscienza di questa contraddizione, che alimenta buona parte della grande cultura ebraica te- desca e austriaca, si esprime nei due archetipi del paria, deciso a salvaguardare la tradizione al prezzo dell'emarginazione, e del parvenu che aspira all'integrazione anche a costo della perdita d'identità. Do- po Auschwitz, gli effetti di questa situazione si ripercuotono nella sfera della memoria della Shoah, soggetta nella Ddr [Deutsche Demokratische Republik] a manipolazione nel nome di un antifascismo di stato, e nella Brd [Bundesrepublik Deutschland] a rimozione pura e semplice. L'assenza di una memo- ria ebraica nelle due Germanie, unita all'antica rimozione dell'ebraismo nella cultura tedesca, è quindi per Traverso all'origine dapprima dell'oblio di Auschwitz, e in seguito dei tentativi di normalizzazione dell'olocausto, tuttora in atto nella Germania unita. Cfr. E. Traverso, 1994.

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gidamente inclusi in esso. In altre parole, sa che non c'è libertà se l'inclusione si configura non come eguaglianza tra diversi ma come assimilazione.

Il paragone tra la condizione del popolo ebraico e quella dei paria, gli „intoccabili‟ del sistema di caste indiano, deriva da una metafora politico-letteraria che ha una certa diffusione nel corso del XIX secolo52; ma è con Weber che la rappresentazione del

popolo ebraico come „popolo paria‟ si trasforma in modello sociologico53: il destino

degli ebrei in Europa – spiega Arendt – non è solo quello di un popolo oppresso, ma anche quello di un popolo paria. Questa situazione sociale di paria, in virtù della quale, come individui, essi rimangono fuori della società, riflette lo statuto politico del popolo nella sua interezza54. La figura del paria escluso e oppresso anticipa

chiaramente quella dell'apolide tratteggiata nelle Origini del totalitarismo: il profugo senza patria diventa infatti per Arendt il simbolo vivente del paria55. Piuttosto sor-

prendentemente, però, il suo saggio del 1944 sulla „tradizione nascosta‟, intitolato The Jew as Pariah: A Hidden Tradition, mette in luce come alcuni poeti, scrittori, ar- tisti e intellettuali riescano a sviluppare il «concetto di paria come un nuovo human type – un concetto estremamente importante per l'umanità moderna»56. Qui Arendt

non spiega in termini teorici questa affermazione, ma con pagine molto dense solle- cita il lettore a soffermarsi sulle biografie di intellettuali ebrei, tedeschi e francesi vissuti tra il XIX e il XX secolo, come il poeta Heinrich Heine, il piccolo pover'uomo protagonista dei film di Charlie Chaplin, lo straniero de Il Castello di Kafka e ancora l'intellettuale militante Bernard Lazare; tutti loro hanno in comune un rapporto e- stremamente problematico con il mondo57.

I.

Heine58, il „principe del mondo dei sogni‟, è il rappresentante di un utopismo senza

dottrina. Nel suo caso, la produttività poetica trasforma la mancanza di vita politica e l'irrealtà dell'esistenza del paria in un principio realmente generatore di un mondo artistico59. Pur limitandosi all'evasione dalla realtà nella poesia60, egli si schiera dal-

la parte degli oppressi, senza rinunciare, tuttavia, a denunciare il popolo che sop- porta i tiranni.

«Poiché ha voluto soltanto porre uno specchio di fronte al mondo politico, ha fatto a meno della dottrina e ha potuto conservare il suo grande entusiasmo per la libertà61. E poiché non ha mai visto nulla attraverso la lente di un'ideo-

52 Cfr. M. Leibovici, 1998, pp. 223 sg.

53 Sul concetto di popolo paria come ideal-type si veda T. Parvikko, 1996, cit., pp. 50-7. 54 Cfr. H. Arendt, 1944b.

55 Cfr. ivi; ed. inglese (ci riferiamo qui a quella contenuta in Arendt, 2007a) pp. 286-87.

56 Ivi; ed. inglese (ci riferiamo qui a quella contenuta in Arendt, 2007a) p. 276 (traduzione mia). 57 Sull‟importanza di questi paria per la riflessione arendtiana si veda F.G. Friedmann, 1985; trad. it.

pp. 17-32.

58 Sulla figura di Heinrich Heine si veda ad esempio A. Elon, 2002, cit., pp. 93-135.

59 «Ne sono veramente convinta, questa lucida esistenza da miserabile, il miserabile felice, che scopre

le gioie e le meraviglie del mondo perché non è prigioniero di una società corrotta ed imbruttita, è stata la base dei grandi talenti. E solo per Heine quello che per altri era un motivo incosciente ed inespresso è divenuto un tema della sua vita e del suo lavoro di creatore». H. Arendt a K. Blumenfeld, lettera del 10 agosto 1959, in Arendt, 1995a; ed. francese p. 309 (traduzione mia).

60 Si veda ad esempio H. Heine, 1827.

61 Heine scende in campo a difesa dell'umanità offesa, unico partito per cui valga veramente la pena di

mobilitarsi. A suo avviso la libertà dei popoli oppressi è una nuova religione, la religione del suo tem- po. È in quest‟ottica che va letta la scena di Der Rabbi von Bacherach [Il Rabbi di Bacherach] che si svolge alle porte del ghetto, guardato all'esterno dal tamburino Hans, cristiano e ubriacone, e all'inter- no dai custodi „follia‟ e „paura‟, nelle persone di Jakel il Folle, lucido e perfido buffone ebreo, e Nasen- stern, ebreo spilungone dal grande naso, stupido e codardo. Con l'ironia Heine sistema tutti, cristiani ed ebrei, cura tutte le ferite, e rinunciando alla grandiosità del respiro biblico opera un livellamento che però, più che a un'integrazione, tende a quel nulla assoluto del canto del caprettino, intonato da

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logia – anche se sempre tutto come attraverso le lenti di un telescopio, più lontano e più distinto – proprio per questo può ancora oggi essere considerato come uno dei più intelligenti giudici degli avvenimenti politici del suo tem- po»62.

II.

Chaplin63 incarna d'altra parte, con il personaggio del „sospettato‟ (che è «chiara-

mente segnato dalla sua origine ebrea»64), colui che vive un rapporto di dismisura

con il mondo, trovandosi continuamente perseguitato e punito in maniera assolu- tamente sproporzionata rispetto alle infrazioni commesse, senza tuttavia cessare di commetterle e/o chiedersi se sia giusto o meno che agli occhi della società egli sia sempre sospetto. Da questa situazione in cui viene costantemente a trovarsi il so- spettato,

«nascono contemporaneamente paura e sfrontatezza; paura della legge come se fosse una forza della natura, indipendentemente da ciò che uno fa o non fa; sfrontatezza, ironica e nascosta, contro i rappresentanti di questa legge, poiché ha imparato a mettersi al sicuro da loro come ci si ripara da un ac- quazzone in buchi, rifugi e fessure che si trovano tanto più facilmente quanto più ci si fa piccoli»65.

Se la sensibilità di Heine è quella della poesia e la sua arma contro l'ingiustizia del mondo è l'ironia, nei film (muti) di Chaplin la sensibilità trova espressione nelle si- tuazioni e negli intrecci rappresentati, mentre il witz [la prontezza di spirito] come arma contro i torti del mondo si manifesta nella comicità dei movimenti. Così la lot- ta tra l'uomo semplice e le malvagità della vita, compresi i suoi contrasti con i rap- presentanti dell'ordine costituito, è una faccenda di differenti stili di movimento. L'uomo semplice è ballerino e veloce, il poliziotto si muove pesantemente e senza a- bilità e spara mancando il bersaglio. La danza, la graziosa giocosità dei movimenti di Chaplin rendono amabile l'uomo semplice, il paria.

«Molto prima che il sospettato si trasformasse nella figura dell'“apolide”, il reale simbolo della situazione di paria, molto prima che veri uomini avessero bisogno, anche solo per sopravvivere, delle proprie astuzie di mille specie e della grande bontà occasionale, Chaplin […] aveva rappresentato la secolare paura ebraica davanti al poliziotto in cui s'incarna un ambiente ostile, e la se- colare saggezza ebraica per cui l'umana astuzia di Davide può avere in certi casi la meglio sulla forza bestiale di Golia. Ne risultò che il paria, che sta al di fuori della società e che è sospetto a tutto il mondo, godeva invece la simpatia del popolo»66.

Quando però il „piccolo uomo‟ decide di trasformarsi in „grande uomo‟, non Chaplin ma Superman diviene l‟idolo del popolo, e Chaplin perde rapidamente la sua popo- larità.

III.

Jakel il Folle – brano che noi conosciamo nella versione di Branduardi, col titolo Alla fiera dell‟est. Cfr. la seconda parte di H. Heine, 1840. Arendt utilizza proprio una frase tratta da quella scena per con- cludere l‟introduzione di un testo inedito sull‟antisemitismo scritto presumibilmente tra il 1938 e il 1940: «”Com‟è difeso miseramente Israele! Falsi amici stanno di guardia fuori dai suoi cancelli, mentre all‟interno le sue guardie sono follia e paura”». H. Arendt, 2007c; ed. inglese p. 59 (traduzione mia). Per meglio comprendere la personalità di Heinrich Heine, suggeriamo la lettura di H. Heine, 1854.

62 H. Arendt, 1944b; trad. it. p. 68.

63 Un buon lavoro sulla figura di Charlie Chaplin è contenuto in D. Robinson, 1985. 64 H. Arendt, 1944b; trad. it. p. 73.

65 Ivi; trad. it. p. 273. 66 Ivi; trad. it. pp. 271-72.

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Kafka porta invece sulla scena, nel romanzo incompiuto Das Schloss67 [Il castello], il

forestiero che ha, in quanto tale, una straordinaria visione delle cose: rivendicando semplicemente i suoi diritti – una casa, un lavoro, un permesso di soggiorno –, mi- rando cioè solo «ai fini più naturali e generali che ci siano [e lottando] per conqui- starsi delle cose che sembrano essere garantite all'uomo fin dalla nascita»68, egli ri-

fiuta l'assimilazione offertagli dal sovrano come magnanima elargizione, dono, privi- legio. Così facendo, K. dimostra di essere, nel villaggio, «l'unico ancora in grado di concepire una semplice esistenza umana sulla terra»69, e insegna agli abitanti del

luogo che «vale la pena di lottare per i propri diritti e che la legge del Castello, non essendo di natura divina, può essere contestata»70.

Finchè gli ebrei europei sono soltanto dei paria in senso sociale, tanti di loro posso- no rifugiarsi in un'esistenza da parvenu costantemente minacciata; ad altri invece il prezzo da pagare sembra davvero troppo alto, e così si rallegrano di poter vivere più o meno indisturbati nella libertà e nell'invulnerabilità della loro esistenza da paria.

«Quel tipo di esistenza li tagliava fuori dalla realtà della politica, però permet- teva loro di tener viva la coscienza di un'esistenza libera ed umana, anche se soltanto in un piccolo angolo sperduto della terra. Da questo punto di vista, la vita del “paria”, malgrado la sua inconsistenza politica, non è stata priva di senso»71.

La vita del paria diviene però priva di senso nel XX secolo quando, con i nuovi svi- luppi politici, agli ebrei d'Europa comincia a mancare terreno, cioè quando sia il pa- ria sia il parvenu iniziano ad essere considerati dovunque dei fuorilegge politici. Nel mondo del XX secolo non ci si può più isolare dalla società:

«Non ci sono più “scappatoie individuali”: né per il “parvenu” che un tempo si costruiva di propria mano una sua libertà nel mondo in cui l'ebreo non era considerato un essere umano, né per il “paria” che con una soluzione indivi- dualistica pensava di poter fare a meno di un mondo simile. Il realismo dell'uno non era meno utopico dell'idealismo dell'altro»72.

Per Arendt non è invece utopica la terza via, indicata da Kafka, secondo la quale – rinunciando alla libertà e all‟invulnerabilità – si cerca di realizzare con la massima modestia le proprie piccole aspirazioni. Ma, come dimostra Kafka, questa via non porta ad un cambiamento del mondo; nella migliore delle ipotesi può servire ad a- prire gli occhi agli altri.

Come il protagonista di Der Prozess73 [Il Processo], Kafka sperimenta la colpa senza

crimine, completa di conseguenze: la condanna senza processo. Vive in un mondo in cui è un crimine essere accusati, in cui l'abilità suprema per tutti coloro che non vogliono essere condannati è quella di evitare l'accusa. Ma si tratta proprio dell'abi- lità impossibile da conquistare. Non c‟è via di fuga da un mondo in cui è un crimine essere accusati, perché dovunque uno vada si porterà dietro quel mondo.

Senza arroganza, privi dell'ironico e sublime senso di superiorità del „principe del mondo di sogno‟ di Heine, e senza l'innocente astuzia tipica del piccolo uomo di Chaplin, gli eroi di Kafka – ai quali mancano completamente anche le tradizionali qualità del „paria ebreo‟, cioè la commovente innocenza e la serenità che questi trae

67 F. Kafka, 1935a.

68 H. Arendt, 1944e; trad. it. p. 90. 69 Ivi, p. 91.

70 H. Arendt, 1944b; trad. it. p. 82. 71 Ivi, p. 83.

72 Ivi, p. 84. 73 F. Kafka, 1925.

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dal suo essere uno Schlemiel74 – si contrappongono, aggressivi e sicuri, alla società.

Infatti,

«Chi si sente lontano dalle regole semplici e fondamentali dell'umanità, o chi sceglie di vivere in uno stato d'emarginazione, anche se costrettovi perché vit- tima di una persecuzione, non può vivere una vita veramente umana. […] La vera umanità non può mai stare nell'eccezione, neppure in quella del perse- guitato, ma solo in quella che è o dovrebbe essere la regola. Da questa consta- tazione ha avuto origine la tendenza di Kafka al sionismo. Ha aderito al mo- vimento che rifiutava la condizione di anormalità ed emarginazione del popolo ebraico per farne “un popolo come tutti gli altri”»75.

IV.

Per Arendt è Bernard Lazare (1865-1903) – un ebreo assimilato, di orientamento anarchico, ateo – ad incarnare perfettamente il paria che prende coscienza della propria condizione di esclusione e si ribella all'ipocrisia di un universalismo volto all'assimilazione, rivendicando la propria appartenenza al genere umano in quanto ebreo76. «Il "paria consapevole" (Bernard Lazare) fu l'unica tradizione di rivolta ad af-

fermarsi, benché i suoi seguaci non si rendessero conto della sua esistenza»77.

Lazare, giornalista e intellettuale che si avvicina al sionismo in occasione del caso Dreyfus78, secondo Hannah Arendt è uno dei pochissimi pensatori dell'ebraismo a

rivendicare il diritto degli ebrei a vivere in quanto tali, con pari diritti, nella società europea. Egli intende l'eguaglianza come una forma di giustizia da conquistare non attraverso l'omologazione delle differenze ad un presunto modello universale, bensì come una „rivolta‟ contro la trasformazione della differenza in diseguaglianza. In tal senso, avvicinatosi al sionismo per denunciare le false promesse dell'assimilazione, Lazare rappresenta in realtà una corrente minoritaria e marginale del movimento, sostenendo una posizione alternativa a quella di Theodor Herzl (1860-1904)79.

74 Nella tradizione ebraica, lo Schlemihl è la vittima sfortunata e impacciata di circostanze ostili. 75 H. Arendt, 1944b; trad. it. p. 82.

76 Come testimoniano i suoi testi, per tutta la vita Bernard Lazare si interessa alle sorti del suo popolo.

In L'antisémitisme, son histoire et ses causes [L’antisemitismo. La sua storia e le sue cause] (1894), La- zare ingaggia una polemica forte negli intenti e nei contenuti (ma pacata nel ragionamento e nei toni) con La France Juive di Édouard Drumont. Anche se le scrive prima della nascita del sionismo e della tragedia della Shoah, nelle pagine di questo volume egli registra già lucidamente il pericolo rappresen- tato dai conflitti nazionali e dalle crociate religiose. Lazare si oppone con polemiche aspre e quotidiane al movimento antisemita capeggiato da Drumont, e il suo intervento in difesa di Dreyfus (cfr. B. Laza- re, 1896b) è il risultato di un impegno che da anni lo oppone all'antisemitismo e ad ogni forma di raz- zismo, in nome di un ideale: la fratellanza tra gli uomini. Per meglio comprendere le sue posizioni, suggeriamo la lettura dei testi raccolti in B. Lazare, 1896a e 1928.