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Nell'ultimo capitolo della biografia, Arendt riporta un episodio accaduto a Rahel da ragazza. Durante una visita a dei parenti di Breslavia, per curiosità assiste ad un matrimonio secondo il rito ebraico e viene ricevuta «“come se il Gran Turco visitasse un serraglio abbandonato da tempo”»164. Si rende conto in maniera improvvisa e

violenta di quanta distanza ci sia tra un ebreo di Berlino e gli ebrei dell'Europa o- rientale, ed è così che prende coscienza della sua storia – una «coscienza segreta di un ineluttabile ebraismo, fondata sull'esistenza di altri ebrei»165. Prova vergogna e

rifiuta di sentirsi solidale con quella gente povera e arretrata. Così facendo, però, ol- tre all‟«appartenenza alla massa oscura del popolo ebreo»166, perde anche la solida-

159 H. Arendt, 1932f; ed. inglese p. 27 (traduzione mia). 160 H. Arendt, 1958b, cit., p. 118. 161 Ivi, p. 195. 162 Ivi, p. 232. 163 Ivi, p. 233. 164 Ivi, p. 221. 165 Ivi, p. 225. 166 Ivi, p. 222.

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rietà, ben più necessaria, col gruppetto prussiano di “ebrei d'eccezione” da cui lei stessa proviene, del quale condivide il destino:

«Poiché per lei appartenere al popolo ebraico non rientra fra i “mali comuni all'umanità” che potrebbe tentare alleandosi agli altri di abolire dal mondo – né il destino del proprio popolo – che riuscirebbe a sopportare in solidarietà con altri ebrei –, il suo ebraismo diventa “una disgrazia particolare”, che la tocca “doppiamente e dieci volte di più”, come un male speciale, si concentra solo sulla sua persona, diventa il suo destino individuale, così inevitabile co- me una gobba o un piede equino»167.

Ma non ci si libera individualmente: «Nessun essere umano si può isolare al punto da non esser sempre rinviato al mondo […] il mondo ha sempre l'ultima parola»168.

Ciò non significa che la realtà non possa essere cambiata, significa che il cambia- mento non può essere un'opzione della singola volontà («l'individuo liberato in que- sta maniera urta sempre contro un mondo, una società»169), ma una trasformazione

essa stessa sociale. Dunque è proprio dalla considerazione della realtà come feno- meno sociale che prende le mosse la denuncia di Arendt della «sofistica dell'assimi- lazione»170, la quale – affermando che i fatti (o la storia) non abbiano nessuna forza

probante per la ragione, anche se comprovati, visto che tanto la loro fatticità quanto la loro testimonianza sono casuali e che solo le realtà della ragione (risultati del pu- ro pensare) hanno pretesa di validità, verità e forza di persuasione – vorrebbe an- nullare i fenomeni con un semplice atto di volontà, senza capire che l'ebraicità di Rahel non solo non può essere rimossa, ma non può essere neppure ridimensiona- ta, dato che è la società a trasformarla in pregiudizio.

Agli occhi di Arendt, Rahel è vittima non innocente delle dottrine assimilazioniste e la biografia – come si è visto – ripercorre le tappe della sua conversione alla società dei gentili: il battesimo, il cambio di nome e infine il matrimonio con Varnhagen. È interessante notare come, nel racconto arendtiano, il problema dell'esclusione si ponga chiaramente come problema di riconoscimento: «non ricca, non colta e non bella! Senza armi per intraprendere la grande battaglia per il riconoscimento nella società»171. Arendt non nasconde il suo disprezzo per la Rahel parvenue, che dopo

vari insuccessi riesce finalmente a ottenere un posto nella società dei gentili; nelle lettere della vecchiaia, intravede però il lento emergere di una nuova consapevolez- za, e quindi dà grande rilievo al dramma interiore di questa donna che, negli ultimi anni della sua vita, arriva a riconoscersi come paria. Ecco allora che, nonostante le critiche impietose alla Rahel parvenue, Arendt ha cura di mostrare al lettore come Rahel («la mia più cara amica, anche se purtroppo è morta da più di cent‟anni or- mai»172) in fondo «non si perda, ma rimanga fedele a se stessa»173. Il suo fascino, la

sua forza, la sua umanità e il suo privilegio consistono proprio nel fatto di «aver conservato “un cuore tenero di carne e di sangue”, di essere restata sempre vulne- rabile, di essersi confessata ogni debolezza e di aver acquistato a questo prezzo, solo a questo prezzo, l'esperienza della vita»174. Quel che colpisce Arendt non è la scelta

di restare ebrea, ma la capacità di diventare, restando ebrea, una paria cosciente, una straniera, una ribelle.

167 Ivi, pp. 222-23. 168 Ivi, p. 21-22. 169 Ivi, p. 17. 170 Ivi, p. 20. 171 Ivi, p. 14.

172 H. Arendt a H. Blücher, lettera del 12 agosto 1936, cit.; trad. it. p. 10. 173 K. Jaspers a H. Arendt, lettera del 23 agosto 1952, cit.; trad. it. p. 111. 174 H. Arendt, 1958b, cit., p. 213.

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Dopo il matrimonio con Varnhagen, Rahel è convinta di avere ormai pieno accesso alla società, di farne parte come membro del suo rango più alto. Solo illusioni: la realtà è molto diversa. Anche se è l‟animatrice di un salotto famoso, è ben distante dall‟essere considerata una pari nell‟alta società dei gentili. Al contrario, emerge ben presto come in quella società venga tollerata solo quando è insieme al marito, ma non quando è da sola, sebbene sia sposata: «“Come una tacchina, per la prima volta in un cortile estraneo, saltellavo e mi appollaiavo in un angolino che avevo trova- to”»175. Di conseguenza, la sua tendenza ad annullare ciò che ha raggiunto si raffor-

za in lei nella misura in cui si accorge che la sua ascesa è soltanto apparente, che «un paria, nella buona società, resta un parvenu, che non sfugge a quella sua in- sopportabile vulnerabilità come alle ferite dell'amor proprio»176. Lo comprende ap-

pieno quando, dopo una pausa di alcuni anni, poco dopo la fine del Congresso di Vienna rivede Caroline von Humboldt – una delle poche amiche non ebree che aves- se avuto fin da ragazza –, la quale di fronte ad un folto gruppo di persone le rivolge la parola dandole del lei. Rahel non poteva immaginare che, nel frattempo, Caroline era diventata antisemita! Un‟amicizia lunga di decenni liquidata così… Ma Caroline non è certo l‟unica gentile ad essere diventata antisemita, e l‟odio crescente nei con- fronti degli ebrei mostra a Rahel cosa sia diventata lei stessa negli anni: una parve- nue che ha sposato un altro come lei – o, più precisamente, un uomo che proprio grazie a lei è diventato un parvenu.

Benché nel XIX secolo gli ebrei che vogliono un ruolo nella società siano i «parvenus per eccellenza […] gli esempi più abili»177, Arendt precisa come l‟essere parvenu non

sia una caratteristica esclusivamente ebraica178, ma comune a tutti coloro che – a

qualunque popolo appartengano – dal basso desiderano salire almeno alcuni gradi- ni della scala della società. In fin dei conti, chi non è nessuno ha davanti a sé solo due opzioni: restare al bordo della strada nella sua nullità, oppure provare a rag- giungere i ranghi di quelli che contano. Varnhagen, che desidera diventare qualcu- no, tenta con successo questa seconda opzione («l'istinto di Varnhagen lo conoscono tutti i parvenus: coloro che sono obbligati a entrare con l'astuzia o l'inganno in una società, uno stato, una classe cui non appartengono»179). Tale arrivismo, però, si

fonda sul niente: il mendicante ai margini della strada non può fare affidamento su capacità o qualità personali, per cui è costretto a mentire e ad imitare quelli a cui vuole assomigliare:

«Chi è fermamente deciso ad arrivare in alto, riuscire, deve abituarsi presto ad anticipare il grado che vuol raggiungere, con l'inganno del rispetto spontaneo, deve guardarsi dall'obbedienza cieca richiesta; deve sempre fingere di fare vo- lontariamente, e da signore in piena libertà, quello che in fondo si attende dai servi e dai subalterni. L'inganno ha raramente effetto immediato sulla carrie- ra; è però di grande utilità al successo mondano e alla posizione sociale. Con l'inganno, il paria prepara la società alla sua carriera di parvenu»180.

Infatti, il paria che voglia diventare parvenu si sforza di raggiungere tutto quanto in forma di vuota generalità, mentre in fondo è escluso da tutto. Non può concedersi il lusso di nutrire aspettative e desideri precisi, deve adattare i suoi gusti e la sua vi- ta, insomma non ha il diritto di essere se stesso: «Il parvenu scoprirà sempre che, in fondo, non ha mai desiderato di essere quello che è diventato e non poteva nemme-

175 Ivi, p. 215. 176 Ibidem. 177 Ivi, p. 206. 178 Cfr. H. Arendt, 1944b. 179 H. Arendt, 1958b, cit., p. 204. 180 Ibidem.

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no desiderarlo. Poteva solo tentare d'elevarsi senza poter prevedere, alla fine, dove sarebbe arrivato. È sottoposto alla stessa odiosa legge contro cui si era ribellato da paria: doversi accontentare di tutto»181.

Finzione e menzogna («menzogne molto più totali della pura e semplice ipocrisia»182):

ecco cosa chiede a Rahel la sua nuova vita. Ma essa ha un tratto ancor più scabro- so, perché le impone di tradire se stessa. Infatti, se ci si vuole realmente assimilare non si può scegliere a che cosa assimilarsi, cosa piace e cosa dispiace: non c'è as- similazione se ci si limita a rifiutare solo il proprio passato, e si ignora quello degli altri. Ciò significa che «in una società quasi interamente antisemita […] ci si può as- similare solo se ci si assimila anche all'antisemitismo»183. Troppo, decisamente

troppo per lei. Rahel rifiuta di essere antisemita: poiché il mondo in cui vive e al quale vorrebbe assimilarsi sta diventando sempre più, e non sempre meno, antise- mita, ella decide di accettare con maggior franchezza il suo essere ebrea. Nel ritratto che ne fa Hannah Arendt, Rahel è una donna consapevole del fatto che l'antisemiti- smo non è un'aberrazione accidentale della storia tedesca, e nemmeno della storia d'Europa: «Il destino ebraico non era né così casuale né così particolare: ma riflette- va, anche se al contrario, esattamente lo stato della società, e ne raffigurava la ter- ribile realtà in positivo, riproducendo le sue lacune negative»184. La coscienza di

questo fatto sarebbe diventata poi il motivo centrale della parte sull'antisemitismo nelle Origini del totalitarismo, dove Arendt sostiene che l'antisemitismo non è una necessità di tutti i tempi, ma non è neppure un accidente dei tempi moderni, e che le nazioni-Stato d'Europa e l'ebraismo europeo sono nati insieme, e insieme hanno conosciuto il declino185.

Rahel non riuscirà mai a sbarazzarsi delle sue qualità di paria, la più importante delle quali («quanto di migliore e più degno il paria possa apprendere e comprendere nel suo mondo»186) è una sensibilità esagerata sotto il profilo emotivo, un‟istintiva

comprensione della dignità di ciascuno che definisce un volto umano: «“Potrei pren- dere il mio cuore in mano e ferirlo piuttosto che offendere un altro viso e vederlo of- feso”. […] Un istinto sconosciuto ai privilegiati e in cui consiste l'umanità del pari- a»187. È solo tenendo presente questo «“riguardo eccessivo per il viso umano”»188 che

si possono comprendere appieno la riconoscenza e la gratitudine di Rahel nei con- fronti di Varnhagen (un uomo che non ama) per averla sposata – per quel matrimo- nio che lei sente come «“la corona sbagliata sul mio destino”»189 –, dal momento che

in lei questi sentimenti sono inscindibili.

A cinquantasei anni si ostina ancora a sostenere che non sia cambiato niente, men- tre invece sono cambiate molte cose, almeno esteriormente: non è più giovane, ha un nome, uno status sociale e un patrimonio; grazie a Varnhagen ha conquistato una posizione nel mondo: è sposata, moglie di un funzionario; non si frequenta più con i vecchi amici, ma troneggia nel salotto di Varnhagen, costretta a dissimulare, ad avere riguardo per persone che non apprezza, e apparentemente la Rahel che fu è sempre più sconosciuta: «Di Rahel Levin, in fondo, si è definitivamente sbarazzata ma non vorrebbe essere nemmeno Friederike Varnhagen, nata Robert. L'una è stata accettata, l'altra non si sa decidere a una identificazione ipocrita. Perché “tutta la

181 Ivi, p. 214. 182 Ivi, p. 213. 183 Ivi, p. 229. 184 Ivi, p. 231.

185 Cfr. H. Arendt, 1951a, parte prima. 186 H. Arendt, 1958b, cit., p. 219. 187 Ibidem.

188 Ibidem. 189 Ivi, p. 218.

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vita, mi sono considerata Rahel e nient'altro”»190. E questa Rahel non vuole cambia-

re: conserva la sua indipendenza perlomeno nelle idee, apprezza solo i vecchi amici e continua a vivere più in grande l'idea della piccola mansarda. Ecco allora che un attaccamento così morboso ad un tipo di esistenza passata da decenni – un attac- camento apparentemente assurdo e irragionevole – non solo ha senso, ma ha anche dei vantaggi: «prepara in tutta segretezza il terreno per le poche idee importanti – e morire senza averle riconosciute sarebbe stata la vera bancarotta – i pochi giudizi e illuminazioni, per la sua generazione e il suo ambiente così mostruosamente eretici, che senza la garanzia del suo stato borghese non avrebbe mai avuto il coraggio di formulare»191. Di questo Rahel è ben consapevole, e la gratitudine è più forte della

corona sbagliata che la riconoscenza ha fissato alla sua vita: ovviamente non si è li- beri quando si deve rappresentare un ruolo nella società borghese (ad esempio quel- lo di moglie e di compagna di un funzionario),, ma «se si è liberi ci si ritrova, da un punto di vista borghese, sempre “in situazioni disperate” […] che Rahel ha cono- sciuto troppo, bene e troppo da vicino per non doverle temere di più di ogni perdita di libertà»192.

Dunque Rahel rimane esternamente una parvenue, ma interiormente conduce la vi- ta nascosta del paria193: non si sbarazza mai di quelli che lei chiama i suoi due «“er-

rori inconfessabili”»194, il rispetto per il viso umano e la gratitudine per ogni piccolo

gesto o anche solo per una parola, e sono proprio questi “errori” ad impedirle di di- ventare una vera parvenue – in tal caso, infatti, non avrebbe avuto diritto ad essere riconoscente, perché avrebbe dovuto tutto alle sue sole forze, e non avrebbe dovuto rispettare il volto altrui perché troppo concentrata sulla sua presunta superiorità – e di essere felice di quel ruolo.

«Che le riuscisse di salvare, nell'esistenza di parvenu, le qualità di paria, le ha […] segnato una via per la vecchiaia e la morte. […] Quando, incapace di ri- bellarsi, come singolo contro la totalità del mondo, disdegna le soluzioni del

parvenu, le sue “situazioni disperate” vengono compensate con la “contempla-

zione della totalità”, […]. Questa è la ricchezza salvata dalla grande bancarot- ta della vita»195.