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Come già detto, è innanzitutto dall'esperienza personale di refugee che prende avvio la riflessione filosofico-politica di Hannah Arendt. E We refugees [Noi profughi] è proprio il titolo di uno dei suoi articoli più belli, pubblicato dal “Menorah Journal” nel gennaio del 1943 – dunque quando lei vive negli USA ormai da un paio d‟anni –, che qui ci aiuta a chiarire il suo rifiuto dell‟assimilazione.

In questo testo, Arendt si sofferma sulla condizione dei «”nuovi arrivati”[,] “immigrati […] americani di lingua tedesca"»90, vale a dire sui profughi ebrei in fuga dalla per-

secuzione nazista:

86 Nel suo The Responsibility of the Pariah. The Impact of Bernard Lazare on Arendt's Conception of Poli-

tical Action and Judgement in Extreme Situations (1996), Tuija Parvikko mostra come la nozione di

„parziale responsabilità‟ del paria che Arendt prende da Lazare costituisca uno dei principi-guida delle sue teorizzazioni sulla politica e sul giudizio politico in situazioni estreme. È attraverso la figura del paria moderno – inteso come ribelle consapevole – che Arendt introduce la sua concezione di una poli- tica paria come risposta ad una condizione di oppressione e di esclusione. Il tratto dominante di que- sta concezione è l‟idea che il fatto di essere paria – il fatto di vivere in una situazione di esclusione poli- tica – non è certo una buona scusa per ignorare la politica, per non occuparsene. In termini arendtia- ni, è dovere del paria resistere all‟oppressione. Sebbene il paria non possa essere responsabile delle azioni compiute nella sfera politica – sfera alla quale non appartiene – non può sottrarsi tuttavia ad una parziale responsabilità per quelle azioni che determinano e/o influenzano il suo destino politico. Lo studio di Parvikko mette bene in evidenza come l‟impatto del pensiero di Arendt sulla teoria politica non si esaurisca in una teorizzazione dell‟azione politica nella sfera pubblica in tempi normali; le sue riflessioni sull‟essere paria costituiscono una base importante per teorizzare il politico in situazioni e- streme. L‟idea arendtiana di responsabilità deriva dall‟accettazione dell‟imprevedibilità e della contin- genza dell‟azione politica. La responsabilità è il prezzo da pagare per la libertà politica e per la dignità umana.

87 H. Arendt, 1929. 88 S. Benhabib, 1995. 89 Cfr. J. Ring, 1991.

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«Abbiamo perso la casa, che rappresenta l'intimità della vita quotidiana. […] Il lavoro, che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mon- do. […] La nostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle reazioni, la semplicità dei gesti, l'espressione sincera e naturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di concentramento, e questo significa che le nostre vite sono state spezzate»91.

Tuttavia, prosegue, appena vengono salvati, tutti i profughi iniziano le loro nuove vite facendo del loro meglio per seguire alla lettera i consigli dei loro salvatori. Giocando continuamente sull‟alternanza tra coinvolgimento e distacco, Arendt de- scrive a tinte forti l'ansiosa determinazione con cui quanti trovano rifugio negli Stati Uniti cercano di assimilarsi alla nuova patria. Secondo gli imperativi della nuova vi- ta, bisogna dimenticare il passato comune e la propria lingua, e concentrarsi sul proprio futuro personale cercando risposte nelle stelle, nelle linee della mano o nei segni della scrittura, piuttosto che tra le pagine dei giornali: «in questo modo ne sappiamo meno degli avvenimenti politici, ma più dei nostri cari "self"»92. Bisogna

cancellare il passato, insomma, e con esso la coscienza dell'oppressione e la memo- ria di quanto è accaduto:

«Per dimenticare meglio evitiamo […] ogni allusione ai campi di concentra- mento o di internamento […] – la qual cosa potrebbe essere interpretata come pessimismo […]. Inoltre, ci è stato detto […] che a nessuno piace ascoltare tutto ciò; l'inferno non è più una credenza religiosa o una fantasia, ma qual- cosa di tanto reale quanto le case, le pietre e gli alberi. Sembra che nessuno voglia riconoscere che la storia contemporanea ha creato un nuovo genere di esseri umani – quelli che sono stati messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici. Persino tra noi non parliamo di questo passato»93.

Detto in una parola, bisogna essere „ottimisti‟! E in effetti «il nostro ottimismo […] è ammirevole, anche se siamo noi ad affermarlo»94. Tuttavia, aggiunge, «qualche volta

immagino […] che almeno di notte pensiamo ai nostri morti o ricordiamo le poesie che un tempo amavamo»95. È con ironia a tratti tagliente e a tratti commossa che

Arendt replica agli imperativi della nuova vita, richiamando l‟attenzione su fatti scomodi e impopolari quali il fenomeno del crescente numero di suicidi tra i „salva- ti‟, l‟incapacità di lottare, la diffusa familiarità con l'idea della morte di amici e pa- renti, e ancora l'interpretazione della catastrofe collettiva in termini di sventura per- sonale e individuale:

«No, c'è qualcosa che non va nel nostro ottimismo. Tra noi ci sono quei bizzar- ri ottimisti che, dopo aver fatto un mucchio di discorsi ottimistici, vanno a ca- sa e aprono il gas o si servono di un grattacielo in modo del tutto imprevisto. […] Invece di lottare […] i profughi si sono abituati a desiderare la morte per gli amici e i parenti; se qualcuno muore, ci rallegriamo all'idea che abbia po- tuto evitare tanti guai. Così, molti pensano che anche noi potremmo evitare dei guai – e agiscono di conseguenza. […] Al campo di Gurs, […], dove ho avu- to modo di trascorrere qualche tempo, […] era opinione comune che si doves- se essere singolarmente asociali e disinteressati alle circostanze per essere ancora capaci di interpretare l'accaduto come una sfortuna personale e indi- viduale. […] Tuttavia, non appena le stesse persone, tornate alle loro vite indi- 91 Ibidem. 92 Ivi, p. 24. 93 Ibidem. 94 Ivi, p. 23. 95 Ivi, p. 24.

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viduali, si trovarono a dover affrontare problemi apparentemente individuali, si volsero una volta di più a questo insano ottimismo, prossimo alla dispera- zione»96.

Arendt incita alla lotta piuttosto che alla negazione di sé, alla reazione collettiva e politica piuttosto che a quella individuale, e in molti punti del testo il parziale di- stacco di chi scrive dal "noi" della narrazione è palese. Un esempio per tutti: quando afferma che «la maggior parte di noi non si è mai sognata di avere un'opinione poli- tica radicale»97, è ovvio che ella si senta invece parte di quella minoranza di ebrei

che ha almeno tentato di fare qualcosa – come prendere posizione e far circolare le proprie idee. Ma la critica a quella «sorta di egotismo»98 che porta i profughi a fuggi-

re risolutamente tanto dalla storia quanto dal mondo, e dunque a ritrovarsi in bilico tra ottimismo assimilazionista e disperazione suicida, non arriva mai neppure a ra- sentare il limite con l‟incomprensione o il rancore. Arendt, che entra ed esce di con- tinuo da quel „noi‟ – «anch'io sono stata piuttosto ottimista»99, ammette con fran-

chezza –, non dimentica mai che «l'uomo è un animale sociale e la vita non è facile per lui quando vengono recisi i legami sociali. […] Pochissimi individui hanno la for- za di conservare la loro integrità se la loro condizione sociale, politica e giuridica è del tutto indefinita»100.

Esclusione ed inclusione: ecco i due nodi tematici tanto rilevanti nel pensiero aren- dtiano dei quali intravediamo la nascita tra queste pagine. Dove parla come profuga tra i profughi, Arendt affronta il problema dell'esclusione, che si fonda sulla discri- minazione come «grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue»101; la descrizione dei profughi ebrei come individui amondani, alienati dalla

dimensione sociale e relazionale che caratterizza l'esistenza umana, anticipa quanto ella dirà degli apolidi ne Le origini del totalitarismo. Dove adotta invece un punto di vista critico, è l‟inclusione – intesa come soluzione che rischia di continuo di tra- sformarsi in pratica di assimilazione – ad essere messa sotto accusa. E le riflessioni sull'ansia di inclusione si concretizzano nella figura del Sig. Cohn, un ebreo berline- se che è «sempre stato un tedesco al 150%, un super-patriota tedesco»102. Nel 1933

– racconta Arendt – egli trova asilo a Praga e diventa rapidamente un convinto pa- triota ceco, sincero e fedele. Quando nel 1937 il Governo ceco, già sottoposto a una certa pressione dai nazisti, inizia ad espellere i suoi profughi ebrei – ignorando il fatto che essi si sentano potenziali cittadini cechi –, il Sig. Cohn si sposta allora a Vienna, dove ci si può sistemare solo se si dà prova del proprio patriottismo austri- aco, il chè gli riesce bene. L'invasione tedesca lo costringe però a spostarsi ancora; arriva a Parigi, ma è un brutto momento e non gli viene dato un regolare permesso di soggiorno. Ad ogni modo egli non dà peso a questo piccolo inghippo amministra- tivo, convinto com‟è di passare il resto della sua vita in Francia, e prepara «il suo inserimento nella nazione francese identificandosi col “nostro” avo Vercingetori- ge»103. Arendt comprende e accetta il necessario adattamento alla realtà in cui si vi-

ve, che passa ad esempio attraverso l'apprendimento di una lingua; ciò contro cui si scaglia è l‟atteggiamento di quanti si adattano «a qualunque cosa e a chiunque»104

il fatto cioè che molti siano pronti «a pagare qualsiasi prezzo per essere accettati

96 Ivi, pp. 25-26. 97 Ivi, p. 23. 98 Ivi, p. 27. 99 Ivi, p. 24. 100 Ivi, p. 29. 101 Ivi, p. 31. 102 Ivi, p. 29. 103 Ibidem. 104 Ivi, p. 30.

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dalla società»105 –, e lo fa appunto mettendo in evidenza il carattere a dir poco grot-

tesco di una vita da Sig. Cohn, l‟immigrato ideale che si trasforma da super-patriota tedesco in patriota, di esilio in esilio, ceco, austriaco e francese. Detto altrimenti, Arendt critica quelli che, non avendo il coraggio di lottare per un cambiamento della loro condizione sociale e giuridica, decidono di provare a cambiare la loro identità, senza rendersi conto di quanto questo obiettivo sia illusorio:

«Qualunque cosa facciamo, qualunque cosa pretendiamo di essere, non rive- liamo altro che il nostro insano desiderio di essere trasformati, di non essere ebrei. Tutte le nostre attività sono dirette a questo scopo: non vogliamo essere profughi perché non vogliamo essere ebrei; fingiamo di essere di lingua ingle- se, perché gli immigrati di lingua tedesca degli ultimi anni vengono bollati come ebrei; evitiamo di chiamarci apolidi, perché la maggior parte di coloro che nel mondo sono senza nazionalità è costituita da ebrei, vorremmo diven- tare fedeli ottentotti solo per nascondere il fatto che siamo ebrei. Non rag- giungiamo lo scopo, né possiamo raggiungerlo; sotto la copertura del nostro “ottimismo” si può scorgere facilmente la tristezza senza speranza di chi so- stiene l'assimilazionismo»106.

Ecco allora che «la confusione in cui noi viviamo è in parte opera nostra»107. È preci-

samente l‟assoluta ostinazione a rifiutare di mantenere la propria identità la causa della disperata confusione di questi Ulissi-erranti che, come il loro insigne prototi- po, non sanno chi sono: «finché il Sig. Cohn non si risolverà ad essere ciò che real- mente è, un ebreo, nessuno potrà prevedere tutti i folli cambiamenti che dovrà an- cora affrontare»108.

Dal momento che negare la propria identità e la propria storia comporta che si ac- cetti immediatamente e in toto la nuova realtà, e che ci si affidi ciecamente ad essa, i rischi insiti in un'inclusione di tipo assimilazionista sono evidenti:

«Per sette anni abbiamo recitato la ridicola parte di quelli che cercano di esse- re francesi – o, per lo meno, potenziali cittadini –; eppure, all'inizio della guer- ra, siamo stati ugualmente internati come boches. Nel frattempo, tuttavia, la maggior parte di noi è diventata a tal punto fedele alla Francia, che non ab- biamo potuto nemmeno criticare un ordine del governo francese. Così abbia- mo dato il benestare al nostro stesso internamento. Siamo stati i primi pri-

sonniers volontaires che la storia ricordi»109.

Arendt ironizza su quanti si entusiasmano per ogni nuova opportunità che, appun- to perché nuova, sembra poter fare il miracolo, cambiare lo stato delle cose come un colpo di bacchetta magica. È questo il caso dei molti che sono affascinati da ogni nuova nazione nello stesso modo in cui una donna dal fisico molto robusto è felice di ogni nuovo vestito che sembri assicurarle il giro di vita che desidera. Tuttavia, questa donna sfoggerà con orgoglio il nuovo abito solo fino a quando avrà fiducia nelle sue proprietà miracolose, e lo butterà via appena scoprirà che esso non cam- bia la sua figura - o, nel caso che qui ci interessa, il suo „status‟. Poi però aggiunge:

«Prima di gettare la prima pietra contro di noi, ricordate che essere ebrei non dà alcuno "status" giuridico in questo mondo. Se cominciassimo a dire la veri- tà, e cioè che non siamo altro che ebrei, ciò significherebbe esporci al destino degli esseri umani i quali, non essendo protetti da alcuna specifica legge o

105 Ivi, p. 31. 106 Ivi, p. 29.

107 Ibidem. Arendt accenna qui a quell‟idea di „parziale responsabilità‟ di cui si è parlato nella nota 85

di questo capitolo.

108 Ibidem. 109 Ivi, p. 28.

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convenzione politica, non sono altro che esseri umani. Mi è difficile immagi- nare un atteggiamento più pericoloso, perché realmente viviamo in un mondo in cui gli esseri umani in quanto tali hanno cessato di vivere per tanto tem- po»110.

La critica all'assimilazione attraversa tutta l‟opera arendtiana e, come abbiamo vi- sto, trova il suo centro di riferimento nella figura del paria; ed è proprio parlando dei paria che Arendt conclude Noi profughi: alla fine del saggio, infatti, l‟autrice ri- pone le sue speranze nei profughi-paria, i quali sono consapevoli della loro condi- zione e sono disposti a «dire la verità, addirittura fino all‟"indecenza"»111. Pur pro-

vando il naturale bisogno di sentirsi al sicuro e di essere accettati dalla società («perdiamo fiducia in noi stessi se la società non ci approva»112), dal margine della

società – dove realmente vivono – essi riescono a tenere aperta la possibilità dell‟azione e della comprensione della realtà:

«Per loro la storia non è più un libro chiuso e la politica non è più un privile- gio dei gentili. Sanno che la proscrizione del popolo ebraico in Europa è stata subito seguita da quella della maggior parte delle nazioni europee. I profughi costretti di paese in paese rappresentano l'avanguardia dei loro popoli – se conservano l'identità. Per la prima volta la storia ebraica non è separata, ben- sì legata a quella di tutte le altre nazioni»113.

Nel suo interrogarsi sul rapporto tra l'individuo e il mondo a partire dalla moderna vicenda politica degli ebrei, Arendt non cade mai – è bene precisarlo – nella tenta- zione di fissare un'alternativa semplificante (e banalizzante) tra inclusione ed esclu- sione. Non attribuisce alcun significato liberatorio alla posizione degli esclusi («i po- chissimi tra noi che hanno cercato di tirare avanti senza […] trucchi e […] farse hanno pagato un prezzo sproporzionato rispetto ai loro sforzi: hanno messo in peri- colo le poche opportunità che un mondo sconvolto offre anche ai proscritti»114), e

non considera di per sé oppressiva l'inclusione nella comunità. Come osserva giu- stamente Ilaria Possenti, il problema che Arendt ci aiuta a formulare è semmai quello della libertà, intesa come «possibilità di "stare dentro" senza venire per que- sto inclusi, chiusi dentro, vincolati a una rigida identità collettiva; e come possibili- tà di "stare fuori", di uscire dal cerchio magico dell'appartenenza, senza ritrovarsi per questo exclusi, chiusi fuori dalle mura della polis»115.

Quel che qui ci interessa evidenziare è che, secondo Hannah Arendt,

«solo nell'ambito di un popolo l'individuo può vivere come un uomo fra gli uomini senza rischiare di morire per mancanza di forza. E solo un popolo in comunità con altri popoli può contribuire a costruire sulla terra un mondo umano creato e gestito dalla collaborazione fra tutti gli uomini»116.

Ecco perché ella ritiene che per il popolo ebraico sia di vitale importanza uscire da quella condizione di diversità e di emarginazione che da secoli lo caratterizza, e di- ventare un popolo come tutti gli altri117. La sua emancipazione, di fronte ai pericoli

110 Ivi, p. 31. 111 Ibidem. 112 Ibidem. 113 Ivi, pp. 31-2. 114 Ivi, p. 31. 115 I. Possenti, 2002, p. 21.

116 H. Arendt, 1944b; trad. it. p. 84.

117 Arendt richiama l‟attenzione anche sul problema del difficile rapporto tra ebrei profughi e nativi. I

nativi sono sospettosi nei confronti dei profughi, per cui il fatto stesso di essere profughi impedisce a molti ebrei di mescolarsi con le comunità di ebrei nativi: «Queste leggi sociali non scritte, per quanto mai riconosciute pubblicamente, hanno la stessa grande efficacia dell'opinione pubblica. E una tacita

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dell'antisemitismo e del totalitarismo118, può avvenire solo nell'ambito di una pro-

spettiva politica, e «l'unica risposta politica che gli ebrei [abbiano saputo] trovare al movimento antisemitico e, insieme, l'unica loro ideologia che [abbia preso] sul serio quell'ostilità che li avrebbe spinti al centro degli avvenimenti mondiali»119, per A-

rendt è stata la nascita del sionismo – il primo tentativo di trasformare la questione ebraica da una faccenda privata e sociale in una politica e pubblica.

opinione e consuetudine di tal genere è più importante per le nostre vite quotidiane di tutte le dichia- razioni ufficiali di ospitalità e di buona volontà». H. Arendt, 1943a, cit., p. 29.

118 Per un‟ottima analisi del totalitarismo si veda S. Forti, 2001. 119 H. Arendt, 1951a, cit., p. 168.

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CAPITOLO SECONDO

1. Premessa

Alla fine dell‟università, mentre si sta preparando a scrivere una monografia sul romanticismo tedesco, Hannah Arendt trova sulla sua strada Rahel Varnhagen (stimata animatrice, in gioventù, di un salotto frequentato dai berlinesi „illuminati"), che la colpisce con la sua «intelligenza fresca, originale, anticonformista, associata a un vivo interesse per la gente e a una natura appassionata»1. L‟amica Anne Mendel-

ssohn le passa i molti volumi della corrispondenza di Rahel, che lei ha letto con tra- sporto dopo esserseli trovati tra le mani quasi per caso (li ha comprati per pochi soldi da un libraio fallito), che vanno ad aggiungersi al gigantesco programma di let- ture che Arendt deve affrontare in vista del nuovo lavoro.

Nell‟estate del 1929 fa domanda alla Notgemeinschaft der deutschen Wissenschaft per ottenere una borsa di studio che le permetta di dedicarsi al suo progetto di ri- cerca, e – grazie anche alle lettere di presentazione di Karl Jaspers, Martin Heideg- ger e Martin Dibelius – la sua domanda viene accolta proprio mentre lei sta ulti- mando la revisione della sua dissertazione di dottorato2 sul concetto di „amore‟ negli

scritti di Agostino3.

Gli anni in cui Arendt elabora la biografia di Rahel Varnhagen sono anche quelli nei quali fa le sue prime esperienze giornalistiche. Vale la pena di ricordarne un paio, particolarmente significative ai fini del nostro discorso: la prima perché ci permette di mostrare il collegamento tra il testo su Agostino e quello su Rahel, la seconda perché è il primo scritto arendtiano su un tema politico4.

Nel 1930, la "Frankfurter Zeitung" pubblica un suo breve articolo su sant'Agostino e il protestantesimo. Qui Arendt celebra il millecinquecentesimo anniversario della morte di Agostino osservando come «in Italia, Francia e Germania, i giornali cattolici [celebrino] questo evento con una miriade di articoli e in convegni dedicati alla me- moria di Agostino, ecclesiastici e studiosi [discutano] il significato della sua opera, della sua persona e della sua influenza [mentre] nel mondo protestante […] Agostino [sia] in larga misura dimenticato»5. Opinione questa certo piuttosto discutibile, che

infatti lascia sconcertati quei teologi protestanti che conoscono le moltissime pagine dedicate in anni recenti ad Agostino da autorevoli studiosi tedeschi. Ma con il suo articolo Arendt non si rivolge a loro, quanto piuttosto ai protestanti in generale, e il suo intento è solo quello di mettere in evidenza il debito di Lutero nei confronti di Agostino: Lutero «era a tal punto convinto di procedere lungo il sentiero […] traccia- to [da Agostino] da arrivare a rinnegare Tommaso d'Aquino e, con lui, la tradizione aristotelica […]. Risalendo indietro nei secoli e oltre l'era cattolica, Lutero derivò da Agostino il suo concetto di credente, la cui coscienza si trova in relazione diretta con Dio»6. È questa eredità d'interesse per la coscienza personale che Arendt invoca nel

suo articolo, un testo che rappresenta per lei una sorta di „scritto di raccordo‟ tra i suoi vecchi studi filosofici e l'attuale lavoro sui romantici. Ecco allora che scrive