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Nessuna profezia, solo realismo

Nei testi di "Aufbau" Hannah Arendt denuncia la minaccia del politico, tra l'altro mediante il «terrore contro le opinioni»152 e una «solidarietà della paura»153. Con la

sua critica alla propaganda come mezzo della politica, al predominio della propa- ganda sulla realtà e alla subordinazione del presente al futuro, comincia a delineare già in tempo di guerra idee e concetti che in seguito diventeranno elementi impor- tanti della sua riflessione teorica sul totalitarismo. In About Collaboration [Sulla col- laborazione], pubblicato nell‟ottobre del 1948, osserverà come in Palestina stia na- scendo qualcosa di molto simile alla crescente unanimità che riscontra tra gli ebrei d'America. Il sionismo è stato una questione di schieramento tra gli ebrei americani, e analogamente la questione araba e il problema dello Stato sono stati oggetto di controversia nel movimento sionista e in Palestina; tuttavia le sembra che ormai re- sti davvero poco di quelle differenze di posizione. Ai suoi occhi, ancor più sorpren- dente dell'unanimità di opinione che si sta diffondendo tra gli ebrei di Palestina da un lato e gli ebrei d'America dall'altro, è il fatto che gli uni e gli altri concordino so- stanzialmente su alcuni giudizi:

«È giunto il momento di ottenere tutto o niente, vittoria o morte; le rivendica- zioni arabe sono inconciliabili con quelle ebraiche e il problema può essere ri- solto solo militarmente; […] tutti gli arabi […] sono nostri nemici e noi accet- tiamo questa realtà come un dato di fatto, solo i liberali antiquati credono nei compromessi, solo i filistei credono nella giustizia, e solo gli “Schlemihl” prefe- riscono […] il negoziato […] alle mitragliatrici; l'esperienza degli ebrei negli ul- timi decenni – […] o negli ultimi duemila anni – ci ha alla fine aperto gli occhi e ci ha insegnato ad aver cura di noi stessi; […] tutti sono contro di noi; […] noi non contiamo che su noi stessi; […] noi siamo pronti a cadere combatten- do, e considereremo chiunque ci sarà d'ostacolo un traditore e qualunque co- sa fatta per ostacolarci una pugnalata alla schiena»154.

Sarebbe sciocco, continua, negare l'intima connessione che esiste tra questa dispo- sizione d'animo degli ebrei di ogni parte del mondo e la recente catastrofe europea, con l'incredibile ingiustizia ad essa seguita e la durezza manifestata nei confronti dei sopravvissuti, che sono stati trasformati in profughi. Da ciò è risultato un sor- prendente e rapido mutamento in quello che gli ebrei chiamano carattere nazionale: all‟improvviso il popolo ebraico ha smesso di credere nella sopravvivenza come su- premo bene in sé ed è passato in pochi anni all'estremo opposto, ovvero a credere nel combattimento ad ogni costo:

«[Ora gli ebrei] ritengono che “cadere” sia un modo assennato di fare politica. L'unanimità di opinione è un fenomeno alquanto sinistro e una caratteristica della nostra moderna epoca di massa. Essa distrugge la vita pubblica e per- sonale, che è basata sul fatto che gli uomini sono diversi per natura e per convinzioni. Il fatto di avere opinioni differenti e di renderci conto che altri la possono pensare diversamente sullo stesso argomento ci impedisce di nutrire certezze dogmatiche, che mettono fine ad ogni discussione e riducono le rela- zioni sociali a quelle esistenti in un formicaio. Una pubblica opinione unani- me tende ad eliminare completamente coloro che dissentono. Perché l'unani- mità di massa non è il risultato di un accordo, ma un'espressione di fanati- smo e di isteria155. Diversamente dall'accordo, l'unanimità non si ferma a temi

152 H. Arendt, 1944u; trad. it. p. 127. 153 H. Arendt, 1942g; trad. it. p. 35. 154 H. Arendt, 1948g; trad. it. p. 104.

155 «Una sensibile diminuzione nel senso comune in una comunità e un sensibile aumento di supersti-

zione e credulità sono […] segni quasi infallibili di alienazione dal mondo». H. Arendt, 1958a; trad. it. p. 154.

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ben definiti, ma si espande come un'infezione ad ogni questione ad essi colle- gata»156.

Pluralità e libertà157, i presupposti di fondo della concezione arendtiana della politi-

ca, sono messe in pericolo, secondo le sue analisi degli anni Sessanta, non solo da dittature e regimi totalitari, ma anche – nelle moderne società di massa – da con- sumismo e conformismo. A partire dalla sua analisi della minaccia del politico ini- ziata in tempo di guerra, Arendt non solo difende il mantenimento dello spazio poli- tico, ma ne cerca anche il rinnovamento permanente: così negli anni Sessanta stu- dierà la storia delle Rivoluzioni francese e americana, e indagherà le opportunità del sistema dei consigli per la democrazia. La sua scommessa contro il totalitarismo riguarda la salvezza della politica: della facoltà e libertà umana di agire. La libertà e le stesse garanzie giuridiche per tutti che ella chiede nel 1942 per gli arabi palesti- nesi riemergeranno negli anni Cinquanta e Sessanta, quando Arendt chiederà l'e- quiparazione giuridica dei neri in America, mentre dopo il rapporto Eichmann ella avanzerà ancora la stessa richiesta per gli arabi in Israele.

Nel 1944 Hannah Arendt coglie al volo un'occasione di lavorare e pensare al futuro con un gruppo politicamente non allineato. Ha così il suo primo posto americano con paga a tempo pieno, come direttrice di ricerca presso la Conference on Jewish Relations (che in seguito prenderà il nome di Conference on Jewish Social Studies). La rivista "Jewish Social Studies" è una parte importante dei compiti istituzionali dell'organizzazione, che prevedono fra l'altro di presentare al pubblico dati sulla po- sizione degli ebrei nel mondo moderno, coi quali combattere la propaganda antise- mita dei nazisti. A partire dal 1944, Arendt – insieme ad un gruppo di collaboratori – prepara un elenco provvisorio in quattro parti dei tesori culturali ebraici arraffati dai nazionalsocialisti in ogni parte d'Europa, che viene pubblicato nel 1946-48 in altrettanti numeri dei "Jewish Social Studies", dando alla Commissione per la rico- struzione della cultura ebraica in Europa una base di trattativa nel suo tentativo di recuperare, per gli ebrei europei sopravvissuti, ciò che rimane della loro cultura. Il compito della Commissione è quello di accertare chi siano gli attuali proprietari e in che mani siano finiti le biblioteche, gli oggetti d'arte e di culto; di definire poi in che modo li si possa recuperare e proporre a quali persone o istituzioni ebraiche resti- tuirli o eventualmente affidarli. Per compilare tali elenchi, Arendt e i suoi collabora- tori intervistano quei profughi ebrei che in Europa hanno lavorato nelle biblioteche, nelle scuole e nei musei. Questo lavoro158 è una dolorosa preparazione all'incontro

con quella Germania dalla quale è stata cacciata nel 1933: nel 1948 la Commissio- ne diventa un ente chiamato Jewish Cultural Reconstruction, all‟interno del quale Arendt assume l‟incarico di direttrice esecutiva – ruolo che conserverà fino al 1952 –, ed è proprio in questa veste che a cavallo tra il 1949 e il 1950 trascorre alcuni

156 H. Arendt, 1948g, cit., p. 105.

157 Sull‟importanza della libertà nella riflessione arendtiana si veda il saggio di G. Kohn intitolato

Per una comprensione dell‟azione, raccolto in S. Forti (a cura di), 1999, pp. 155-76; ma anche J. Glenn Gray, 1979; R. Beiner, 1984; A. Cavarero, 1991;

Non da ultimo sulla base dell‟esperienza della sua apolidia, Arendt arriva alla conclusione che sia necessario garantire a tutti gli uomini diritti e libertà, indipendentemente dalla loro appartenenza ad uno Stato o ad una nazione: la libertà di esprimere la propria opinione, la libertà di parlare con gli altri (e di essere ascoltati) e la libertà di movimento. La libertà di movimento però include due altre libertà, che i sionisti non prendono minimamente in considerazione (negli anni Quaranta co- me pure in seguito): la libertà degli arabi palestinesi di vivere in Palestina come cittadini aventi pa- ri diritti, e la libertà degli ebrei – dopo la guerra – di andare dove vogliono, senza dover tornare cioè nel luogo di provenienza né essere deportati forzatamente in Palestina.

158 È proprio la ricerca fatta in preparazione degli elenchi a dare ad Hannah Arendt una delle sue

prime intuizioni rivelatrici sulla struttura stratificata, a cipolla, dei regimi totalitari. Cfr. H. Arendt,

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mesi in Europa159 per dirigere un'operazione che si conclude con il recupero di un

milione e mezzo di volumi di ebraismo e di giudaismo, oltre a migliaia di oggetti ar- tistici e di culto, e più di mille pergamene legali.

Durante i sei mesi trascorsi nel vecchio continente, Arendt va diverse volte a Basi- lea a trovare Jaspers. I due hanno ripreso i contatti nell‟autunno 1945160, e se le lo-

159 Durante questo soggiorno, Arendt scrive molto spesso a Blücher, e le sue lettere danno voce ad una

grande emozione. Cfr. ad esempio H. Arendt a H. Blücher,lettera del 28 novembre 1949, in Arendt, 1996a; ed. inglese pp. 99-101. Mentre ripercorre

la terra delle sue origini, è incredula di fronte alla corruzione e alla disperazione, profondamente colpi- ta dalle terribili condizioni dei profughi, consapevole del malessere nascosto dietro la facciata delle cit- tà ricostruite e degli immensi sforzi che tutti fanno per mostrarsi gentili e cordiali. Registrerà poi le sue osservazioni in un articolo che apparirà su "Commentary" nell'ottobre 1950, intitolato The Aftermath of

Nazi Rule. A Report from Germany [I postumi del dominio nazista: reportage dalla Germania] (1950f).

Questo scritto suona come una continuazione di The origins of totalitarianism. In esso Arendt descrive gli effetti provocati sul popolo tedesco da dodici anni di governo totalitario, e nelle cose che descrive trova una conferma alla sua teoria che il totalitarismo sia qualcosa di più del genere peggiore di tiran- nide, perché taglia le radici della vita politica, sociale e personale di un popolo. Commisera l'incapacità dei tedeschi sia di affrontare la realtà della distruzione del loro Paese, sia di meditare sugli eventi che l'hanno provocata. E sottovaluta la possibilità di ricostruire, sia pure in maniera precaria, l‟economia e la competitività industriale del paese senza la preliminare formazione di nuove radici. Nel suo deva- stante giudizio sulla Germania, c'è una sola, luminosa eccezione: Berlino. Berlino – la città divisa, di cui in verità Arendt ha modo di vedere, durante i suoi viaggi, solo la zona occidentale – ottiene la pa- gella migliore. Nelle lettere inviate al marito usa toni sognanti descrivendo la diversa mentalità dei ber- linesi, il loro umorismo, la loro lucidità, il loro sano buon senso. Il giudizio le viene suggerito, oltre che dai tassisti di quella città, da Ernst Grumach, l‟amico di gioventù che ha modo di rincontrare in quella circostanza. Arendt è incredula e felice: «È quasi da non credere, ma sono di nuovo a Berlino – di nuo- vo cioè dopo diciassette anni. Sono piena di cose da fare, ma ti devo scrivere. Grumach è venuto a prendermi all'aeroporto e siamo sempre insieme. Ha un'affascinante moglie della Prussia orientale e una figlia meravigliosa; è malinconico, completamente libero e aperto, infantile, ma abbiamo già avuto una grossa discussione in un caffè – prima di montagne di dolci e panna montata – sulla religione e sul sionismo. Solo come dovrebbe essere – la terra li sta generando una volta in più, come li ha sempre generati. Ernst scrive di nuovo poesie. Accludo a questa lettera una copia di una poesia che celebra il trentesimo anniversario della nostra amicizia». H. Arendt a H. Blücher, lettera del 14 febbraio 1950, in Arendt, 1996a, cit.; ed. inglese p. 133 (traduzione mia). Si rallegra di poter parlare di nuovo nel dialet- to della Prussia orientale, cosa che le dà grande soddisfazione. Grumach, per parte sua, le è di grande aiuto nel lavoro di ricerca e di ricupero dei tesori d'arte rubati agli ebrei (lo rivedrà poi ripetutamente negli anni seguenti*, quando tornerà di nuovo in Germania, sempre per incarico della Jewish Cultural Reconstruction). Ernst Grumach è un rinomato studioso di filologia classica e uno specialista di Goe- the. È riuscito a sopravvivere a Berlino negli anni del nazionalsocialismo perché sposato con una don- na non ebrea. Durante la guerra, la direzione centrale per la sicurezza dello Stato lo ha arruolato a for- za – insieme a parecchi altri grecisti, latinisti, bizantinisti, egittologi e giudaisti ebrei – e usato come archivista per la catalogazione delle biblioteche sottratte agli ebrei. Quindi ha avuto modo di radunare una conoscenza vastissima in materia di opere trafugate, e dopo il 1945 è diventato un perito giudizia- rio molto richiesto nei processi per la restituzione degli oggetti predati ai loro legittimi proprietari (per- sone ed enti). Cfr. A. Grunenberg, 2006, cit., pp. 277-78.

* Con il suo scettico riavvicinamento alla Germania, Arendt finisce ovviamente coinvolta anche nelle turbolenze dello scenario intellettuale. Nella primavera del 1952 affronta un nuovo viaggio in Europa. Si reca prima a Parigi e poi in Germania. Nota che il clima intellettuale dopo la guerra è provinciale, segnato da una profonda lacerazione, e percorso da rancori personali. E questo non solo sul versante di Heidegger e dei suoi amici, ma anche nel resto della Germania. Nel luglio del 1952 riferisce al mari- to di una sua visita a Heidelberg. Vi ha tenuto una conferenza su Ideologia e terrore [1953a], un tema che ha aggiunto come capitolo conclusivo all'edizione tedesca del volume sul totalitarismo e nel quale ha elaborato per il pubblico europeo la sua tesi secondo cui lo Stato totalitario moderno sarebbe un'entità politica senza precedenti. A Heidelberg – scrive a Blücher – si è imbattuta in pochi ma buoni studenti, ma anche in schieramenti contrapposti all'interno dell'università. Ha preso parte anche lei, con l'amico Gurian, a un dibattito, nel corso del quale Gurian, «sentendosi provocato, ad un certo pun- to è diventato (cosa comprensibile) maledettamente rozzo». H. Arendt a H. Blücher, lettera del 18 luglio 1952, in Arendt, 1996a, cit.; ed. inglese p. 205 (traduzione mia). Al che parecchi studenti, professori e il decano della facoltà di Teologia hanno abbandonato la sala sbattendo le porte dietro di loro.

160 In novembre lei gli scrive: «Caro, caro Karl Jaspers, da quando so che voi due siete usciti sani e sal-

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ro lettere si riallacciano al mondo di un tempo, il rapporto maestro-allieva si è or- mai trasformato in un rapporto d'amicizia. Dal carteggio emergono continui accenni alle caotiche condizioni postbelliche, e le differenti esperienze della catastrofe costi- tuiscono come una barriera tra loro – barriera che tuttavia non ostacola lo scambio, ma lo rende semmai più intenso e profondo. Uno di questi gap – sul quale vale la pena spendere qualche parola in questa sede – è quello di colpa. Jaspers distingue quattro tipi di colpa e di rapporto con la colpa: quella criminale, quella politica, quella morale e quella metafisica161. Sfaccettando la questione della colpa in più

dimensioni, egli vuole coinvolgere tutti quelli che tentano di sottrarsi alla discus- sione sulla responsabilità per quanto è accaduto. E con questa sua divisione della colpa in diverse categorie, Jaspers avvia – o, meglio, condiziona in larga misura – un dibattito che negli anni successivi verrà ripetutamente ripreso in Germania. Il concetto di colpa desunto dalla tradizione giudaico-cristiana è per Jaspers, ma an- che per le due principali Chiese cristiane e per una parte dell'intellettualità tedesca, l'unico strumento rimasto per approcciarsi al crimine commesso dai tedeschi e al suo effetto sulla loro cultura e sulla loro mentalità. Arendt assume un'altra pro- spettiva. Nel suo articolo Organized Guilt and Universal Responsibility [Colpa orga- nizzata e responsabilità universale], pubblicato nel 1945, parte certo anche lei dal concetto di colpa, salvo poi rifiutarlo subito: «quando tutti sono colpevoli nessuno può essere giudicato, poiché quella colpa non è congiunta nemmeno alla mera ap- parenza, la mera parvenza di responsabilità»162. Secondo lei non esiste, dunque,

una colpa senza responsabilità. Jaspers, al quale spedisce questo articolo nel 1946, risponde dicendo di essere d'accordo, benché la direzione dell'argomentazione espo- sta da Arendt si discosti completamente dalla sua163. Mentre Jaspers sostiene una

visione dall'interno (atteggiamento certo comprensibile dopo i dodici anni nei quali è stato suo malgrado chiuso in quel mondo164), Arendt sostiene quella dall'ester-

no165; per lei il „problema tedesco‟ si risolverebbe solo in una ricostituzione dell'Eu-

ropa sul piano politico come unione federale di Stati166. Discutendone con suo ma-

rito, Arendt si è resa conto che il concetto di colpa non è adatto per riuscire a com-

sto mondo. Non ho bisogno di dirLe che per anni e anni ho pensato a voi con angoscia […]. Ma ciò che ora vorrei dirLe, visto che da più di dodici anni non ho avuto alcuna possibilità di scrivere,17 è questo: in tutti gli anni trascorsi senza contatti tra noi, posso avere pensato o fatto qualcosa che Le sembrerà strano, eppure sempre, di qualunque cosa si sia trattato, ho provato ad immaginare come l'avrei rac- contata a Lei, o come l'avrei giustificata in Sua presenza. E quando oggi mi accade di leggere ancora questa o quella pagina della Sua Philosophie o qualche frase di un Suo discorso apparso sui giornali, Lei è per me presente come lo è stato negli anni della mia giovinezza». H. Arendt a K. Jaspers, lettera del 18 novembre 1945, in Arendt, 1985; trad. it. p. 40. Su Arendt e Jaspers si veda A. Cavarero, 1989.

161 Cfr. K. Jaspers, 1946.

162 H. Arendt, 1945a, cit., p. 162.

163 È interessante ricordare un passaggio della lettera di Jaspers, che acquista particolare pregnanza

se letto alla luce di quanto Arendt scriverà una quindicina d‟anni dopo: «Mi sembra, poiché così è, che si debbano ricondurre le cose alla loro pura e semplice banalità, alla loro piatta nullità – i batteri pro- vocano epidemie capaci di annientare intere popolazioni, eppure restano batteri e nulla più. Provo pa- ura quando mi accorgo che da qualche parte sta sorgendo un mito o una leggenda». K. Jaspers a H. Arendt, lettera del 19 ottobre 1946, in Arendt, 1985, cit., p. 70.

164 I primi segni di speranza arrivano sul finire del 1945. Nell'autunno di quell'anno viene autorizzata

la fondazione di nuove riviste e Jaspers, insieme al pubblicista Dolf Sternberger, al sociologo Alfred Weber, al romanista Werner Krauss e all'editore Lambert Schneider, dà vita a “Die Wandlung”, un pe- riodico che si propone di accompagnare il passaggio culturale e politico verso la democrazia nella Germania Occidentale. Cfr. E. Young-Bruehl, 1982, cit., p. 254.

165 Mentre Jaspers, con il suo ricorrere al concetto di colpa, rimane del tutto nell'ambito della tradizio-

ne, Arendt sostiene – tornando più volte a ribadirlo – che con la dominazione nazionalsocialista (e co- munista) sia avvenuta una profonda e non più rimediabile rottura nella tradizione.

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prendere «qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere»167. Nel luglio del 1946,

dopo aver letto Die Schuldfrage [La questione della colpa] di Jaspers, Blücher le scrive:

«Come ti ho già detto, l'intera questione della colpa serve solo come ipocrita chiacchiera cristiana: serve ai vincitori per spacciarsi per migliori, e ai vinti per continuare a occuparsi esclusivamente di se stessi (sia pure soltanto al nobile scopo di chiarirsi a se stessi.) In entrambi i casi la colpa serve a di- struggere la responsabilità. Tutto questo etico balbettio purificatore porta Ja- spers al punto di collocarsi solidalmente nella comunità popolare tedesca, perfino con i nazionalsocialisti, anziché essere solidale con i degradati e gli umiliati. […] Se Jaspers va alla ricerca della vera essenza tedesca, non troverà mai il vero conflitto tedesco, che è sempre esistito tra la volontà repubblicana- liberale di pochi e la tendenza cosacca-servile dei tanti»168.

Arendt trae dunque una conseguenza diametralmente opposta a quella a cui Ja- spers dà voce nel suo libro: lei si schiera per l'interpretazione politica di quanto ac- caduto, lui invece per quella morale. Al di là dei crimini e della responsabilità mora- le, Arendt vuole richiamare l'attenzione su qualcosa che è ormai per sempre di- strutto: la comunità politica che avrebbe dovuto rispondere della responsabilità dei cittadini. Più di vent'anni dopo delineerà così i concetti di „colpa‟, „responsabilità personale‟ e „responsabilità collettiva‟:

«Quando si è tutti colpevoli, in fin dei conti nessuno lo è. La colpa, a differen- za della responsabilità, ci singolarizza: è qualcosa di strettamente personale. Si riferisce a un'azione, non a un'intenzione o a una semplice potenzialità. So- lo in senso metaforico possiamo dire di sentirci colpevoli per i peccati dei no- stri padri, del nostro popolo o dell'umanità, per atti cioè che non abbiamo compiuto noi direttamente - anche se magari il corso degli eventi può farci pagare caro tutto questo. […] Due requisiti sono necessari perché si possa parlare di responsabilità collettiva: devo essere ritenuto responsabile di qual-